Si usa ricordare subito, quando si parla di Casa d’altri, il lusinghiero giudizio che ne diede Montale su “Il corriere della Sera” del 10 marzo 1954 nella recensione ospitata nella rubrica Letture.

Montale definì “racconto perfetto” questo testo; apprezza l’opera che affronta un tema a suo dire «non ancora affrontato, che si colloca alle soglie di una comunicabilità oltre la quale domina il silenzio». Per Montale Casa d’altri rientra nella tipologia del racconto lungo, che, dice, in Italia attecchisce male:

«Il racconto lungo nei suoi migliori modelli […] è a mezza via tra il romanzo breve e la prosa poetica. Come genere si potrebbe affermare che non sopporti l’affastellamento dei fatti […] e le troppo scoperte ricerche verbali. Punta soprattutto su effetti di ritmo, su pause, su un uso sapiente della cosiddetta durata. Solo un artista o un lettore di spirito meditativo può abbordare un tipo simile di racconto. Esso rappresenta l’ideale per quei narratori che si sentono troppo poeti per accettare le inevitabili imbottiture del romanzo a lungo metraggio. Casa d’altri è, in questa direzione, un racconto perfetto».

La vicenda editoriale di Casa d’altri è piuttosto complessa. In vita l’autore ebbe la soddisfazione di vederlo pubblicato su “Illustrazione italiana” nei numeri 29 e 30 del 1948 a firma Sandro Nedi e con il titolo Io prete e la vecchia Zelinda. Questa versione è piuttosto diversa da quella che conosciamo oggi e proviene probabilmente da un rimaneggiamento e abbreviamento che D’Arzo operò accogliendo il suggerimento degli editori, ai quali aveva sottoposto il testo, di indirizzarsi per la pubblicazione verso qualche rivista. Emilio Cecchi aveva però avanzato dei consigli, che furono accolti dall’autore. Rimangono quindi diversi dattiloscritti, con correzioni autografe differenti, oltre a un manoscritto. Subito dopo la morte dell’autore fu Anna Banti a voler pubblicare il racconto che apparirà su “Botteghe oscure” solo per l’impossibilità di pubblicarlo su “Paragone” – rivista sulla quale D’Arzo aveva pubblicato in più occasioni – a causa della esiguità della stessa.

Esce quindi sul decimo quaderno di “Botteghe Oscure” nel 1952 e passa rispetto alla versione precedente da 5 a 15 capitoli; l’anno successivo viene pubblicato nella “Biblioteca di Paragone” edita da Sansoni. Nel 1960 Vallecchi ne propone una riedizione assai diversa curata da Macchioni Jodi e ripresa successivamente da Einaudi. È chiaro come sia difficile valutare quale sia stata l’effettiva “ultima volontà” dell’autore – il giudizio di Montale si riferisce all’edizione del 1953 – ma certamente il lavoro scrupoloso dei curatori S. Costanzi, E. Orlandini e A. Sebastiani, che è sfociato nel 2003 in un’edizione delle opere di Silvio D’Arzo, consente oggi di apprezzare questo testo nella sua completezza (quello proposto da Einaudi è ridotto di quasi un terzo). Questo e-book è basato sull’edizione autonoma Monte Università Parma del 2006 identica a quella compresa nel già citato volume di opere del 2003. La stessa versione era stata pubblicata dalle edizioni Aragno di Torino nel 2002 a cura di S. Costanzi dove troviamo ricostruita nel dettaglio la vicenda testuale estremamente complessa di questo racconto.

L’elemento narrativo essenziale consiste in quello che Giorgio Manganelli ebbe a definite una “tragedia teologica”, imperniata sulla domanda che l’anziana lavandaia Zelinda vorrebbe porre al vecchio parroco di montagna di Montelice. Questa domanda, che rimane sospesa e non pronunciata per quasi tutto il racconto, costituisce la spinta narrativa, che è sorretta non da avvenimenti ma dalla scrittura stessa e dal ritmo che questa impone. Ma questo ritmo è vario: in alcune fasi è ‘rallentato’, frenato da alcuni episodi, e questo varia il rapporto tra ‘fatti’ e ‘durata’. Paolo Lagazzi giunge a definire questa struttura come modellata su quelle che conducono all’atmosfera tipica del ‘giallo’.

