Grazie ai volontari del Progetto Griffo è online (disponibile per il download gratuito) l’ePub: La luna e i falò di Cesare Pavese.

Pubblicato per la prima volta nell’aprile 1950, la data di composizione – come risulta dal manoscritto – è 18 settembre / 9 novembre 1949. Nello stesso anno della pubblicazione ebbe il premio Strega. Pochi mesi dopo Pavese metteva fine alla propria vita in un albergo di Torino. Anche per questo La Luna e i falò, attraverso il recupero di infanzia e adolescenza, assume l’aspetto della chiusura della parabola intellettuale dell’autore.

Agli arcaici riti della civiltà contadina, “Anguilla” – l’io narrante – guarda ormai con diffidenza; trovatello e accolto da una coppia di contadini, soprattutto per avere l’assegno di adozione, e poi trasferitosi al cascinale della “Mora” per guadagnare il suo primo salario, parte per l’America dopo il servizio militare a Genova. Oltre alla fortuna trova forse un’apertura mentale diversa.

A Nuto, suonatore di clarinetto e custode del regno mitologico dell’infanzia di Anguilla oltre che vecchio amico, che gli spiega gli effetti benefici dei falò di San Giovanni sulla fertilità dei campi dice: “Allora credi anche nella luna?”. “La luna, bisogna crederci per forza» risponde Nuto. «Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.”

Per il giovane “americano” queste superstizioni tengono nell’arretratezza il mondo contadino. Inutile prendersela con governo e preti per le loro fandonie se poi si dà credito a queste superstizioni. Ma l’attenzione per i falò si sposta su un altro genere di fuochi e incendi. Non più quelli di San Giovanni, ma l’incendio della cascina di Valino che, vessato dalla proprietaria, uccide famiglia e bestie, dà fuoco a tutto e si impicca; ma soprattutto quello che distrugge i resti di Santa, accusata di doppiogiochismo dai partigiani e trucidata.

Nuto ripercorre quei sentieri e lo scenario di quei giorni, il ricordo dei quali viene sempre riacceso da ritrovamenti di resti di vittime delle contrapposte violenze della guerra partigiana. E mette termine in questo modo alla rivisitazione di Anguilla della propria infanzia e adolescenza. «Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò.»

Attraverso continui flashback, che impongono una tecnica narrativa indubbiamente affascinante, assistiamo al percorso di crescita del giovane Anguilla; diventano centrali le storie delle tre figlie del proprietario della “Mora”. “Quando passavano col parasole, io dalla vigna le guardavo come si guarda due pesche troppo alte sul ramo.” In questa frase è condensato, in maniera che difficilmente poteva essere più efficace, il segreto invaghimento e la consapevolezza che le signorine borghesi aspirano all’aristocrazia e non consentono certo a lui, trovatello, di coltivare sciocche illusioni.

Il suo assistere alla rovina di Silvia e della bionda Irene è quindi soffocato da un senso di impotenza. Quando Anguilla viene in licenza da Genova trova che «Irene viveva a Nizza in una stanza dove Arturo la batteva». Irene era stata costretta a un matrimonio con un uomo che non amava e Silvia, passando da un amore all’altro, muore dopo un aborto. La terza, Santa, era ancora bambina quando Anguilla era partito per l’America.

E la sua fine è narrata, come abbiamo visto, da Nuto al termine del romanzo. Tra i personaggi non possiamo dimenticare Cinto, il figlio storpio di Valino e unico sopravvissuto della famiglia alla strage e all’incendio. Anche Cinto è “segnato” e non si fatica certo a riconoscere l’alter ego del narratore che, forse, percepisce in se stesso un “segno” interiore anche più profondo.

In questo racconto della Resistenza dei vivi e dei morti si comprende bene che la sensazione che provò Pavese fu che la bandiera della speranza, fatta sventolare dal vento di una riconquistata libertà, era ammainata dalla mortificazione nella quale i contadini, almeno quelli delle terre che conosceva così bene, proseguivano la loro vita fatta di fatica subumana e di pena.

Sarebbe probabilmente utile che, magari proprio partendo dalla rilettura di questo romanzo, Pavese potesse essere riproposto, anche agli studenti, al di fuori di schemi ideologici, abbattendo quindi barriere ormai assurde tra letteratura, storia e ideologia.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

“La luna e i falò” di Cesare PaveseC’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di piú che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c’è piú, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l’ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati che per vedere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già. C’era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po’ cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene. Padrino aveva allora il casotto di Gaminella – due stanze e una stalla – la capra e quella riva dei noccioli.

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