Sono,‭ ‬credo,‭ ‬uno dei pochi ad aver potuto vedere il film‭ ‬L’arte del Fauno‭ ‬( http://lartedelfauno.blogspot.it/ ), con Massimo Sannelli, per la regia di Fabio Giovinazzo. Pellicola di per sé anomala, frammentaria, sebbene sorretta da un latente disegno compositivo quanto mai consapevole e preciso; e, come spesso accade al cinema sperimentale e di ricerca, rimasta un poco nell’ombra, quasi volutamente nascosta a quel pubblico e a quella distribuzione che del resto difficilmente potrebbero recepirla.
Dalle poche e brevi anticipazioni circolate in rete,‭ ‬volutamente parziali,‭ ‬eccentriche,‭ ‬mistificanti,‭ ‬ai limiti della volontaria ed ostentata autoparodia,‭ ‬si poteva avere l’impressione che non si trattasse d’altro che di una sorta di gioco situazionista,‭ ‬di una parodia delle consuetudini di annuncio e promozione di un film senza che esistesse il film,‭ ‬perché ormai il mormorio mediatico,‭ ‬il balbettio di annunci proclami‭ ‬réclames indiscrezioni hanno nascosto,‭ ‬e quasi vanificato,‭ ‬la sostanza delle cose.‭ Ma a‬nche quel lacerato e distratto preludio faceva parte del gioco.‭
Del resto,‭ ‬anche Massimo Sannelli,‭ ‬il poeta che è al centro di questo singolare documentario‭ (‬il quale si risolve in un’autobiografia,‭ in ‬una confessione‭ ‬sommessa,‭ ‬protratta,‭ ‬rifratta per così dire in una molteplicità di ambienti,‭ ‬situazioni,‭ ‬incontri,‭ ‬proiettata sullo specchio della macchina da presa‭ ‬che la raccoglie e moltiplica‭)‬,‭ ‬ha compiuto,‭ ‬anni fa,‭ ‬un’abiura di tutto ciò che aveva scritto‭ (‬e per il quale,‭ ‬come è ricordato nel film,‭ ‬era stato salutato,‭ ‬non a torto,‭ ‬come‭ “‬il poeta più significativo della sua generazione‭”)‬:‭ ‬cosicché è ormai difficile sapere quali siano le opere autentiche,‭ ‬quali quelle rigettate,‭ ‬se l’abiura stessa sia autentica o apocrifa,‭ ‬sentita o ingannevole‭ (‬o forse vera proprio nella sua teatrale finzione‭)‬,‭ ‬e se su ogni nuova parola che esce dalla penna del poeta o dalle labbra dell’attore incomba o meno il rischio di un ulteriore,‭ ‬più o meno credibile,‭ ‬rinnegamento‭ (‬allo stesso modo che le immagini fluenti e cangianti del discorso cinematografico sfumano e svaniscono,‭ ‬avvicendandosi,‭ ‬le une nelle altre,‭ ‬in una sorta,‭ ‬avrebbe detto un averroista,‭ ‬di perpetua‭ ‬conversio ad phantasmata,‭ ‬d’irrisolta incertezza fra la realtà e l’illusione, la conoscenza e l’errore).
Il film,‭ ‬nella sua specificità stilistica e visiva,‭ ‬sembra una sintesi di certi tratti di vari cineasti spesso rari,‭ ‬defilati,‭ ‬in qualche misura clandestini:‭ ‬la simbologia dell’acqua,‭ ‬ora trascorrente come in Tarkovskij o in Piàvoli,‭ ‬ora vibrante nelle distese marine come nella poesia di Valéry e di Montale,‭ ‬che proprio quello stesso mare ligure ebbero entrambi negli occhi‭; ‬la compenetrazione straniante di immagine e testo letterario,‭ ‬come in Bròcani‭ (‬penso,‭ ‬in‭ ‬A ridosso dei ruderi,‭ ‬i trionfi,‭ ‬all’idea delle immagini che‭ “‬si fanno la guerra a vicenda‭”‬,‭ ‬quasi si frantumano e si annientano le une con le altre,‭ ‬per far emergere,‭ ‬infine,‭ ‬fra le loro pieghe e le loro crepe,‭ ‬la voce del testo‭)‬,‭ ‬in Jean-Claude Rousseau,‭ ‬in Straub e Huillet‭; ‬l’irrompere di squarci,‭ ‬di fratture e allucinazioni da cinema surrealista‭ (‬o da slapstick chapliniano‭) ‬in scenari di strada,‭ ‬in spazi desolati,‭ ‬periferici o post-industriali,‭ in vie popolate da un’umanità variegata, brada, oscuramente sapiente, che richiamano il realismo di Pasolini (e, forse più di recente e più da vicino, La bocca del lupo di Pietro Marcello)…
Metacinema‭ ‬‒ ma non intellettualistico,‭ ‬non decorativo‭ ‬‒ anzi riportato alla sua purezza originaria,‭ ‬alla sua aurorale aderenza alla realtà e all’istante‭ (‬le immagini dei fratelli Lumière che fanno da sfondo ad una scena enigmatica di autoriflessione,‭ di ‬contemplazione e venerazione‭ ‬del Maschile fra identità e alterità,‭ ‬come specchio di se stesso,‭ ‬icona d’autocoscienza,‭ ‬emblema,‭ ‬forse,‭ ‬del cinema e dell’arte stessi che ostentano la propria autosufficienza fragile ed assoluta‭)‬.‭
Ma resta,‭ ‬su tutto,‭ ‬la vicenda esistenziale di un poeta che sembra o crede o si illude di cercare una legittimazione in fondo superflua,‭ ‬perché la poesia è,‭ ‬come il cinema,‭ ‬specchio di se stessa,‭ ‬omaggio e premio a se stessa,‭ ‬dannunziano Encomio dell’Opera‭ (‬e non è un caso che siano nominati Mallarmé e D’Annunzio,‭ ‬il quale nel suo incompiuto disegno di un triplice ciclo di romanzi passava,‭ ‬come il Fauno,‭ ‬dalla Rosa al Giglio alla Melagrana,‭ ‬dalla passione alla purezza alla vibrante ed effusa dispersione‭)‬.
‭“‬Quanto deve aver sofferto un uomo,‭ ‬per avere tanto bisogno di fare il pagliaccio‭” ‬è la domanda nietzscheana che fa da sfondo alla rappresentazione.‭ ‬Il passo di Nietzsche si riferiva a Shakespeare‭ ‬‒ e viene in mente,‭ ‬allora,‭ ‬l’immagine, nel Macbeth, della vita come favola che non significa niente,‭ ‬raccontata da un pazzo,‭ ‬alla quale ci si deve però ostinare a trovare una direzione e un fondamento.‭ ‬
Il luminoso sorriso su cui si chiude la pellicola è una dichiarazione d’amore alla vita,‭ ‬e insieme al cinema.‭ ‬E alla casa‭ ‬‒ costante ed emblematica,‭ ‬per tornare ai cineasti citati,‭ ‬in un Rousseau e in un Bròcani‭ ‒‬ intorno a cui lo sguardo narrativo gravita e ruota:‭ ‬Casa dell’Anima e Casa dell’Essere,‭ ‬ma forse anche‭ ‬turris eburnea.‭ ‬Che oramai non è nel fasto ma nell’abbandono,‭ ‬non nel trionfo ma in un’apparente desolazione,‭ ‬in una partecipata e dialogante solitudine.