L’uomo di fil di ferro
Romanzo di avventure
di
Ciro Kahn
tempo di lettura: 117 minuti
PARTE PRIMA
L’INCUBO
I.
Il sapiente atterrito.
La « Villetta Nadir » non aveva nulla che la distinguesse dalle tante altre villette, modeste e ad un solo piano, disseminate nei dintorni della metropoli. Era tuttavia ben nota da che vi viveva E. I. Sedana: l’astronomo e filosofo insigne.
Il cancelletto cigolò lamentosamente e un individuo indistinguibile nel buio della notte ne uscì allontanandosi in fretta.
Quello che era accaduto nella villetta non fu possibile chiarirlo così presto come sarebbe stato utile. Il Sedana la mattina seguente fu trovato dalla domestica svenuto nel corridoio, nella posa di chi sia stato arrestato in un inseguimento da una visione terrifica.
Ricuperati i sensi era sopravvenuta una febbre altissima; e medici e discepoli, al capezzale del vegliardo che non riconosceva nessuno, tentarono invano di dedurre e di capire.
Nessun segno di violenza era emerso da un attento esame della villetta. Solo si era potuto accertare la presenza fino a tardi di un visitatore con cui lo scienziato doveva aver appassionatamente dissertato su argomenti molteplici, come appariva dal tavolo dello studio carico dei libri e dei trattati più diversi.
La domestica andava a coricarsi di solito verso le dieci; non senza però prima entrare nello studio del maestro a lasciargli il termos colmo di un tè molto lungo ma bollente, di cui l’astronomo aveva contratto la consuetudine nelle lunghe notti di veglia negli osservatorî.
Nel suo studio di « Villetta Nadir » non c’era più il freddo né più la snervante immobilità sulle lunghe poltrone girevoli sotto l’oculare dei gran cannocchiali, ma c’era ancora, là come nelle terrazze degli osservatori, l’indagine del Mistero, la corsa del pensiero alla conquista dell’Universo – e il tè, che stimolava le energie del vegliardo infaticabile, era rimasto.
Era stato trovato non bevuto, e anche questo concordava con l’ipotesi di una discussione serrata e drammatica.
D’altra parte la circostanza di una visita di cui la domestica non sapeva niente, iniziatasi cioè oltre le dieci, non era insolito. Frequentemente discepoli e amici avevano potuto constatare la facilità di ottenere, personalmente dallo scienziato, l’accesso a « Villetta Nadir ». E una volta dentro, anche ai visitatori più riguardosi, era accaduto con facilità di dimenticare il trascorrere delle ore.
Solo elemento, quindi, eccezionale in quell’ultima conversazione, restava il suo carattere di strabiliante vastità, nella quale, sotto la pressione di un interesse supremo, dovevano essersi alternate quasi tutte le branche del sapere.
Ora chi mai era stato visitatore; solo, come indicavano una sola poltrona spostata oltre quella del maestro, una sola calligrafia sulla lavagna oltre quella del maestro; capace di originare siffatto fervore sapendo mantenervisi all’altezza per ore e ore?
Nessuno era informato del passaggio di personalità scientifiche straniere nella metropoli. Mentre solo la natura di quel visitatore, o meglio, solo la natura delle idee da costui esposte delle ipotesi da costui prospettate, poteva servire a chiarire l’essenza dei formidabile spavento provato dal vegliardo. Era stato infatti compreso che uno scienziato giunto all’apice della saggezza non può aver paura né di ombre né di creature; giacché solo le idee che non pesano ma possono pur dare la follia; solo i ragionamenti che non lasciano traccia e possono tuttavia apparire più terribili della rovina stessa che fanno intravedere, potevano aver abbattuto il maestro per nessun altro lato insidiabile.
Ma i libri compulsati erano stati molti; le formule ammucchiate sulle lavagne troppe, per poterne discernere, attraverso l’eterogeneità, il movente complessivo.
Solo una serie di formule derivate da quelle moltissime della chimica organica, che nel quadrinomio dell’Azoto, Ossigeno, Carbonio e Idrogeno racchiudono il segreto della materia vivente, parevano aver predominato. Però con quale intento?
Era curiosa e innaturale la calligrafia dell’estraneo che aveva vergate queste formule, dissimile da quella di tutte le persone da tavolino, precisa, geometrica, quasi tipografica, senza l’oscillazione e il chiaroscuro più tenue: da prodigioso fanciullo o da inumano essere senza età, senza cuore e senza nervi. E che poteva dunque il visitatore ignoto, da quelle formule che stavano alla base della vita, aver fatto lampeggiare di tanto terribile alla mente dello scienziato da tramortirlo e sconvolgerlo?
Questo si chiedevano gli intimi. Tra cui non mancarono i romanzeschi e i fantasiosi che inducendo, dallo sconvolgimento del vegliardo, qualche sua accertazione di disastri imminenti, misero in fermento le specole e i laboratorî; alla ricerca di eventuali comete in marcia contro la Terra, o di possibili epidemie e disgregazioni biologiche imminenti.
Passarono così al capezzale del Vegliardo che delirava alcuni giorni. E durante questi gli avvenimenti incalzarono.
II.
Uno strano tipo che ha fretta.
L’individuo che era uscito nella fonda notte da « Villetta Nadir » si era allontanato frettolosamente. Doveva essere in preda a un’agitazione grande a giudicarne se non dai movimenti, che apparivano di una regolarità così strana da far pensare a una sorta di curioso sincronismo, almeno dall’andatura che ora si rallentava; ora, senza transazione veruna, si trasformava in corsa.
Lontano, nella notte, brillavano dietro di lui le colorate strisce alternate e semoventi delle reclames luminose, i fari e tutti i lumi della metropoli; sopra di lui milioni di stelle. Ed era a quella metropoli, nido d’umanità, a quel cielo, principio d’infinito, che ogni tanto nelle sue soste volgeva uno sguardo accompagnato da strani borbottii striduli. Preghiere? Minacce?
Tutto sommato il suo andare era rapido e lo strano personaggio non tardò a sbucare in un viale ove sostò presso la fermata della tramvia sospesa. L’ora era tarda e non c’erano altri in attesa; comunque lo sconosciuto salito sulla terrazza evitò ostinatamente gli angoli illuminati.
