È calzante, per Francesca Marciano, un verso di John Donne, «Nessun uomo è un’isola», in riferimento alla sua ultima fatica letteraria, edita da Bompiani, per la traduzione di Tiziana Lo Porto, Isola grande isola piccola. Non conoscevo l’autrice prima di leggere questi racconti e mi hanno sorpreso le informazioni che ho trovato sul suo itinerario personale e artistico. La Marciano vive attualmente a Roma, ma ha scelto di scrivere in inglese, nell’altra lingua (The Other Language è il titolo originale di questa raccolta), così come per i suoi precedenti lavori di narrativa: Cielo scoperto (Mondadori, 1998), Casa rossa (Longanesi, 2003) e La fine delle buone maniere (Longanesi, 2007). Agli esordi della sua carriera, è stata per un breve periodo di tempo attrice, ha studiato regia a New York e scritto delle sceneggiature per registi del calibro di Bertolucci e Salvatores. Isola grande isola piccola, uscito per Pantheon nel 2014, è stato finalista al prestigioso The Story Prize.
Ho come l’impressione che il titolo del libro, nella sua versione italiana, fotografi con maggiore immediatezza i contenuti di questi nove affascinanti raccontidove ogni protagonista (e per la maggior parte sono ritratti di donne) vorrebbe, in cuor suo, essere un’isola (grande o piccola non ha importanza) e «bastare a se stesso» – da qui la citazione di John Donne -, esprimere la sua unicità, sviluppare le proprie caratteristiche e predilezioni (o idiosincrasie, perché no?), ma finisce per essere «contaminato», travolto e infine messo a soqquadro dal «continente», non più (se mai lo è stato, in origine) isola ma parte degli «altri», di quella umanità composta da genitori, fratelli e sorelle, amanti, amici, modelli di riferimento o conoscenze occasionali che intercettano la sua vita.
Il leitmotiv dei racconti di Isola grande isola piccola è proprio questo: isolare il momento epifanico in cui la singolarità di un personaggio (isola tra isole) celebra, con maggiore o minore consapevolezza, il rito di un passaggio esistenziale cruciale: un tradimento, la traduzione in un’altra lingua, il trasferimento in un altro Paese, una trasgressione alla norma e così via. Esplorare gli spazi temporali, mentali e fisici di questi movimenti, di questo transitare da una condizione all’altra, apparentemente senza soluzione di continuità (in realtà con esiti radicali, forse irreversibili): «La sua nuova vita la stava aspettando dietro l’angolo. Bastava solo saltarci dentro. Non c’era nulla da temere. Dopotutto i grandi cambiamenti arrivano così, senza preavviso. Come le alluvioni o gli incendi».
C’è molto, forse, dell’autrice nel personaggio di Emma, la ragazzina protagonista di L’altra lingua, il racconto che apre la silloge. In un’isola greca, con la sua famiglia, Emma tenta di elaborare la dolorosa perdita della madre, in odor di suicidio. La conoscenza dei due giovani fratelli inglesi, David e Jack, costituisce il ponte per un «altro mondo» in cui trovare asilo, fatto di canzoni pop in cucina (i Beatles, gli Stones, i Pink Floyd), la scoperta di un nuovo, misterioso quanto seducente idioma, caftani hippie a fiori colorati e sandwich con la Marmite. Il tragitto a nuoto verso un’isoletta a qualche centinaio di metri dalla spiaggia e la scoperta, scioccante e imprevista, del primo sesso, sono gli emblemi di un percorso iniziatico verso l’età adulta (col corollario di cicatrici, fisiche e psicologiche che questo comporta) e di una trasformazione che segnerà in modo rilevante la sua vita futura.
Una donna-isola è anche Stella, la voce narrante di Isola grande isola piccola, un altro dei racconti chiave di questa silloge. Stella non esita a compiere un viaggio in una sperduta isola della Tanzania per far visita ad Andrea, un amore di gioventù. Scoprirà che i quindici anni trascorsi in Africa, presso una ONG, hanno cambiato radicalmente l’uomo che conosceva. Ora Andrea si è convertito all’Islam, è diventato una specie di mullah e ha una moglie giovanissima che non ha mai visto donne occidentali. Quando Stella avverte la casa di Andrea e la sua vita come una prigione soffocante, e gli chiede di vedere il mare, lui la condurrà in mezzo alla foresta, a fare il bagno in un locus amoenus dove baluginerà qualche scintilla del loro passato. È solo un momento, il ricongiungimento è metaforico: lui, recalcitrante, acconsentirà a spogliarsi dei vestiti per entrare nudo in acqua con lei, e si ritroveranno per poi rifluire nelle loro vite di sempre. «Sei la prima persona della mia vecchia vita che è venuta a trovarmi. È stato uno shock vederti. È stato uno shock parlare di nuovo in italiano [ […]] tutta questa roba che pensavo di aver dimenticato ha iniziato a tornare a galla». Il passato è un’isola, che puoi visitare, fisicamente o con la memoria, ma dove non puoi più vivere, e con questa nuova consapevolezza Stella torna al suo fidanzato, che non è ancora sicura di amare ma ch’è diventato la sua famiglia, in un assolato appartamento di Monteverde Vecchio.
