copertina de «Il cielo di Marte»Con questo articolo inizia la collaborazione a Pagina Tre di Matteo Veronesi.

IL DUPLICE RESPIRO. MERLIN E TEMPORELLI FRA CRITICA E POESIA

Due libri, l’uno di poesia, l’altro di critica (Il cielo di Marte, Einaudi, Torino 2006, e Nodi di Hartmann, Atelier, Borgomanero 2006), giungono fra le nostre mani, direbbe Renato Serra, come un «dono», come un frutto puro, limpido e fresco, madido della stessa linfa vitale e vivificante che pervade i due risvolti e i due dominî (contrassegnati e marcati dalla distinzione, o dall’indistinzione, dell’identità una e duplice – quasi ricoeuriana dialettica di ipse e idem – suggerita dal binomio di pseudonimo e nome) in cui si manifesta e si articola una autentica esperienza esistenziale e creativa.

Marco Merlin è il nome del critico e del teorico, autore di Nodi di Hartmann; Andrea Temporelli (che allude nel nome al fratellino prematuramente scomparso, nel cognome alla madre, anch’ella giunta troppo presto alle ombre dell’Occidente) lo pseudonimo del poeta. Qui davvero la peculiare «soglia» testuale, direbbe Genette, costituita dal nome (dai nomi) dell’autore/autori, riveste un significato letterario e ideale rilevante.

Se il dominio lucido, determinato, apollineo (pur se non certo privo, a sua volta, di contrasti e di chiaroscuri) della riflessione critica e teorica può trovare una forma e una maschera coincidenti con l’identità storica e concreta dell’autore, la sfera più rarefatta, oscillante, quasi fatata del discorso poetico sembra avere invece bisogno del velo, del gioco di specchi, della dissimulazione (pur se onesta e veridica) procurati dallo pseudonimo.

Se in un Pessoa, ad esempio, la proliferazione, e per così dire la diffrazione, delle maschere pseudonime rispecchia una dissociazione e una disgregazione – per quanto immaginose, creative, quasi festose – dell’io, nel nostro caso invece la distinzione di nome e pseudonimo rappresenta piuttosto la condizione di un soggetto che esce da se stesso, che si riflette sul proprio sosia, sul proprio doppio, sul proprio simulacro, per poi tornare a sé più chiaro e più saldo.

E lo pseudonimo che fonde madre e fratello può significare, ad un tempo, il ritorno all’origine prima, alla patria pura, alla regione delle radici e l’ombra evanescente di ciò che non fu, che sarebbe potuto essere o che fu per un tempo troppo breve – cosa che vale, forse, per lo stesso «stato di grazia» della poesia e dell’amore, per il lampo subitaneo ed abbagliante dell’esperienza e della creazione.

Ma, con una contraddizione solo apparente, questo nucleo ispirativo limpido, genuino, incoercibile, direi necessario – questa voce che «viene come un tuono», come diceva il poeta Temporelli in una plaquette del ’99 edita anch’essa, presso Atelier, con il titolo di Il cielo di Marte -, non sono smentiti o contraddetti dalla parallela riflessione critica, anzi semmai la chiariscono e la rafforzano.

Anche qui, come enunciava la fenomenologia di Anceschi, il respiro infiammato ed ansante della poesia e quello più disteso e riposato della critica «si abbracciano secondo libere regole». E, per citare il Valéry di Situation de Baudelaire, da questa preziosa sintonia di creazione poetica e riflessione critica deriva il carattere modernamente «classico» di questa scrittura, che sembra rivisitare, in certe cadenze, in certe clausole, in un certo uso armonioso, motivato, mai gratuito di una rima piena e sonante, la canzone petrarchesca e leopardiana (la linea e la vena, direbbe Ungaretti, melodiose e limpide del «canto italiano»), quasi a voler ricondurre ad unità compiuta, a densa ricchezza di significato e di valore esistenziale, gli sparsa fragmenta di un difficile vissuto.