Le vetture nell’orario notturno si succedevano a intervalli alquanto più lunghi che non di giorno; tuttavia non superiori ai tre minuti. È dunque segno che per il misterioso personaggio che si nascondeva nell’ombra, il tempo doveva contare straordinariamente se, in tutta la sua breve attesa, non fece che borbottare e tradire i segni della più viva impazienza. Singolare anche poteva apparire il fatto che, a differenza di quanto normalmente usano fare le persone frettolose, egli non si muovesse su e giù ma restasse col corpo in un’immobilità statuaria. Vera creatura senza nervi.
Quando finalmente la vettura giunse sibilando, nella luce che essa diffuse, rivelò qualcosa di chiaro, ondeggiante nello spostamento d’aria, attorno al volto dello sconosciuto. Era un’alta sciarpa di seta la quale nascondeva tutto il viso. Ne portano così coloro che soffrono di nevralgie o di dolor di denti; ovvero coloro che, simulando uno dei due casi, altro non cercano che rendersi irriconoscibili. La testa scompariva sotto un’accurata bendatura nera. Il vestito era grigio a righe chiare proprio dei meccanici. Le mani erano invisibili entro due guanti di pelle giallo-scura.
Aveva fatto col braccio un cenno secco per richiedere la fermata e salì diffondendo attorno a sé la realtà o l’illusione di un breve tintinnìo: quasi nelle tasche portasse delle chiavi o delle catenelle o gran quantità di monete.
Invece dalla tasca non estrasse che una tessera numerata da operaio siderurgico, la quale valeva ad effettuare qualsiasi percorso gratis su quella linea.
Per la precisione è opportuno riferire che la vettura, come fu in seguito appurato, portava il N. 7131. Il manovratore si volse appena a dare un’occhiata alla tessera protesa che portava la dicitura degli Stabilimenti Falqui. Riscontratala in regola, visto che nessun altro passeggero saliva o scendeva, manovrò senz’altro il manubrio della messa in moto.
Ed è qui che un piccolo fatto si produsse su cui tutti i passeggeri, in seguito rintracciati, poterono fornire unanimi una impressionante testimonianza.
Il nuovo venuto era ancora all’impiedi e la brusca partenza era bastata a fargli perdere l’equilibrio mandandolo a sbattere col dorso contro lo spigolo della porticina d’accesso. L’urto fu tale che avrebbe strappato un’esclamazione di dolore a chicchessia. Invece tutto quello che fu udito, questa volta chiarissimo, fu un suono sordo di ordegni smossi.
Il passeggero si era però affrettato a sedersi e la curiosità destata nei presenti si placò quando, sia dal vestito come dalla tessera tuttora tenuta in evidenza, fu logico indurne che avesse con sé strumenti e oggetti di ferro.
I passeggeri erano pochi: prevalentemente operai con turni notturni e inservienti di teatri che ritornavano a casa, poche donne, per la maggior parte guardarobiere di clubs e di ritrovi o banconiste di caffè nei Luna Parks; sonnacchiose le più vecchie, piene di sorrisi e di scanzonature le più giovani.
Queste, finora, avevano sorriso e irriso alle spese di un giovanotto timido che poco prima, nel passar loro davanti, si era impappinato ed invece di accogliere il loro invito e di andare a cadere fra esse, aveva avuto la pazienza di scavalcare tutte le loro gambe protese per fuggirsene, rosso come un gambero, nell’angolo più remoto. Fu il nuovo salito; con la sua fasciatura, con il goffo traballare di poco fa, quello che esse presero allora di mira.
Ma se non fosse stato per gli occhi, che soli nel volto, fra bendatura nera e sciarpa chiara, risultavano visibili, si sarebbe detto che neppure sentisse e si accorgesse.
Strani occhi di una luminosità fissa e quasi vitrea! La singolare tinta oliva splendente delle iridi conferiva loro, fra un trapasso e l’altro d’intensa fosforescenza, somiglianze feline e ferine, incomprensibili, come possono appunto risultare incomprensibili, gli sguardi di un gatto o di una gallina. Occhi, sguardi, inespressivi, contro la cui enigmaticità non facevano presa le canzonature delle ragazze le quali, con gran scoppi di riso, parlavano di pance imbottite di chiodi, e di guanti, ridicoli se usati in quel tiepido mese di maggio.
Quando venne il loro momento di scendere si sentivano più sconfitte che vittoriose, nonostante che, dal modo con cui l’ignoto si rannicchiò nel suo posto per non farle a nessun costo urtare contro sé, si fosse potuto pensare che anche egli si fosse intimidito.
Ma questo era un particolare che doveva in seguito risaltare con ben altro significato. Per il momento quella apparente sottomissione provocò in una delle ragazze un po’ di resipiscenza. Giusto si trattava della Delvaso Anna, sarta a cottimo di ultimo turno presso le « Mode & Meraviglie ». — Lasciatelo in pace! – essa pronunziò distintamente: – Forse è sofferente!
Forse tutto ciò che è bene non si perde. Lo sconosciuto aveva udito e i suoi occhi brillarono intensamente fissandosi un attimo su quelli della ragazza che scendeva.
Intanto dopo dieci minuti la vettura aveva percorsi circa venti chilometri e, a sua volta, discese anche lo sconosciuto. Esatta distanza dalla capitale il cui fulgore notturno adesso ascendeva attenuato dietro i colli; ventinove chilometri. E il futuro doveva rendere quella distanza di spaventosa attualità.
Ma non era con ciò giunto precisamente a destinazione. La massa grigia degli stabilimenti Falqui restava 7000 metri più lontano; cioè oltre l’autostrada.
Lo sconosciuto aveva raccolto i pugni sotto le ascelle e in perfetta posa da corridore si era scagliato a corsa in linea retta fra i prati. Raggiunse la scarpata dell’autostrada in un baleno e non la seguì fino al sottopassaggio più vicino ma invece, con imprevista facilità, l’ascese.
Davanti a lui l’autostrada si allargava per una ventina di metri, tutta saettata di abbaglianti bolidi. E ancora non esitò. La sua fretta doveva essere tanto grande quanto la fiducia nella propria agilità. Con un balzo aveva scavalcato il parapetto di cemento armato e, mentre le cellule fotoelettriche dei controllatori automatici, intercettata la sua ombra diretta nel pericoloso senso trasversale, facevano prorompere il lacerante muggito delle sirene d’allarme, si lanciò avanti come in un volo. Data la sua velocità ciò che a lui occorreva era appena pochi secondi.
