Grazie ai volontari del Progetto Griffo è online (disponibile per il download gratuito) l’ePub: Il dottor Jekyll di Robert Louis Stevenson.
Esistono personaggi forgiati dalla penna di scrittori, che vivono, grazie alla loro fantasia, nella trama di un racconto, ma superano poi il confine di questo e prendono vita assurgendo ai limiti dell’universalità entrando di prepotenza nell’immaginario collettivo. Per cui si usano termini come “bovarismo”, “edipico”, donchisciottesco”, “amletico”, “Lolita”, magari senza aver mai letto Flaubert, Sofocle, Cervantes, Shakespeare e Nabokov. Stesso destino è quello del dottor Jekyll. “Essere come Jekyll e Hyde” è divenuta una locuzione comunissima per indicare qualcuno che è anche solo sospettato di avere una doppia vita, una personalità mutevole e ambigua.
Stevenson scrisse quest’opera nel 1885, di getto, in seguito a un incubo notturno che realmente aveva sognato. La vicenda è talmente nota che non vale quasi la pena di rammentarla. Il generoso e probo dottor Jekyll, in seguito a una sua scoperta, riesce a trasformarsi in un essere, Edward Hyde, completamente opposto come caratteristiche morali: malvagio, dissoluto, violento e crudele. La metafora che generalmente si vuole attribuire alle intenzioni di Stevenson, cioè l’eterna lotta tra bene e male, ci fornisce oggi, a mio parere, un’interpretazione che finisce per limitare il fascino che il racconto continua ad esercitare su lettrici e lettori a distanza di oltre centotrent’anni. Se leggiamo con attenzione l’ultimo capitolo, che è la confessione di Jekyll all’amico Utterson, non può sfuggire l’attacco, tra i più duri ed efficaci che possiamo ricordare ad opera di un letterato, alla morale repressiva e puritana del periodo vittoriano. Dice Jekyll:
“Di qui venne ch’io cominciai a nascondere i miei piaceri, […] le poche sregolatezze di cui ero allora colpevole, ma dall’alto del piedestallo sul quale io avevo voluto ascendere e rimanere, io le esaminavo e le nascondevo con un sentimento di vergogna quasi morboso.”
“Fu dunque piuttosto il tono esigente delle mie aspirazioni spirituali, che non la particolare bruttura delle mie colpe, […] che divise in me, con un taglio più profondo che nella maggioranza degli uomini, le regioni del bene e del male, che dividono e formano la duplice anima umana.”
Ecco quindi che i desideri repressi sfociano in un’esplosione che è alla fine pericolosa. Il borghese e puritano Jekyll comprime quello che invece può sfogare con innaturale e moltiplicata violenza Edward Hyde, tramite un assurdo sadismo che sfocia nell’omicidio senza alcuna ragione. Naturalmente non si può tralasciare l’aspetto “magico” del racconto, che è legato strettamente al mito, sempre presente nella cultura occidentale, della sostituzione della creazione umana alla creazione divina; appare coronamento degli sforzi dell’alchimista medievale e rende Jekyll strettamente imparentato a Faust, Frankenstein, al personaggio di Kirillov de I Demoni di Dostoevskij e al Supermaschio di Jarry. Ancora una volta la morte viene sfidata per compiere l’impresa di svincolarsi dai limiti imposti dalla natura, per esorcizzare la paura dell’ignoto e per infrangere i divieti che precludono mondi ancora da esplorare. Per questo possiamo più o meno consciamente unirci a Jekyll nel rimpianto per il suo sogno impossibile. Dice Jekyll riferendosi a Hyde:
“Ma il suo amore per la vita era immenso. Io, che tremo al solo pensiero di lui, quando ricordo questo suo attaccamento alla vita, e quando penso come egli teme il potere che ho nelle mani di eliminarlo con il suicidio, trovo persino la forza nel mio cuore di avere una certa pietà.”
Possiamo temere e prendere le distanze da questa rincorsa verso una libertà senza limiti che sembra condurre al delitto senza rimorso, ma insieme a Jekyll possiamo provare ad amare Hyde, alla stessa maniera con la quale amiamo la libertà e i nostri sogni, con cautela ed apprensione.
Inutile ricordare in dettaglio le numerose trasposizioni cinematografiche del racconto. Trasposizioni che hanno contribuito in maniera determinante a proporre Hyde come mostro, fisicamente più vicino al licantropo e spesso grossolanamente orrorifico. Come dimenticare la trasformazione di Spencer Tracy nel film di Fleming del 1941, e di Fredric March nella prima delle versioni cinematografiche non mute della vicenda del dottor Jekyll ad opera di Mamoulian. Resto dell’opinione però che lo spirito della vicenda si ritrovi in maniera più limpida ed efficace nel meno noto Il testamento del mostro (Le testament du Docteur Cordelier) interpretato in maniera eccellente da Jean-Louis Barrault e diretto da Jean Renoir; i due riescono a mettere a profitto al meglio la loro esperienza in campo teatrale e a sfruttare pienamente le qualità versatili dell’attore protagonista. Questo consente al film di rispettare il fatto che l’immagine che Stevenson fornisce di Hyde è svincolata dalle convenzioni del racconto “gotico”. Il male assoluto impersonato da Hyde non si manifesta con una trasformazione fisica visivamente orrenda; è invece qualcosa di indefinibile che genera repulsione in chi lo avvicina e che però non sa spiegare le ragioni di questa repulsione. Sugli altri si riflette il male che Hyde ha dentro di sé, senza che il suo corpo subisca deformazioni evidenti e visibili. Per questa ragione non siamo di fronte a un racconto del terrore convenzionale, ma a un qualcosa che si colloca oltre questa gabbia, che è diverso e più “alto”. In questo senso il lavoro cinematografico di Renoir risulta il più convincente e rispettoso dell’idea di Stevenson.
Traduzione del 1934 di Gian Dàuli, più che buona e pienamente godibile anche oggi.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
L’Avvocato Utterson era un uomo dal volto burbero, mai illuminato da un sorriso, freddo, ritroso, impacciato nel discorso; alto, magro, trasandato nel vestire, ma nell’insieme riusciva simpatico.
Nelle riunioni amichevoli, e quando il vino era di suo gusto, un’espressione di grande bontà gli appariva nello sguardo; qualche cosa che non riusciva a concretarsi mai nei suoi discorsi, ma che si manifestava non soltanto a tavola, ma più spesso e più largamente negli atti della sua vita.
Era implacabile con sè stesso; beveva il gin quando era solo, per mortificare una tendenza per il vino, e benchè gli piacesse il teatro, non aveva varcato la soglia di uno di essi da venti anni. Era però molto tollerante con gli altri, e qualche volta pensava, quasi con un certo senso di invidia, all’alta prova di spirito di cui i malvagi davan prova alle loro malefatte, e in ogni eccesso piuttosto disposto ad aiutare che a biasimare. «Mi sento inclinato all’eresia di Caino» soleva dire scherzosamente, «lascio che il mio prossimo vada al diavolo come vuole». Sotto questo aspetto gli capitava spesso di essere l’ultimo amico rispettabile e l’ultima buona influenza nella vita di quelli destinati a perdersi. E nelle relazioni con costoro, finchè essi lo visitavano, mai mutava atteggiamento.
Senza dubbio il compito era facile per l’avvocato Utterson, poichè egli non era mai espansivo, anche le sue amicizie sembravano basate su questa buona indole naturale.
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