Nel sito (ilcielodimarte.splinder.com) dedicato al libro, alla sua gestazione e alla sua ricezione (insomma, come dicono i francesi, tanto al testo quanto all’«avantesto» e al «post-testo»), sito che è straordinario documento del farsi, del divenire dinamico ed incessante dell’opera, è riportato un testo decisivo, anche se escluso dalla raccolta a stampa, intitolato La disputa.
«Sa che deve morire, il critico. // Morire sì, pagare / di persona, purché sia per qualcosa / che valga poi per tutti». Questa morte, in certo modo sacrificale ed espiatoria (quasi una «morte mistica»), arriverà, quasi come in una lauda medievale, sotto la forma di una danse macabre «che sfonda porte ed invade ogni stanza»; e da questa immolazione uscirà, «con la sua grafia di fiamma, il poeta».

Vi è qualcosa di intrinsecamente, di profondamente cristiano in questo «farsi tutto in tutti» del poeta-critico, che affronta il travaglio doloroso ed intenso del pensiero e della creazione per vivere in sé, per purificare e rendere più veri ed essenziali il dolore e il vissuto dell’umanità. Viene in mente, quasi, l’alone cristologico che avvolge certe figure femminili montaliane, da Iride a Clizia, che sembrano assommare e prendere su di sé tutte le sofferenze, tutti gli errori, tutte le atroci memorie dell’umanità. La parola del poeta-critico attraversa questo muro di fuoco armata del nodo di ispirazione e riflessione, immediatezza necessaria del dire e lucida autocoscienza teorica, esperienza bruciante del dolore e consapevolezza sapienziale (non provvidenzialistica giustificazione) di esso, del suo significato (consapevolezza che è quasi una sorta di tragico pathei mathos , di comprensione e nutrimento intellettuale attraverso la sofferenza stessa).

Su questo punto, su questo nodo fondamentale di sofferenza e di amore, la voce del poeta è sostenuta da quella del teorico e del critico di Nodi di Hartmann. «Carezzare il sorriso dei morti amando veramente la vita, aderendo a tutto il bene e a tutto il male». È facile sentire, qui, nella prosa teorica – in quell’idea di «concedere la morte a ciò che è morto» e in quel «perpetuo vivere nei morti» -, gli echi di due poeti fra i più amati dall’autore, Luzi e Sereni (la voce della poesia può insinuarsi nella trama della prosa riflessiva anche sotto la forma dell’eco, dell’allusione, del richiamo intertestuale, oltre che della citazione diretta e dell’analisi dettagliata).

La poesia è qui pervasa dall’idea cristiana di una morte che è preludio di rinascita, dalla presenza di quel «sepolcro apportatore di vita» che è la parola, il Verbo. «C’è una tragica presunzione di bellezza nel moto con cui un’idea prende corpo, un’intuizione pretende la prova della carne».

La parola è segnata in modo profondo e doloroso dalla ferita originaria, dal conflitto e dal contrasto dialettici – e per ciò stesso tragici – fra il pensiero che si apre verso l’infinito e i limiti imposti dal tempo, dall’esistenza, dalla forma, dalla greve soma di quella che Mallarmé chiamava «la chair des mots». La parola – che pure attesta e veicola un’ansia metafisica, un’attesa ontologica – è, in quanto parola, ancorata ai testi e alla storia – «chiusa», direbbe Ungaretti, «fra cose mortali». La sofferenza viva e calda dell’esperienza e della creazione esclude, di per sé, ogni possibilità di consolazione estetica, di sublimazione rassicurante, di catarsi o conciliazione definitive e pacificate.

In questa luce si può forse leggere il duplice richiamo a Platone (il passo della Politeia, per l’esattezza 599b-c, citato nel Cielo di Marte del ’99, uguale, come si è detto, solo nel titolo alla recente raccolta einaudiana) e a Dante (il luogo, celeste e insieme spirituale, reale e insieme immateriale, concreto e simbolico, del «cielo di Marte», simbolo intemporale ed assoluto di ogni futuro approdo, di ogni meta possibile ed imponderabile, di ogni inafferrabile ed ineffabile apertura esistenziale: «Ecco, quello che pensa sia dio e in fondo / non è che una radura / che ti comprende, come / su Marte una pianura / avrà la prima impronta»).

