Grazie ai volontari del Progetto Griffo è online (disponibile per il download gratuito) l’ePub: La strada di Jack London.

 

London scrisse, tra il 1906 e l’inizio del 1907, nove articoli di contenuto autobiografico – pubblicati sul “Cosmopolitan” – che, l’anno successivo, vennero riuniti in volume dando vita a un vero e proprio romanzo autobiografico che prese il titolo di The Road. Era autore ormai affermato ma, scrivendo delle sue esperienze da hobo relative agli anni 1892 e poi nuovamente 1894, sfugge al tentativo di venire ingabbiato in uno schema “sociologico” che la stampa voleva cucire addosso allo scrittore più pagato d’America, forse per cercare di renderlo “rispettabile” agli occhi di quella borghesia alla quale aveva ormai accesso ma che continuava ad aborrire. Infatti London decide di dedicare l’incipit del libro alla precisazione che gli sta a cuore, con garbata ironia ma certo senza imbarazzanti tentennamenti:

«Ogni volta che trovo in giornali, riviste e dizionari bibliografici degli schizzi sulla mia vita, delicatamente tratteggiati, vengo a sapere che io, per studiare sociologia, divenni vagabondo. Ciò è molto simpatico e gentile da parte dei biografi, ma è inesatto.
Io divenni vagabondo… ebbene per la vitalità che era in me, per la passione di girovagare che ho nel sangue e che non mi lasciava tranquillo.
La sociologia fu puramente accidentale, venne dopo, allo stesso modo per cui ci si trova bagnati dopo un tuffo…»

Troviamo invece in queste pagine la consueta ansia di evasione, di insofferenza per la propria condizione che chi ha letto i maggiori romanzi di London – ad esempio Martin Eden – ben conosce. Il suo vagabondaggio corrisponde alla volontà di realizzare le proprie aspirazioni dentro alla realtà disumana e alienante del capitalismo americano. Lui vedrebbe quest’impresa collocata nel quadro di una presa di coscienza collettiva e di lotta nell’ambito di quel programma socialista dove la liberazione di tutti è la condizione per la liberazione di ognuno. Ovviamente l’impresa prefissa appare contraddittoria e, soprattutto, sproporzionata alle sue forze; in questi termini non può che portare alla sconfitta. Lasciando tuttavia contraddizioni feconde che consentono di valutare positivamente in ogni caso l’esperienza umana letteraria e politica dell’autore vista nel suo complesso.

Questo anelito lo troviamo praticamente in tutte le sue opere. Ricordo, tra le meno conosciute e, forse, anche tra le meno riuscite, John Barleycorn (in italiano tradotto spesso con il titolo Memorie di un bevitore, che conto di poter presentare presto nella biblioteca Manuzio nella traduzione di Arturo Salucci):

«con la testa piena di storie di vecchi viaggiatori, la fantasia piena di isole tropicali e rive lontane, stavo navigando a bordo di un palischermo attorno alla baia di San Francisco e all’estuario dell’Oakland. Volevo andar per mare. Volevo staccarmi dalla monotonia, dal luogo comune. Ero nel fiore della mia adolescenza, con in corpo il brivido romantico dell’avventura, sognando vita selvaggia nel mondo dell’uomo selvaggio.»

E invece di realizzare questo sogno è costretto a lavorare dieci ore al giorno in una fabbrica di conserve. Questo lo porterà a scrivere un altro del suoi romanzi “politici” più interessanti e di spessore, Il popolo dell’abisso. Negli anni tra il 1892 e il 1896, nei quali London realizza la sua esperienza di hobo, la moltitudine dei vagabondi e del proletariato migrante e itinerante non esercitava in realtà una grossa pressione politica – la lotta di classe nell’Ovest era caratterizzata soprattutto dalle rivendicazioni dei minatori – ma i governatori populisti avevano presente il problema. L’allora governatore del Kansas Lewelling diramò la Tramp Circular nella quale leggiamo, per esempio:

«Farsi trovare in una città ‘senza mezzi di sostentamento visibili e senza un’occupazione legittima’ è la condizione involontaria di alcuni milioni di persone attualmente [1893] e noi li puniamo in seguito a una situazione che noi stessi, come popolo, abbiamo loro imposto».