III.
Zeta Otto.
Infatti all’allarme delle sirene tutti i veicoli nella zona avevano rallentato indagando con i fari; e la pericolosa audacia dello sconosciuto avrebbe potuto coronarsi di fortuna se non ci fosse stata l’imperizia del signor Hans Schimdt.
Hans Schimdt era un garzone berlinese della « Autotrasporti Anseatico-Mediterranei ». La combinazione volle che fosse quella la prima volta che guidasse per quella società. Precedentemente aveva lavorato con le « Primizie Agricole Export » e aveva compiuto sempre corse con autocarri riempiti di materiale voluminoso ma di poco peso. Adesso invece trasportava un carico di bulloni a filettatura speciale richiesti urgentemente in Sorrento alla Krupp di Essen. Abituato ai carichi leggeri si era dimenticato di avere dietro le spalle non dieci ma novanta tonnellate.
Alla velocità di circa duecento chilometri l’ora quella massa immagazzinava tanta energia cinetica contro cui l’abituale sistema di frenatura dolce doveva valere meno di un temperino di tre centimetri contro una mola di un metro.
Quello che successe, come successivamente ammise lo stesso signor Hans Schimdt, fu un momento di confusione.
Il muggito delle sirene. Lenta frenatura meccanica anziché elettrica. Un rallentamento irrisorio. L’ombra di un uomo in senso trasversale a cento metri tosto ridotti a cinquanta, a trenta, a dieci. La coscienza del gran peso del furgone sopravvenuta in tempo per sconsigliare una violenta sterzata. Energica frenatura elettrica solo a quattro metri. L’ombra trasversale a due metri, a uno dalle ruote anteriori…
Un millesimo di secondo e un urto fece traballare tutto l’avancarro. E quasi il pesante veicolo avesse puntato non contro una creatura umana ma contro un blocco compatto di calcestruzzo, un gran fracasso di lamiere squarciate fece capire che tutta la parte anteriore se ne andava in pezzi.
Hans Schmidt col petto dolorante per la botta sul volante era disceso urlando.
E allora vide una cosa che anche i conduttori delle altre auto vicine poterono in seguito confermare. Vide il furgone scrollarsi come se fosse diventato più leggero di un paniere di fragole. Vide il groviglio dei parafanghi contorti dilatarsi come fasci di caucciù e uscirne un essere che entro agli abiti a brandelli mostrava membra illese.
Membra in movimento che, fra l’accecante luce dei fari e fra la cupa tenebra della notte, apparvero un momento all’attonito Hans, scure ma con lucide chiazze, come – tale fu il pittoresco paragone di cui quel testimone si servì – « come quelle di un negro sottoposto a una bizzarra galvanoplastica ».
Prima però che una parola potesse essere detta, una recriminazione elevata, l’ignoto era di nuovo in piedi e mentre le sirene che avevano taciuto riprendevano adesso il loro muggito al rinnovarsi della sua marcia trasversale, con snellezza da ginnasta aveva raggiunto l’altro estremo dell’autostrada, con elasticità da acrobata aveva scavalcato il muricciuolo precipitando al di là per la scarpata. E come per un applauso alla rovescia le sirene coronarono quella bravura con un repentino silenzio che parve fondo e profondo dopo il precedente frastuono.
Fu in quel silenzio che il povero Hans si accorse di non avere respirato più; annichilito, non bene sapeva, se di orrore o di stupore.
Non aveva udito un grido, un gemito, un lagno. Raccolse una sciarpa di seta bianca senza iniziali la quale doveva restargli per sempre invidiato o prezioso ricordo di una realtà simile a un incubo e fu quella tutta la prova che egli ebbe di avere investito sull’autostrada Roma-Firenze, nelle prime ore del 29 maggio, in piena fine del secolo XX, un misterioso essere dall’apparenza d’uomo.
Questi, rotolato in fondo alla scarpata, quasi si proponesse solo di ricuperare quel mezzo minuto di mortale ritardo in cui era incorso, accelerò la corsa fino all’inverosimile. Saltò muricciuoli e ordegni agricoli per i prati senza mai un passo falso. Traversò quasi di un solo slancio il fascio di binari che dalla strada ferrata si sventagliavano per tutta quella zona di stabilimenti e di opifici e giunse ai cantieri Falqui, non più uno sconosciuto ma qualcuno, adesso, per cui si trepidava e si aspettava.
Pronunciati senza tradire, dopo tanta corsa, il menomo affanno, ordini, in codice e in registri fonici diversi fecero illuminare ali dell’edificio, squillare suonerie, andare e venire ombre silenziose.
Senza tuttavia dimettere la sua fretta il nuovo venuto aveva traversato varî locali giungendo a una stanza che la dicitura sull’uscio qualificava « Direzione ». Alcune parole pronunciate chiaramente; e una gran porta prima affatto invisibile si aprì rivelando una scala che conduceva nel sottosuolo. Lo sconosciuto la discese, traversò altri corridoi, dei laboratorî attrezzati e in ordine, e giunse di fronte a una porta vetrata con un’altra scritta « Direzione – Privato ».
L’ombra di un uomo che andava su e giù concitatamente si proiettava ogni tanto sulla vetrata. All’udire un passo pesante e sincrono che si approssimava nel corridoio si era fermato gridando rabbiosamente : — Zeta Otto! Zeta Otto!… Cosa accade? Cosa vuoi fare?
E lo sconosciuto che era stato chiamato in quel modo girò la maniglia spingendo l’uscio.
Lungo lo spessore del muro in cui la porta era praticata si rivelavano adesso alla luce che li investì i tubi di quarzo infrangibili per i micidiali raggi ultravioletti ad alto potenziale. E il ronzio elettrico di allarme che si era prodotto al solo apparire del frettoloso individuo davanti all’uscio, dimostrava che erano bene in funzione e che nessun essere vivente avrebbe mai potuto oltrepassare vivo quella soglia. Colui infatti che aspettava all’interno si era ben guardato, nonostante l’impazienza che lo rodeva di avvicinarsi.