Il rinvio a Platone, a quel passo in cui resta in sospeso il dubbio se un qualche poeta sia o sia mai stato un autentico guaritore, o se il poeta non sia piuttosto sempre e comunque un mero mimetés iatrikôn lógon, un «emulo di discorsi medici», capace di generare non con l’atto o col gesto, ma solo con il suo impalpabile flusso melodioso, con la sua parola immateriale e dolce, nel contesto del discorso di Temporelli chiama in causa il problema della poesia e della humanitas come animi medicina, la possibilità di una consolazione estetica dei mali, di una «forma artistica», direbbe Melanie Klein, capace di ricomporre e di armonizzare le ferite lancinanti e gli sparsi frammenti di un’anima e di un’esperienza scosse e devastate dal lutto, dal trauma della perdita. L’anima e la coscienza divengono se stesse attraversando il battesimo di fuoco della sofferenza, agitandosi «nel foco che li affina». Del resto, le figure del «medico» e del «chirurgo» che non suturano immediatamente le ferite e le piaghe, ma le lasciano sanguinare ed essudare finché non si plachino, si purifichino, si estinguano, finché non sia finalmente giunto il momento atteso e predestinato della possibile salute, attraversano già da anni il percorso poetico dell’autore.

Dice la Leggenda del chirurgo, un altro testo escluso: «Quale improvviso pianto / rivolgerà nella piaga il coltello / di scegliere una morte per la vita / e sciogliere nel canto / quell’offerta infinita?». «Infinita offerta» (ma la coincidenza può forse essere causale) è, anche per lo Zanzotto di Idioma, il messaggio ultimo ed essenziale della poesia, il senso scavato e sofferto del suo inesauribile, se non addirittura in se stesso «inesistibile», interrogativo sulla ragione e il fondamento dell’essere e dell’esistenza. La poesia scava, con la sua dolce crudeltà, con la sua lama sottile e limpida, la superficie delle cose, la scorza esteriore dell’esperienza e del linguaggio, per toccare e trafiggere, o almeno scalfire, il «nocciolo duro» dell’essere e del significato, poco importa quanto dolore, quanta pena tale sforzo debba costare. Infinito, o «tendente all’infinito» quasi in virtù di un limite inteso in senso matematico o fisico, è il senso profondo della poesia, che varca le soglie del linguaggio e dell’esperienza per arrivare a toccarne il fondamento primo, fosse pure a costo di doversi misurare con l’assenza stessa di quel fondamento, con l’Abgrund, il nulla ultimo, l’essenziale mancanza di giustificazione e di senso.

Il poeta, annota Merlin in margine a Luzi, evangelicamente «muore al mondo», «muore alla vita» per rinascere e rivivere come poeta, per risorgere dalle sue ceneri nella luce della parola; e non è tanto il sanguinetiano attraversamento della Palus Putredinis (in cui pure ci si deve immergere), quanto piuttosto la luziana «conoscenza per ardore» o l’ungarettiana «ferita fonda», sole alternative, forse, al buio tombale, al vuoto definitivo. Come Merlin scrive a proposito di Jaccottet – suggerendo, attraverso la tessitura intertestuale della pagina critica, trasparenti richiami a Ungaretti e a Montale -, «in prossimità della sofferenza» la pronuncia del poeta si fa «lenta, ridotta all’essenziale, scavata nell’abisso», fino a mordere l’«osso di gioia che ( […]) resiste dentro questo pensiero infinito» – dentro quella eliotiana «parola sempredicente», prossima all’assolutezza e alla perennità del Verbo eterno, dalle quali resterebbe esclusa una poesia vissuta come esercizio retorico esteriore ed inautentico, di cui parla un appunto inedito.