Sulla spinta di prese di posizione, come quella citata di Lewelling, si realizzano anche le iniziative delle marce su Washington dei “vagabondi” riuniti nell’esercito di Kelly e in quello di Coxey. Del primo London narra le vicende nel capitolo terzo (Duemila vagabondi) e parla anche dell’esercito di Coxey nel capitolo successivo. Ma solo occasionalmente la grande forza degli hoboes aderì al populismo. Le richieste del proletariato migrante erano in realtà diverse da una rivendicazione di lavoro stabile per gli operai e di interventi governativi per i contadini. Esisteva una diffusa contrarietà alla “schiavitù salariata” alla quale si contrapponeva la logica dell’«azione diretta». London aveva tuttavia ben chiaro che, negli anni durante i quali scriveva questo libro e che erano lontani quasi tre lustri dalle sue esperienze, tra i vagabondi si andava sviluppando un movimento politico che avrebbe avuto impatto notevole sulla società americana. Nel 1907 il punto di unione tra il nuovo sindacato degli wobblies (IWW, International Workers of the word) e il proletariato migrante si era ormai realizzato. Non posso dilungarmi sull’argomento in questa sede, mi limito a consigliare la lettura di testi importanti sull’esperienza degli wobblies, che da decenni esistono anche in italiano, ad esempio P. Renshaw Il sindacalismo rivoluzionario negli Stati Uniti. E London ha presente questa contingenza ad esempio quando parla dell’ordine penitenziario. Ma non ne coglie invece altri aspetti importanti, come il sorgere di forme organizzative adeguate, il walking delegate, cioè il delegato viaggiante che era in costante movimento in sintonia con i lavoratori migranti che rappresentava e organizzava. In questo forse sta il limite dell’opera: London era certamente un ribelle ma non un rivoluzionario. Nel suo saggio Perché sono diventato socialista dice:

«Incontrai ogni tipo di uomini, molti dei quali, un tempo, erano stati altrettanto in gamba di me, e altrettante ‘bestie bionde’: marinai, soldati, lavoratori, tutti straziati e distorti e sformati dal lavoro, dagli stenti e dalla sorte e abbandonati alla deriva dai loro padroni come fossero cavalli invecchiati. Io mi trascinai in giro con loro…[…]»

Risulta evidente quindi che importanza abbiano avuto nell’esperienza di London gli anni che rievoca in questo romanzo. Nonostante il suo comportamento “individualista” il contatto e il confronto con centinaia di sottoproletari e vagabondi furono determinanti per la sua presa di coscienza politica e per l’adesione al socialismo.

«Penso sia chiaro che il mio individualismo aggressivo mi fu tirato fuori a martellate, mentre qualcos’altro mi veniva inchiodato dentro con la stessa forza. Ma proprio come ero stato individualista senza saperlo, adesso ero un socialista senza saperlo, e per di più un socialista non scientifico».

Il romanzo non pretende quindi di dare risposte ma certamente fornisce degli spunti di riflessione in merito a un fenomeno, il vagabondaggio, che fu diffuso e di massa, una vera e propria condizione sociale. La capacità di London consiste anche nel saper cogliere le facce diverse e contraddittorie del fenomeno attraverso una narrazione che non è priva di una certa ironia. Avventura, emarginazione e rivolta si intrecciano lasciando trasparire l’anelito di libertà e la solidarietà tra gli hoboes, ma anche la violenza che permane tra loro e il dramma di essere buttato giù da un treno o braccato dalla polizia. Per ritrovare qualcosa della genuinità di questo testo – e per svincolare la tradizione del vagabondaggio dall’immagine di “moda” che troppo spesso ha assunto – bisogna attendere Bound for Glory (traduzione italiana Questa terra è la mia terra), autobiografia romanzata del folk singer Woody Guthrie, dalla quale è stato tratto anche un noto film del 1976 diretto da Hal Ashby.

Questo e-book ripropone la traduzione di Maria Carlesimo Pasquali, deceduta presumibilmente nel gennaio 1944, vittima di un insoluto caso di cronaca nera.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del primo articolo Ragazzi di strada e «gatti allegri»:

"La Strada" di Jack LondonOgni volta che trovo in giornali, riviste e dizionari bibliografici degli schizzi sulla mia vita, delicatamente tratteggiati, vengo a sapere che io, per studiare sociologia, divenni vagabondo. Ciò è molto simpatico e gentile da parte dei biografi, ma è inesatto.
Io divenni vagabondo… ebbene per la vitalità che era in me, per la passione di girovagare che ho nel sangue e che non mi lasciava tranquillo.
La sociologia fu puramente accidentale, venne dopo, allo stesso modo per cui ci si trova bagnati dopo un tuffo… Mi diedi alla strada perché non potevo starne lontano, perché non avevo in tasca denaro sufficiente per pagarmi il viaggio in ferrovia e perché ero fatto in modo tale che non avrei potuto lavorare per tutta la vita a uno stesso lavoro; perché… ebbene, perché era più facile agire così che altrimenti.
Questo accadde nella mia città natale, a Oakland, quando avevo sedici anni. A quell’epoca avevo acquistato una certa fama nel mio circolo ristretto di avventurieri, presso i quali ero conosciuto come il Principe dei Pirati d’ostriche.
È vero che quelli immediatamente fuori dalla mia cerchia, come gli onesti marinai nella baia, gli uomini della spiaggia, i padroni degli yacht e i legittimi proprietari delle ostriche mi chiamavano mascalzone, truffatore, ladro, strozzino e mi davano altri svariati epiteti, tutti molto complimentosi, ma questo non serviva che ad accrescere lo splendore dell’alto posto che occupavo.

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