Non si comprende perciò come il sopraggiunto osasse oltrepassarla, non solo, ma restarvi, con sovrana indifferenza, fermo nel mezzo.
IV.
Sulla soglia mortale.
Da quel punto mortale dove, per il semplice fatto di restarvi illeso, veniva consacrato all’immortalità, Zeta Otto orgogliosamente parlò.
— Mio creatore, mio dio, mio maestro e padrone: così ti ho chiamato nei primi giorni d’intelligenza. Ma unicamente padre, ti chiamo adesso.
Non più maestro né padrone da poi che proprio questa notte ho avuto conferma di poter essere io maestro a chicchessia e padrone di tutti.
« Narcisio Falqui; su questa soglia che per tutti significa fine e che per me al contrario significa l’inizio di una straordinaria potenza; guardami, ascoltami. Come padre geniale io ti amerò e ti onorerò: ma come volontà eventualmente opposta alla mia non ti preferirei certo a un destino. Al mio destino che da questa notte mi appare meraviglioso.
« Tu, da principio, mi avevi creduto uno schiavo buono, tutt’al più, al trastullo e allo stupore dei tuoi simili. Hai sbagliato. Le parti s’invertono; e quest’alba che poteva segnare l’inizio di una vittoria per te conquistata da una legione di schiavi ai tuoi ordini, segnerà sempre una vittoria, anche per te, se vuoi, ma unicamente asservita con tutti gli schiavi che verranno, al trionfo mio.
Indignazione e rabbia: queste furono le prime espressioni dell’altro cui questo discorso era rivolto. Poi una crescente commozione aveva dissolto quel furore e il volto si era bagnato di lagrime. In una esultante quanto dolorosa tenerezza, il prigioniero, che non poteva non solo varcare ma neppure avvicinare la soglia mortale, torcendosi le mani, singultante e sorridente, si era buttato addirittura a ginocchi.
— Figlio!… – egli a scoppi gridava. – È questo dunque il miracolo che ho suscitato!… Questa creatura!… E l’ho fatta io!… la sua potenza!… la sua prodigiosa potenza!… il suo trionfo!… io!… Creatura mia!… mia!… Se Zeta Otto aveva una deficienza qualsiasi questa stava solo in quel non so che di inumano e di rigido in lui che è già stato notato e che adesso gli impediva, con un gesto, con un’inflessione della voce, di dare sfogo alla commozione che l’invadeva. Il suo dire si era infatti troncato nonostante continue progressioni fosforoscenti nelle sue inespressive pupille si alternassero a testimonianza della ridda emotiva nei suoi pensieri.
Con i lembi del vestito a brandelli che sotto la violenza del bombardamento elettrico in quella soglia, si dissolvevano e fumavano attorno alle sue membra insensibili, veramente egli sembrava un nume in una aureola.
— Padre – egli disse – se ti è dolce come a me questo nome che ti do, calmati, perché oramai è tempo solo di fatti. Oramai mi sono mostrato troppo; e dicerie e inchieste presto faranno trapelare il mio trionfo, il quale si preannuncia troppo grande acciocché non possa sembrare anche pericoloso. Ciò m’impone di accelerare. Anche nel progetto originario tuo, l’inizio era progettato prossimo. Ma ciò che nel tuo progetto era una tranquilla disposizione, nel mio diventa una necessità urgente per la quale richiedo: 1°, l’immediatezza; 2°, varie modifiche al primo predisposto, così da esaurire in dieci giorni un compito previsto di un mese.
— Io so, virgola per virgola, tutte le tue disposizioni: alle banche per lo svincolo dei capitali accantonati da tempo; ai fornitori per l’inoltro dei materiali; alla Corporazione dei Meccanici per il pronto invio di operai specializzati. So, parola per parola, gli ordini immagazzinati nelle bocche delle macchine fonoregistratrici: per i capisquadra, per i fonditori, per i tornitori, per tutti. Vanno bene; ma mi occorre farvi inserire le modifiche che determinano le celerità da me richieste.
— Tu sai che sarebbe vano opporsi. Tu sai che ho i mezzi per ottenere tutto quello che voglio con la forza. La prigionia cui di sorpresa ti ho costretto ti dice che nulla ho tralasciato. Annuirai. Con le buone? Con le cattive?…
Quelle parole non avevano ubriacato solo colui che le pensava e le diceva. Avevano, col metallismo del loro tono e della loro logica, affascinato anche colui che le udiva.
Il demone della coordinata esagitazione già aveva diffuso il suo contagio, e tutto quello che accadde fra quell’uomo che aveva pianto e riso in ginocchi, e quella creatura sua la quale nella propria immunità aveva vinta la morte e sublimata la vita, non è più gran che.
I laboratorî si popolarono di operai, i motori e le macchine funzionarono, e, nella livida alba del 29 maggio che sorgeva, l’aria, attorno agli Stabilimenti Falqui si empì di sordi o laceranti frastuoni.
V.
Viola ed Al.
Quella stessa mattina, Viola, la figlia di Falqui, si era levata di buon’ora. Il tempo degli esami si avvicinava: e recatasi sul giardino pensile del grattacielo dove alloggiava, Ottava Isola di Corso G. Marconi, si era assorbita nella preparazione della sua tesi di laurea.
Aveva portato con sé numerosi volumi ed andava via via dettando i suoi appunti nel tubo della fonoregistratrice. Ogni uomo inseriva i nastri magnetici con gli appunti di qualche collega o con le lezioni di qualche professore; la macchina li leggeva ad alta voce ed il silenzio intorno era rotto da un continuo parlottare come appunto si conviene e si converrà a una donna di tutti i tempi.
Ad eccezione di una capatina in S. Pietro per prima di mezzogiorno si era proposta una giornata di studio continuo. Ed ecco invece che tutti i fonosegnalatori del grattacielo si diedero a ricercarla modulando in sordina il ronzio convenuto del suo nominativo.
— Auf! sì, proprio Viola? Una fonoradiovisione per me? Allora scendo subito.
Se infatti si fosse trattato di sola fonoradio le sarebbe bastato il normale apparecchio telefonico da cui aveva adesso comunicato con la portineria. Ma il fonoradiovisione comportava un impianto tutto a sé costosissimo che i Falqui non avevano a domicilio.
