Farina certamente scriveva rivolgendosi ai settori più consistenti di quel pubblico che l’editoria italiana andava scoprendo negli ultimi decenni del XIX secolo e che solo in quella fase storica andava prendendo consistenza culturale e sociale. Tuttavia c’era in lui sia aspirazione che convinzione di fare “grande letteratura” destinata a lasciare comunque un segno. Giovanni Boglietti in “Rassegna nazionale” del 16-12-1884 – due anni dopo quindi che le varie novelle che erano andate a comporre Mio Figlio! erano state radunate per la prima volta in volume – scrive:
«Bisogna pure dare qualcosa da leggere a questa democrazia che sempre più si afferma nella vita per numero e per aspettative gagliarde e per bisogno di istruzione e di cultura. Pel bene del mio paese augurerei che tutti gli scrittori lavorassero con quella coscienza, con quell’ingegno e con quel valore di cui dà prova il novelliere del cui nome questo scritto s’intitola.»
L’articolo è intitolato appunto Salvatore Farina; Mio Figlio! pare che si modelli perfettamente alle esigenze che prospetta Boglietti. Letterariamente il “bene del paese” si configurava alla perfezione con il “buonismo” strappalacrime tardottocentesco del quale Farina era interprete quasi insuperabile, anche se, come è ovvio, il suo insistere organico sui valori della media borghesia dell’epoca non mancava di suscitare perplessità anche fra i contemporanei.
I vari capitoli di Mio Figlio! erano già stati pubblicati prima del 1882 come opere separate. Il testo non ha quindi certo l’organicità del romanzo e non ha alcun “intreccio” da svolgere. Come dice lo stesso Farina nella premessa
«Mio Figlio! non è un protagonista, non è nemmeno un personaggio vero e proprio; è un sentimento, è il grido di tutta l’umanità, anzi di tutta la natura.»
Ha tuttavia un soggetto ed è l’ordinarietà dei fatti che sono del tutto usuali per una famiglia piccolo-borghese con pochi mezzi, formata da due giovani che si amano senza alcun tipo di ombra o di screzio. Si prendono tutto il tempo per mettere al mondo un bambino proseguendo tra ristrettezze tipiche della piccola borghesia (esempio: devono mandare il bimbo a balia in campagna perché non possono permettersi di avere la nutrice in casa); il padre diventa avvocato famoso e la vita si fa agiata e il figlio cresce e diventa anche lui avvocato e ancora più noto del padre. Nasce la sorellina assennata e giudiziosa che si sposa presto. Non manca il nonno più che amoroso per il nipotino e il padre che a sua volta diviene nonno.
Commentando l’uscita della terza edizione la rivista “La Cultura” così si esprime: «[…] deriva tutta l’attrattiva sua dalla rappresentazione schietta, semplice di condizioni ed affetti più comuni che non si crede, e che giova ed è santa cosa il rendere con l’arte più comuni che non sono.» Ovviamente questo può essere visto in una luce positiva al massimo come fece buona parte della critica dell’epoca – ma nemmeno la recensione più favorevole può tacere su lungaggini e ripetizioni inutili e su una artificiale costruzione di sentimenti – mentre certamente oggi l’interesse di un’opera di questo tipo non può che circoscriversi attorno alla testimonianza di un’epoca e di uno strato sociale molto delimitato. Carlo Reynaudi nella sua Antologia domestica definisce Mio Figlio! il capolavoro della letteratura domestica italiana; tuttavia nella suddetta antologia preferisce ospitare brani provenienti da decine di autori escludendo Farina stesso; forse per dare un aspetto meno artificioso e manierato ad una tematica che comunque può avere mille sfaccettature. Al capitolo Mio figlio studia del Farina sembra quasi contrapporsi il Mio figlio non studia di Onorato Fava. La letteratura appare più vicina a tutti noi se rappresenta qualche volta anche le “spine” che costellano l’esistenza.
Almeno una decina le traduzioni in tutte le principali lingue europee prima del ’900. Poi il successo si è affievolito e già nel 1906 la critica crociana aveva provveduto a ridimensionare “il vecchio Farina” confinandolo, anche con un certo ostentato compatimento, nei suoi evidenti limiti storici.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Non lo aspettavamo più: anzi, per dire il vero, non lo avevamo aspettato mai. Ci eravamo sposati senza secondi fini, unicamente per isposarci, e il giorno delle nozze parve a me il più bello di tutta la mia vita, perchè con esso incominciava finalmente la vita nostra. Vedere qualche cosa di là da un grande amore, immaginare un’altra gioia diversa da quella di attraversare il mondo a braccetto nello stesso sentiero, Evangelina ed io, mi sarebbe sembrata l’offesa d’un nano al gigante che nutrivamo nel petto. Io scrivo «nutrivamo», perchè anche Evangelina mi amava molto, senza di che non si sarebbe adattata a diventare la signora Placidi.
A quel tempo non avevo ancora scavato la miniera del codice di procedura civile, e lo studio dell’avvocato Placidi era poco più di una buona intenzione. Per giunta avevo allora, ed ho anche oggi, un nome di battesimo grottesco, di quelli che smorzerebbero un incendio amoroso. Mia moglie mi chiama Onda (ed è già una tribolazione), ma il mio vero nome — non lo credereste — tutto quanto il mio nome è Epaminonda.
Si diceva dunque che non lo aspettavamo più, cioè che non lo avevamo aspettato mai, perchè ci eravamo sposati senza secondi fini. E sì che non erano mancati gli eccitamenti!
Al nostro ritorno dal viaggio di nozze, parenti, amici, amiche, quanti ci aspettavano alla stazione, ci accolsero con certi sorrisi, che mi avrebbero messo in impiccio se non mi fossi preparato a ridere; la mia Evangelina, poveretta, era indifesa, e quanto più io rideva, tanto più essa si faceva rossa. Era quello che i parenti e gli amici volevano; si sarebbe detto che non mancasse altro alla loro felicità
Scarica gratis: Mio figlio! di Salvatore Farina.