In una lettera a Cecchi, D’Arzo stesso afferma che «il libro non ha intreccio, non c’è guerra, rivoluzione, niente amore; solo due figure di vecchi in un povero paese di montagna». Forse oggi la cosa non stupisce più di tanto, ma se contestualizziamo il testo nell’ambiente letterario dell’inizio degli anni ’50 è facile comprendere come, in pieno neorealismo, questo tipo di andamento narrativo fosse decisamente poco accettabile. Del resto l’autore aveva già programmaticamente annunciato in alcuni suoi saggi il distacco dalle tematiche care ai neorealisti. Questo ci consente anche di comprendere i ripetuti rifiuti delle case editrici e il valore che Montale attribuisce a quella domanda che scivola verso l’incomunicabilità e il silenzio.

Ma ci consente anche, oggi, di apprezzare pienamente un vero capolavoro che possiamo leggere e rileggere e che ogni volta piace di più e ci apre sempre nuovi sensi, attorno a una ricerca di ‘senso’ che è quello dell’esistenza. Esistenza che sia Zelinda che il vecchio prete “da sagre” sono costretti a trascorrere a “casa d’altri” – in un mondo che è loro estraneo – e forse non solo loro, ma ogni persona al mondo. Deve essere questo che consente il dipanarsi, in un’atmosfera di sospensione investigativa, di presentimenti inquietanti e di sfuggente disagio, di quella che è, in ultima analisi, l’atmosfera di inesorabile precarietà e di rinuncia. Ogni aspetto di tipo sociale non è trascurato, ma sfumato in uno sfondo che consente di far risaltare l’aspetto che per l’autore è invece del tutto prevalente, il dolore umano. Anche per questo la dimensione del racconto lungo appare quella ottimale per poter efficacemente sottolineare i vertici della tensione senza però trascurare mai l’aspetto meditativo.

Mentre nei suoi saggi D’Arzo si sofferma sempre sulle tematiche positive dell’esistenza, in Casa d’altri è la problematica dello smarrimento che prevale, smarrimento dal quale non è esclusa l’oscillazione tra lo sfuggire alle tribolazioni terrene e il giudizio divino, e la meditazione che ne consegue.

Possiamo anche soffermarci a ricercare le ascendenze letterarie che si possono ascrivere a questo testo, da Bernanos (Diario di un curato di campagna) al James di L’altare dei morti. Anche in questa direzione possiamo apprezzare complessità e stimolo alla ricerca che la lettura di Casa d’altri ci offre. D’altro canto proprio James ci disse che «le storie più ricche sono quelle dove non accade mai nulla».

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

"Casa d'altri" di Silvio D’ArzoAll’improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l’abbaiare di un cane.
Tutti alzammo la testa.
E poi di due o di tre cani. E poi il rumore dei campanacci di bronzo.
Chini attorno al saccone di foglie, al lume della candela, c’eravamo io, due o tre donne di casa, e più in là qualche vecchia del borgo. Mai assistito a una lezione di anatomia? Bene. La stessa cosa per noi in certo senso. Dentro il cerchio rossastro del moccolo, tutto quel che si poteva vedere erano le nostre sei facce, attaccate una all’altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie nel mezzo, e un pezzo di muro annerito dal fumo e una trave annerita anche più. Tutto il resto era buio.
«Sentito niente, voi donne?» dissi io alzandomi subito in piedi.
La più vecchia prese il moccolo in mano e lentamente andò ad aprir la finestra. Per un minuto fummo tutti nel buio.
L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti: e in mezzo all’ombra, lontano, vedemmo scendere al borgo quattro o cinque lanterne.
«Sono gli uomini che scendon dai pascoli» mormorò ritornando da noi «e fra dieci minuti son qui.»

Scarica gratis: Casa d’altri di Silvio D’Arzo.