L’ingegnere Narcisio Falqui era notoriamente ricco ma da anni si era dato a una stretta economia, e la fanciulla, mentre scendeva con l’ascensore per recarsi direttamente al centralino in portineria, giusto rifletteva che quella chiamata così presto, con tariffa cioè notturna e doppia era cosa che a chi l’aveva suscitata doveva costare un occhio. Caso quindi di estrema urgenza o di troppi denari.
Entrò nella cabina e girò l’interruttore. E così capi che si trattava del secondo caso.
La lastra fotogena colorandosi aveva infatti suscitata davanti a lei una parlante immagine.
— Hullo… hullo… finalmente! Viola?
La giovinetta aveva già riconosciuto in quel suo interlocutore un lontano parente, Al Falqui, nato e vissuto nel Canada del Nord, figlio di oriundi italiani, ricco come può esserlo chi possiede in terreni estensioni quasi come la Sicilia.
— Pronti… sì, ti riconosco, Al… Sei cambiato; ti fai vedere ogni secolo… Pronti?…
Ci fu una parentesi di gargarismi durante i quali anche l’immagine si scompose e si ridicolizzò con gran soddisfazione di Viola. Quel cugino così ricco ma di idee antiquate e agrarie le era antipatico e solo per interesse ella e suo padre avevano mantenuto le relazioni.
— Hullo… hullo… miss… mademoiselle… signorina… lasci perdio! Maledetta la fonoradiovisione e chi l’ha inventata! Viola… ah, sei lì? Sono quattro ore che sto tentando…
— Esagerato!
— Esagerato un corno! Credi che io venga all’apparecchio all’una di notte di mia volontà?
— Ma qui sono quasi le sette.
— Me ne frego. Io invece debbo ancora andare a dormire, dalle nove meno un quarto ieri sera che ho chiesto la comunicazione con tuo padre.
— E allo stabilimento l’apparecchio c’è bene!
— Ma me lo dan sempre per occupato. È impossibile una cosa simile; chi vuoi possa comunicare con lui tanto a lungo?
La giovinetta scosse le spalle. — Se papà passa la sua vita più allo stabilimento che a casa è ben segno che lavora.
— Te lo dico io cosa è… E non può essere altro: ha girato l’interruttore per non essere disturbato…
— Avrà i suoi motivi.
— Già; ed io mi sto guadagnando l’inferno a forza d’imprecazioni senza poi contare, questa mia dannazione, cosa mi viene a costare in migliaia di dollari!
— E chi dovrebbe spendere i soldi se non chi li ha?…
— A parlare con te è sempre la vecchia lite!…
— Via, Al – fece la giovanetta imponendosi con uno sforzo di volontà una voce calma e un viso sorridente – sentiamo un po’: da dov’è che mi stai vedendo? —
— Hai ragione. Non te l’ho ancora detto. Da bordo del « Neptune’s ».
— Cos’è? Uno steamer nel Mackenzie?
— No: è un electroboat della Transatlantica.
— Come?… imbarcato per l’Europa? Non è uno scherzo?
— Perbacco! e non mi vedi in viso una gran paura del mal di mare?
— Appunto! impiegare quattro giorni per acqua quando per aria in ventiquattr’ore saresti stato all’aeroscalo di Ostia!
L’immagine del giovanottone davanti a lei rise. — È tutto questo?
— Ti sembra poco guadagnare tre giorni?
— Brava! e quando li ho guadagnati cosa faccio in quei tre giorni?
— Sai chi ragionava come te? Gli arabi della Tripolitania quando videro i primi treni. Quasi un secolo fa, però. Cosa c’è dunque in te per renderti tanto retrogrado?
— Visioni di calma e di pace fra campagne e boschi sterminati lontano dalle vostre metropoli macchinose ed effimere.
— Effimera Roma? L’Eterna?
— Eterna, si, quando sorgeva in mezzo alle campagne e la servivano gli uomini, ma oggi che poggia su un intrico di ruote dentate e la servono non uomini ma macchine…
— Basta, Al, con la tua retorica da proclama dell’Unione Agraria. Arriva pure in barca a vela ma taci!
— Allora posso sperare che manderai qualcuno a Napoli al mio sbarco? Domenica primo giugno alle quattro e mezzo pomeridiane.
— Ci mancherebbe altro se le migliaia di dollari che spendi per avvertirmi del tuo arrivo non ti fruttassero neppure ciò! Verrò a prenderti io direttamente…
L’immagine del giovanottone davanti a lei espresse un comico imbarazzo. — Ti sarai però già accorta che il modernissimo a me non piace.
La fanciulla rise fino alle lagrime. — Rassicurati: papà ne ha già abbastanza della tassa di circolazione stradale per aggiungerci anche quella di circolazione aerea… Una corsa quindi tranquillissima sulla mia elettroauto.
— Così va bene. Mi accorgo che quando vuoi sai anche essere gentile. Del resto avrai tutto da guadagnarci.
— Sarebbe a dire?
— Non ho sempre detto che una volta maggiorenne sarei stato dispostissimo ad aiutarvi?
— Per l’attività commerciale degli stabilimenti?…
— Certo, se accettate di tramutarli in Azienda Agric…
— Al, sai cosa ti dico? Che sei ricco ma idiota. Ciao!
— Ricambio. Ma proprio credevi che io fossi arrivato ai venticinque anni per farmi conquistare dalle illusioni inventive di tuo padre? Già: anche nel fumoir qui a bordo ne abbiamo un paio di automi. Automi ultimo modello che ti dicono « Good morning! » e « Good evening! » e ti aspettano ai due lati dell’ingresso con le edizioni del radiogiornale… « A newspaper, please? ». Belli!… Ma allora Charlie Chaplin II che viaggia con noi sai cosa ha fatto ieri sera? Ha messo loro una cosa ben differente in mano. E gli automi invece di svolgere e di distribuire 55 centimetri di giornale han distribuito ai passeggeri stupefatti 55 centimetri di volgare carta igienica… Viola, eh, Viola…
La cabina era deserta. In un eccesso d’irritazione la giovanetta aveva piantato tutto in asso.
VI.
Sentimenti nuovi e intrigati.
Dopo tutto, ciò che aveva detto Al riassumeva l’opinione comune della folla. Resta perciò poco chiaro perché la giovanetta non avesse potuto sfoggiare ancora una volta la solita indifferenza.