Temporelli «scrive per uccidere». Vengono in mente – precisamente nel senso e nell’ottica in cui Debenedetti li citava a proposito di Proust – certi versi dell’ultimo Wilde, quello della Ballata del carcere di Reading: «Ognuno uccide la cosa che ama». La parola scalfisce e scava la carne e la sostanza del vissuto fino a farle fremere e sanguinare. «Si muore sempre presto e senza onore – / ma tu sai la delusione che vivo, / tu sei la tradizione mentre scrivo […]..». Conflittuale, agonico, letale – quasi nel senso di una hegeliana dialettica di servo e padrone, o forse della ben nota anxiety of influence teorizzata da Bloom – è anche il rapporto con la tradizione, il canone, la sedimentazione che precedono l’azzardo del canto. Anche in questo senso, la voce è divisa e combattuta fra la coscienza storica e stilistica riposta nella critica e l’afflato lirico incoercibile che «viene come un tuono»; e precisamente in quella vibrazione sospesa e inesauribile sta la sua forza segreta.

La letteratura, leggiamo in Nodi di Hartmann, è «consapevolezza della tradizione», e in quanto tale – contrariamente all’iconoclastia e al terrorismo culturale dell’avanguardia – essa è luogo – o non-luogo – «ove può prendere forma un’esperienza creativa tale», in virtù di una sorta di autogenesi che è anche palingenesi, «da determinare una rifondazione della letteratura stessa».

Non siamo lontani dall’Eliot di Tradition and individual talent, o dall’Ungaretti e dal Luzi lettori di Petrarca. Ma, in virtù della dialettica di cui si diceva, a questa matura coscienza storica e critica si affianca quell’«innocenza della scrittura» – forse il «mito della naïveté» di cui parlava Luzi – che il Novecento delle poetiche e delle avanguardie parrebbe aver compromesso, e che non può, oramai, essere recuperata e ripensata se non attraverso la stessa autocoscienza critica, in modo laborioso e arduo – quasi con una sorta di oraziana difficillima facilitas, di ars celare artem, e in ogni caso con un’attitudine diversa, più matura e adulta, più sottile e scaltrita, rispetto al creaturale «stupore» dei rondoniani «cercatori d’oro» di fronte all’apparizione del «bene della poesia» (il che non toglie che proprio con Rondoni, maestro imponente, per quanto controverso, di molta «giovane poesia», Merlin intrecci un dialogo vivo e mai chiuso, per quanto a volte risentito).

Tanto il poeta quanto il critico cantano, proprio come Dante nel cielo di Marte, «con tutto ‘l core e con quella favella / ch’è una in tutti»: cercando, cioè, di attingere e di esprimere il nucleo originario, il fondo essenziale, per quanto oscuro, dell’esperienza e della creazione. Ne sorge un’ontologia del linguaggio poetico simile a quella di Celan, alla cui «svolta di respiro» (Atemwende) Merlin dedica riflessioni importanti: avvertiamo, nelle sue pagine, la tensione che attraversa il «cruciale e notturno passaggio» del verbo poetico (ancora, della eliotiana «parola sempredicente», dal senso infinito ed ininterrotto) verso la «terra promessa del senso», pur tra le ferite e i deserti di un mondo da cui Dio sembra essersi, o essere stato, «esiliato».

In questo senso, nel cuore di questa convergenza sostanziale, la figura del poeta si avvicina, ancora, a quella del critico – pur se di un «critico imperfetto», animato (per citare, come fa lo stesso Merlin, l’Eliot lettore di Swinburne) da un’«intelligenza impura», pronta cioè ad affrancarsi, a proprio rischio, dalla logica ferrea e rassicurante che è propria tanto del mercato editoriale quanto del metodo accademico, per immergersi in prima persona nel testo e nell’interpretazione, vissuti come Erlebnis, come viva e decisiva esperienza esistenziale che, nella sua fluidità cangiante, permette al poeta di «restare in contatto con la forma specifica del suo pensiero poetante». Proprio nel magma vivo, mobile e ardente di questo leopardiano e heideggeriano «pensiero poetante» – tanto spesso oscurato o distolto dalla chiacchiera mediatica, o viceversa dal tecnicismo accademico – Merlin-Temporelli ha la capacità di reimmergere il lettore. Ed è questo, in ultima analisi, il dono di cui si diceva, e di cui dobbiamo essergli grati.

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