Essere un’isola può anche significare l’essere prigionieri, nel tempo, dell’immagine che abbiamo coltivato di noi stessi e delle nostre aspirazioni. È il caso di Caterina, nel racconto Chanel, autrice di un cortometraggio, segnalata come una promettente artista emergente, che durante un festival del Cinema a Venezia si farà convincere da Pascal, un amico eccentrico e idealista, a comprare un costosissimo abito che non può permettersi. Sfumerà, purtroppo, l’occasione di indossarlo e negli anni il prezioso capo di abbigliamento rimarrà nel suo armadio, emblema di qualcosa che poteva essere e non è stato, la mancata accettazione di un cambiamento naturale, di un divenire fisiologico rispetto agli imprevisti che l’esistenza ha in serbo per noi, ritratto «sterile» di Dorian Gray che non riusciamo a integrare nel nuovo corso degli eventi.
Anche i luoghi dove i racconti della Marciano sono ambientati riverberano, in una sorta di risonanza emotiva, i sentimenti dei personaggi. Nel racconto Una serata indiana, il contesto esotico sconvolge le apparenti certezze di una coppia navigata, ospite nella fortezza di un maharaja, dove uno scrittore-isola, prigioniero del suo ego e di una prolungata crisi di ispirazione, è turbato dalla grazia fisica e spirituale di una giovane danzatrice Odissi. In La presenza degli uomini un paesino del profondo Sud d’Italia diviene un’isola in cui trovare rifugio, per Lara, da un matrimonio finito male, abbandonata dal marito «per una donna più giovane». Anche Lara, nella sua nuova vita, è una donna-isola, così come un’isola è il fratello Leo, incapace di comprenderla, pur vivendole accanto e incrociando con lei la sua esistenza, occupato a correr dietro alle manie delle star del cinema di cui è agente. Il paesino potrebbe rivelarsi un’isola anche per Ben Jackson, l’attore in cerca di protezione dalla mondanità e dal pressante successo che lo inseguono. In un sushi bar del Village di New York si svolge invece la scena clou di La teoria dei quanti, dove Sonia riconosce come l’attrazione tra due persone si dispiega negli anni e attraverso i luoghi (l’Africa, gli Stati Uniti) e produce un’energia non controllabile. L’amore ha molte facce, e come per tante isole non necessariamente queste facce sono tutte collegate tra loro. «”Non sto dicendo che ti amo“, dice lui, provocandola. “Ho detto che potrei essermi innamorato. Innamorarsi è una fase diversa, non ha bisogno delle stesse cose che l’amore richiede”. “E cosa richiede l’amore?” “Cose come fiducia, affetto. Solidarietà.”».
L’inglese è la lingua della libertà e dell’avventura per Francesca Marciano, e le è stato congeniale e naturale scrivere in inglese, sua lingua d’elezione: «Scrivere in un’altra lingua dà maggiore libertà, ci si autocensura di meno, è come quando si è piccoli e s’inventa un linguaggio segreto per non farsi capire dai grandi». Dopo aver vissuto a lungo in Paesi anglofoni come il Kenya, l’India e gli Stati Uniti l’inglese è la lingua che si è imposta a questa autrice che è stata paragonata ad Alice Munro da un esigente e severo critico del «New York Times», Michiko Kakutani. L’eccellente traduzione di Tiziana Lo Porto, nella quale la Marciano si è riconosciuta, rende compiutamente lo stile preciso e secco, che procede per immagini e dialoghi di grande efficacia che tesaurizzano l’esperienza dell’autrice come sceneggiatrice. La scrittura sicura e consapevole della Marciano ha il pregio della densità nella misura breve del racconto, il talento del catturare il lettore impigliandolo in una visione in filigrana del personaggio, costruito con pochi elementi funzionali ed evocativi, di amplificarne i sentimenti e i pensieri. Anche la traduzione è un ponte in grado di far uscire dall’isola (Manhattan è un’isola, non scordiamolo) e di restituire al pubblico italiano un’autrice acclamata dalla critica internazionale che in fondo è anche un pezzo di noi. Basterebbe leggere con attenzione Isola grande isola piccola per rendersene conto; ci risulterebbe evidente come nessun uomo è un’isola. Lo dice Francesca Marciano.
L’articolo è comparso per la prima volta in Sul Romanzo il 01/10/2015