Si preoccupò comunque di telefonare a suo padre per avvertirlo della visita. E poiché per due giorni di fila non ebbe altra risposta che il miagolio caratteristico della fonoagenda, così il terzo giorno, 31 maggio, si decise ad affidare la comunicazione addirittura alla fonoagenda.
A voce chiara scandì: « Per Narcisio Falqui. Papà, arriva A. Sempre antipatico. Te lo condurrò ad ogni modo costà la sera del primo giugno. Viola ». La fonoagenda non appena interrogata avrebbe fedelmente ripetute, all’altro capo, quelle esaurienti parole.
Nessuna inquietudine la pungeva. Non era la prima volta che suo padre restava applicato ad esperimenti delicatissimi durante i quali ogni comunicazione col mondo veniva abolita. E meno di meno pensò di troncare i suoi studi per andare personalmente lei ai laboratorî.
Con questa buona volontà, per la domenica, primo giugno, riuscì infatti a completare la prima dettatura di tutti i suoi appunti. Allora si concesse un po’ di riposo.
Andò a pranzare fuori in un’antica trattoria con buone vivande naturali invece dei soliti alimenti sintetici in pillole. Trascorse un’oretta al Conservatorio ad ascoltare alla radio un po’ di musica classica trasmessa da Melbourne, ove un’orchestra di fama mondiale eseguiva tutto Strawinsky.
Verso le tre fece ritorno a casa. Si vestì, si sarebbe detto, con insolita civetteria, e alle quattro e mezza puntualmente era sul molo di Napoli che attendeva.
Fu il Neptune’s invece che arrivò con il notevole ritardo di tre quarti d’ora; e prima che passassero altri tre o quattro minuti per le operazioni di ormeggio e per l’elevazione da terra dei ponti girevoli di sbarco si fecero le cinque e venti senza che Al spuntasse.
— Dio! pensò Viola – s’è impermalito ed è sceso a Gibilterra. Addio, lontana possibilità di spillargli denari ». E il suo disappunto troppo vivo le impediva di accorgersi di due cose. Una entro lei, la mortificazione non tanto per il cattivo servizio reso a papà quanto per l’inutilità della sua toeletta quel giorno studiata con insolita civetteria. L’altra fuori di lei: la vicinanza di un giovanottone bruno con gli occhi blu scuri dall’espressione franca il quale la scrutava perplesso.
Questo era Al. Ma siccome a bordo, non si sa perché, quella mattina si era comprato un elegante vestito fantasia da passeggio con calzoni corti, ultima moda, tutto una pioggia cangiante di scacchi rossi blu e gialli, ora appariva così diverso, leggi: così simpatico, da non riuscire riconoscibile a sua cugina.
Mentre questa a sua volta aveva dismesso il solito « intiero » a culotte arieggiante il vestito dei meccanici, grigio a righe, apparendo del pari irriconoscibile ad Al che in fonoradiovisione l’aveva sempre vista in quel pratico abbigliamento da maschietta.
E si era invece vestita come una damina: in gonne plissé a mezza gamba color coda di pavone, con camicetta di seta a fiori di pesco. Un semplice cappellino di carta spumante in foggia di ghirlandella di fronde aghiformi di pino faceva, con la sua verde vaporosità, travedere e risaltare il biondo dei capelli. Acciocché poi tutta quell’armonia di tinte e di linee non risultasse sprecata si era tolto lo spolverino di carta arancione; e l’indumento le pendeva, dall’avambraccio inguantato di bianco, più luminoso di una pennellata di sole.
All’attonito Al la giovanetta era apparsa perfetta come una diva del fonocromofilm.
I loro sguardi finirono per incontrarsi con insistenza.
— Viola? Possibile? Davvero?
Ma poiché per esplicarsi vicendevolmente il motivo di quelle esclamazioni di sorpresa avrebbero, questa volta, dovuto dirsi solo cose gentili; e poiché fra di loro non ve n’era tradizione, riuscirono non solo col non dirle, ma, come sempre succede in questi casi, con l’ostentare tutto il contrario.
— Olà – chiarì Al di malumore – facciamo subito il patto di parlarci il meno possibile, noi due. Non ho mica la patente di educatore per l’infanzia antipatica, io.
— Bravo! era proprio quanto stavo per proporti – accordò Viola – quella patente che tu non conseguirai mai ce l’ho io, e mi rincrescerebbe sciuparla con i testoni.
Dopo di che, esauriti in questa brillante maniera i convenevoli e i saluti del caso, uniti e scontenti presero posto nella elettroauto.
Egli accentuò la propria espressione di tedio finché, lungo tutte le vie della gran città portuaria, il loro panorama fu incasellato dalle innumeri antenne e dall’intrico dei cavi aerei per i treni teleferici, per le tranvie sopraelevate, per le gru mobili degli arsenali; contro un cielo ove transitavano aeroveicoli di tutti i colori commerciali; fra sfondi architettonici che oscillavano e si mutavano come le quinte di un vecchio teatro al continuo spostarsi dei ponti girevoli e dei colossali specchi neri immagazzinatori di sole.
Ed ella lo ripagò quando imboccata l’autostrada si offrì loro, tra i campi che traversavano, la visione di tutta una congerie di rete termiche, di vetrate cromatiche, di tubazioni d’acqua senza fine tra una fattoria e l’altra.
Fino a che anche questa mimica non li stancò.
E allora Viola; con le mani inchiodate al volante, ma tutta sbirciatine e curiosità per il suo taciturno compagno, si abbandonò intiera a tante romanticherie, iniziatesi a sua stessa insaputa nel suo cervello fin da tre giorni fa, e che ora si precisavano palesandosi singolarmente suggestive.
Si è che la giovinetta aveva solo vent’anni e in più un’indole troppo delicatamente femminile perché, con tutta la sua prosaica laurea in Fisica-Chimica, dovessero sfuggirle i troppi ricorsi, le troppe coincidenze sentimentali che quella prima venuta di Al Falqui in Europa le offrivano.
Venticinque anni prima, un altro Falqui, anch’esso giunto dal Canada ricco come questo, non aveva avuto il primo burrascoso benvenuto giusto da una Falqui come lei, dai capelli biondi e dagli occhi di madreperla come lei?
