Grazie ai volontari del Progetto Griffo è online (disponibile per il download gratuito) l’ePub: Feria d’agosto di Cesare Pavese.

Feria d’agosto, pubblicato nel 1946, riunisce racconti brevi scritti prevalentemente tra il 1941 e il 1944 e talvolta già pubblicati su giornali. Quando uscì, questa raccolta non ebbe grande risonanza e il pubblico non la accolse con calore. Di Pavese vi era la forte eco del clamore suscitato da Paesi tuoi, romanzo ‘forte’ per la trattazione dell’incesto e per il linguaggio che richiama il dialetto. Così che questa raccolta di pensieri in forma di racconto, fatta di incanti sommessi e di una prosa attenta e rigorosa, pareva quasi in contrasto con il lavoro precedente.

Il libro è diviso in tre parti: Il mare, dove le memorie infantili ricreano un mondo ormai sedimentato nell’individuo; La città, dove l’età più matura si avvicina ad altre scoperte come la solitudine, i rapporti con le donne; La vigna, dove il divario fra uomo e ragazzo si fa dramma nel ricordo di un’età divenuta mito. Troviamo in queste pagine i temi più ricorrenti nelle opere di Pavese: la campagna, la memoria dell’infanzia, la contrapposizione con gli adulti, il desiderio di crescere ed uscire dal cerchio delle colline e conoscere il mondo, e poi i giovani che crescono e sperimentano lo spleen metropolitano, le amicizie balorde. La terza parte contiene anche riflessioni sul mito, sul simbolo e sulla poetica. La narrazione in prima persona permette a Pavese, in un continuo illudere il lettore che di se stesso egli stia raccontando, di assumere sempre il ruolo del protagonista. Nello stesso tempo lascia al racconto un’aura di meraviglia e di stupore.

Nella prima parte, i protagonisti sono tutti giovani, ragazzi alle soglie dell’adolescenza, con i problemi della loro età, la ribellione al conformismo e al timore dell’estraneo e del diverso tipico degli adulti dei luoghi montani, il desiderio di crescere e di conoscere il mondo al di là delle colline, il mistero del sesso visto spesso in dimensione violenta. Appartiene a questa parte il primo racconto pubblicato, Il nome, dove i due ragazzi che se ne vanno per le colline temono che la vipera venga a conoscere il nome di uno di loro, gridato dalla madre in ansia, e poi lo vada a cercare.

La seconda parte è dedicata alla città, luogo dell’affinamento delle esperienze, delle prime riflessioni sul proprio io in relazione al resto del mondo, delle nuove conoscenze, dello stupore di tutto ciò che non è colline e campi. La grande scoperta è la notte, la solitudine delle passeggiate sotto una luna che è altro dai falò delle sere d’estate, le vie e i vicoli deserti. Sono pagine di una forte qualità pittorica. In particolare certi racconti ambientati nella città richiamano il puro espressionismo.

Nella terza parte Pavese rivela la sua concezione del mito e del simbolo, in un continuo passaggio tra ciò che fu, tra la sua/nostra infanzia e ciò che ora siamo. Ogni luogo, pietra, ansa di torrente, sprazzo di azzurro nel cielo può diventare un mito. Pavese, nel racconto Del mito, del simbolo e d’altro, scrive:

«Ora, da bambini il mondo s’impara a conoscerlo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. […] le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno.»

Lo scrittore scrive di ‘ricerca del tempo perduto’ e di ‘tempo ritrovato’ con un chiaro riferimento a Proust e nel racconto L’adolescenza scrive:

«Il giorno in cui ci si accorge che le conoscenze e gli incontri che facciamo nei libri, erano quelli della nostra prima età, si esce d’adolescenza e s’intravede se stessi. […] Nulla è mutato nelle cose e persone della nostra piccola esistenza, siamo mutati noi: attraverso lo stupore che ciò che della vita abbiamo veduto e sentito sia lo stesso che muove e accende le alte fantasie dei libri, abbiamo capito di ammirare: abbiamo scoperto, afferrato un mondo, il nostro mondo. […] Nessun ragazzo, nessun uomo ammira un paesaggio prima che l’arte, la poesia – una semplice parola anche – gli abbiano aperto gli occhi. Ognuno ripensi a un’ora estatica della sua fanciullezza, e troverà sotto l’entusiasmo e la rivelazione, la traccia di gusto, libresca o no, che la sua qualsiasi cultura gli ha segnato.»