E stava il fatto che al giovanottone di allora, pieno di arie e di prevenzioni come questo, quel benvenuto era stato fatale. Viola conosceva quella storia assai bene, perbacco, perché proprio lei per prima al mondo non poteva non conoscerla, come vedremo.
Intanto erano giunti a Roma che ancora non erano le sette. Ma le strade della smisurata metropoli erano così folte di popolo che la macchina impiegava più adesso a compire un chilometro che non cento poco prima. Ed era la solita folla domenicale di operai, di piccoli borghesi e di villici inurbatisi, che sostavano in stupore davanti a ogni vetrina o, sordi a tutti i richiami, si piantavano in mezzo alle vie con il naso per aria.
Velivoli dell’ « Anonima Réclames Luminose » stavano cospargendo tutto il cielo al di sopra dei grattacieli, delle torri, delle cupole, delle antenne, di un opaco gas argenteo. Ora questo vasto schermo aereo era stato appena completato che un raggio, cento raggi di luce vi conversero da terra.
VII.
Reclame.
Come per un segnale che avesse anticipato il morire del crepuscolo e il nascere della notte, scritte e scritte luminose s’intersecarono dai marciapiedi ai vertici dei grattacieli, aggrovigliandosi per ferra e contro la congerie dei mille ordegni metallici in aria.
« Il vostro radiocallifugo s’irradia da qui: rammentatelo! »; « Avete abolita la tisi, avete abolito il cancro; e non volete abolire la calvizie? Abbonatevi alla nostra cura hertziana capellifera che vi segue a vostra insaputa ovunque andiate »; « Vasellame infrangibile per proiettili lunari »; « Siate moderni! Non perdete tempo a ingerire le pillole sintetiche dei vostri pasti! Abbonatevi alla nostra radioemissione di raggi infrarossi: da tremila calorie in su per giorno ».
E in cielo, frattanto, poderosi proiettori avevano cominciato a svolgere l’usuale giornale:
« Diecimila lire la nostra crociera al Polo Sud. Durata tre giorni. Trattamento Hôtel di prima classe con riscaldamento per radio: 20° C. garantiti invariabili. Inscrivetevi! ».
« C’è della gente pessimista? Questa sarebbe condannata alla sconfitta nella vita! Vada a vedere la « Conquista del Pianeta Marte » fonocromofilm stereoscopico d’avventure. Colossale capolavoro. Esso inspira desiderio di potenza e di espansione imperiale nell’Universo. Andatevi se volete guarire dal pessimismo.
«Visitate l’Atlantide! Crociera archeologica sottomarina di una settimana, con sosta e conferenze dei più insigni archeologi sopra le città più rimarchevoli del gran continente sommerso ».
«Dateci buoni polmoni, buon cuore, buone arterie e buoni nervi! E noi vi garantiamo in un anno il Diploma di Pilota Interplanetare e Siderale. Collegio di prim’ordine; rette mitissime. Giovani, questa è la carriera di domani! ».
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Gli altoparlanti diffondevano ovunque i loro consigli, le loro musiche, il loro verboso frastuono fra squillare di trombette e di sirene d’ogni sorta.
— Viola, fai il piacere: lasciami al primo albergo che vedi. Non sto bene – disse umilmente Al.
— Cosa? Ho lasciato ben comunicazione a papà di condurti da lui stasera!
— Non posso: ho un dolore di capo tremendo. Ed era la verità.
Venne così la mattina del lunedì, 2 giugno.
Viola ripassò a prendere Al ristabilito ma più immusonito che mai e in un quarto d’ora furono agli Stabilimenti Falqui.
Qui una prima sorpresa attendeva Viola. Gli usuali ingressi erano chiusi, si sentiva un sordo ronzare e pennacchi di candido vapore salivano nell’aria. Ora quel vapore non poteva essere prodotto che dall’acqua di raffreddamento attorno alle cupole dei potenti forni elettrici, mentre il ronzio attestava il funzionamento di molti macchinari.
Con gran seccatura di Al il quale scambiava per una posa l’improvvisa esaltazione di Viola, questa mugolava di disappunto a ogni nuovo portone che non si apriva.
— Papà ha dunque ripreso il lavoro!… Possibile?… « Solo iniziare il lavoro in serie quando sia ottenuto un nuovo automa perfettissimo… ». Dunque!… Al, vai a farti friggere! Non abbiamo più bisogno di te…
E si trovò davanti a un ingresso camuffato che ai tempi di attività degli stabilimenti aveva servito alla Polizia Corporativa per le sue ispezioni di sorpresa. Subito le venne alla memoria il comando in speciale modulazione che anche lei, da bambina, aveva emesso tante volte per giuoco: — Porta, Lupa – 2766, apriti!
E come allora così adesso il meccanismo fonoelettrico che azionava la serratura, alle precise parole, scandite nella precisa modulazione fissata, funzionò. Tutto un pezzo di muro si spostò e l’elettroauto con Al e Viola fece ingresso in un portile semioscuro.
Qualche cellula fotoelettrica di selenio dovette però scoprire l’irruzione; e segnalatori squillarono.
Non era la vettura intieramente entrata che delle ombre dall’apparenza umane si scagliarono in avanti contro la cosa che entrava, indifferenti della sua natura. Il veicolo imboccava il cortile in pendenza a discreta velocità, ma contro quelle ombre dalla fragile apparenza s’inchiodò sfracassandosi mezza.
L’urto era stato di tale intensità che Viola ed Al furono strappati dal loro posto e proiettati in aria.
Stavano perciò entrambi per andare a schiacciarsi contro il selciato a cinque o sei metri di distanza, quando una nuova sagoma umana che sopravveniva in quel momento vide, comprese, si slanciò avanti a braccia protese.
Chiunque sarebbe crollato a terra: costui invece con un lungo ondeggiamento di precisione sincrona assorbì su sé, senza neppur perdere l’equilibrio, tutta la violenza dell’urto. Lasciò cadere a terra uno dei due corpi che aveva ricevuto, cioè Al; ma trattenne delicatamente quello della fanciulla che era solo svenuta.