Pavese controbatte Proust per il quale, secondo lui, la ricerca del tempo perduto – lo scrittore francese in questa ricerca ravviserebbe la vita vera e tutta l’arte – è ottenuta attraverso il richiamo della sensazione pura, la famosa madeleine. Secondo Pavese questo non basta «perché il difficile non è risalire il passato bensí soffermarcisi». Ci piace a questo punto riportare un brano da Giornate di lettura di Proust del 1905:

«Non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d’un libro prediletto. Tutto quel che (a quanto ci sembrava) li riempiva per gli altri, e che noi scartavamo come ostacoli volgari a un piacere divino, il gioco per il quale un amico veniva a cercarci nel punto piú interessante; l’ape o il raggio di sole che ci davan fastidio, costringendoci ad alzar gli occhi dalla pagina o a cambiar di posto; le provviste che ci erano state date per l’ora di merenda e che lasciavamo accanto a noi sul sedile, senza toccarle, mentre, sopra il nostro capo, il sole diminuiva di forza nel cielo azzurro; il pranzo che ci aveva obbligati a rientrare e durante il quale pensavamo solo a salire subito dopo, in camera, a terminare il capitolo interrotto, tutto questo, di cui la lettura avrebbe dovuto farci sentire soltanto l’importunità, ne imprimeva invece in noi un ricordo talmente dolce (e, pel nostro giudizio attuale, piú prezioso di quel che leggevamo allora con amore) che, ancor oggi, se ci càpita di sfogliare quei libri di un tempo, li guardiamo come se fossero i soli calendari da noi conservati dei giorni che furono, e con la speranza di veder riflesse nelle loro pagine le dimore e gli stagni che più non esistono.» [Marcel Proust, Giornate di lettura : Scritti critici e letterari. Il Saggiatore, 1965. pagg.118-119]

Pur in un continuo e a volte disordinato esporre i suoi temi, restano dalla lettura di Feria d’agosto comunque fortissime evocazioni che rimandano ad un passato in cui ogni lettrice ed ogni lettore può ritrovarsi. È indubbiamente una raccolta di racconti che non possono che giovarsi di un esercizio di lettura profonda, quella che conduce alla comprensione ed alla condivisione, che avvia il ragionamento deduttivo, le abilità analogiche, l’analisi critica, la riflessione. Perchè quasi ogni pagina del libro ci mette di fronte al nostro passato, che riconosciamo come ‘comune’ passato.

Ci viene infine da chiedere se esista una ‘via piemontese’ alla memoria. Tornano in mente, per citare tre esempi ma tanti altri sono, le liriche di Guido Gozzano, le pagine di Lalla Romano, le pagine struggenti de Il mondo dei vinti e L’anello forte di Nuto Revelli. Xavier de Maistre (1763-1852), piemontese di adozione, nel suo Viaggio notturno intorno alla mia camera – presente qui in Liber Liber – scriveva:

«Il montanino prende affezione a quegli oggetti che ha veduto sempre dacché è nato, i quali hanno forme visibili ed eterne: egli riconosce il suo campo dalla cima del colle, da tutti i punti della valle. Il fragore del torrente che romoreggia fra gli scogli non viene giammai interrotto; ed il sentiero che mena al villaggio è fiancheggiato da una massa immobile di granito. Egli vede in sogno il contorno delle montagne che è rimasto impresso nel di lui cuore, come, dopo aver riguardato per lungo spazio di tempo le invetriate di una finestra, ne sembra di vederle anche ad occhi chiusi…»

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS

Dall’incipit del primo racconto Il nome:

"Feria d'agosto" di Cesare PaveseChi fossero i miei compagni di quelle giornate, non ricordo. Vivevano in una casa del paese, mi pare, di fronte a noi, dei ragazzi scamiciati – due – forse fratelli. Uno si chiamava Pale, da Pasquale, e può darsi che attribuisca il suo nome all’altro. Ma erano tanti i ragazzi che conoscevo di qua e di là.
Questo Pale – lungo lungo, con una bocca da cavallo – quando suo padre gliene dava un fracco scappava da casa e mancava per due o tre giorni; sicché, quando ricompariva, il padre era già all’agguato con la cinghia e tornava a spellarlo, e lui scappava un’altra volta e sua madre lo chiamava a gran voce, maledicendolo, da quella finestra scrostata che guardava sui prati, sui boschi del fiume, verso lo sbocco della valle. Certe mattine mi svegliavo all’urlo lamentoso, cadenzato, di quella donna da quella finestra. Molte vecchie chiamavano cosí i figli, ma il nome che faceva ammutolire tutti e che in certe ore echeggiava esasperante come le fucilate dei cacciatori, era quello di Pale. A volte anche noialtri si gridava quel nome per baldanza o per beffa. Credo che persino Pale si divertisse a urlarlo.

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