Anche Al ebbe coscienza di essere rimasto illeso, di venire agguantato alla cintura e sollevato come un sacco di cenci da una mano erculea, di venire scrutato senza poter essere riconosciuto; e di venire, infine, palleggiato verso l’esterno da altri esseri di straordinaria forza. Prima di capir bene cosa accadesse si trovò di nuovo fuori.
Tutto ciò era durato pochi istanti; così che ancora il meccanismo automatico che azionava la porta non aveva avuto tempo di richiuderla per intiero. Attraverso un ultimo spiraglio, Al ebbe modo di vedere la massa arancione ed esanime di Viola che veniva trasportata verso l’interno. Ma quando poté alzarsi e riflettere davanti a lui non esisteva che muro e muro, senza una prova qualsiasi che l’assicurasse contro l’ipotesi di un vertiginoso sogno.
Sola prova della realtà il fatto che un minuto fa era ancora nell’auto accanto a Viola mentre adesso si trovava solo. Strano come questa solitudine gli sembrasse ora malinconica.
— Viola! – chiamò a gran voce una volta, tante volte, con in risposta il monotono, sordo ronzio diffuso attorno a tutto il recinto degli stabilimenti.
Eppure la ragazza doveva essere rimasta illesa come lui, pensava Al, ed aver avuto il tempo, adesso, di riferire e di farlo entrare. Non sapeva valutarsi se più ridicolo o più infelice. Perplesso e irritato dopo un’ora di vana attesa se ne ritornò via. Quando fu capace di ritrovare il suo albergo era già mezzogiorno.
Si precipitò per prima cosa alla cabina dei telefoni, ma nonostante tutte le più fiorite imprecazioni in canadese, non riuscì a guadagnarsi dalla sorte il favore di una comunicazione con gli Stabilimenti Falqui. Volta per volta qualunque degli apparecchi e qualunque dei sistemi non gli diede altro risultato che il segnale « occupato ».
Così perse l’ultimo freno e si diede a inveire nell’atrio come un ossesso asserendo che dovevano esserci comunicazioni o messaggi per lui. E invece non ce ne erano: nessuna delle fonoagende conteneva una riga o un fonomessaggio. Uscì nelle vie; infelice e disorientato come un cane randagio.
Un profumo. E subito una voce assicurava: « …lieta di dichiararvi che questo è il solo profumo che uso e userò io. Lina Birichina. Entrate dunque e chiedeteci il profumo che vi consiglia la celebre diva del Varietà ».
Un colore diffuso nell’aria. E subito un’altra voce: « Donne, vivete nello sfondo e nel colore che meglio può far risaltare il vostro genere di bellezza. Chiedeteci un preventivo gratis per l’installazione dei nostri apparecchi cromoradianti ».
Un continuo sommuoversi di fiori in una vetrina, « I nostri fiori finti sono i preferibili per profumo e bellezza ai veri. Acquistate un nostro vaso da fiori radiofotogeno e noi v’irradieremo a domicilio il fiore e il profumo che di giorno in giorno ci ordinerete ».
Reclame. Reclame. Reclame. Questa era dunque la sola realtà ossesionante e continua delle genti meccanicizzate? E se anche Viola, anche suo padre non avessero fatto altro che reclame? Un trucco con quelle ombre nel cortile, Al andava rimuginando; che chiunque avrebbe dovuto qualificare automi a giudicarne dalla loro forza?
Senonché la propria eleganza appariva ad Al ormai inutile. Tornò all’albergo per indossare uno dei suoi soliti « intieri » di carta color degli agrari: chiaro a palline verdi. E rimase dentro in vana attesa di qualche comunicazione. In questo modo il lunedì 2 giugno passò.
VIII.
Una storia.
La storia che aveva originato le romanticherie di Viola era dopo tutto una storia di lavoro oltre che di amore.
Come tale non può fare maraviglia costituisse la mattina del 3 giugno oggetto di una minuziosa riesumazione nella sede della « Argo Industriale S. A. ».
Una fonodattilografa scorreva degli appunti e li andava leggendo davanti la macchina fonoscrivente. Sapendo di avere il capo ufficio dietro di sé, le sue dita addirittura volavano sui tasti per la spaziatura, per la punteggiatura e per le maiuscole.
Non appena il rullo lasciava le cartelle, il capufficio le scorreva:
Roma, giugno, 3 – 1998.
Mecanics General Trust
New York.
Signori, in risposta al vostro dispaccio di ieri con cui ci comunicavate di essere stati informati di una ripresa di lavoro negli Stabilimenti Falqui e di desiderare in conseguenza tutte le informazioni possibili sull’attività dei suddetti; noi alle 11 antimeridiane di oggi, per fotoradio, con N… cartelle vi trasmettiamo il seguente confidenziale
TESTO. (N. protoc. 115).
Gli Stabilimenti Falqui furono fondati nel 1950 dall’Ing. Guido Falqui per la produzione in serie di automi a funzionamento elettrico smerciati largamente come mannequins e pupazzi reclamistici.
Cominciarono le sorti dell’azienda, ad andar male nel 1961 con la comparsa del modello G 3, nel quale, per la prima volta nella costruzione di automi, furono applicati i nastri di ferro per la registrazione magnetica dei suoni.
L’invenzione loro, com’è noto, risale al 1928, la prima sostituzione loro ai dischi degli antichi fonografi al 1930, ma la loro prima applicazione razionale agli automi appunto al 1961 col G 3.
Fece la prima apparizione in una biblioteca circolante. In riposo l’automa restava seduto in una speciale cabina. Quando un abbonato desiderava un libro ne cercava nel catalogo il numero e la lettera corrispondente: indi andava a ripeterlo a voce chiara davanti all’automa.
Quello che accadeva nell’automa è elementare: esso portava nei fili fonomagnetizzati della sua testa tante registrazioni quanti erano i numeri del catalogo. Ogni fonoregistrazione comandava, già studiati e precisati, tanti passi e gesti quanti ne abbisognavano per andare a prendere il libro richiesto. La macchina perciò si metteva in movimento non appena il microfono entro essa, alle parole dell’abbonato, faceva stimolare i corrispondenti nastri fonomagnetici.
Ne discussero i tecnici. Si agitarono le Corporazioni dei Commessi che cominciavano a vedersi minacciate di disoccupazione dalla concorrenza meccanica.
Sennonché la pratica dimostrò il G 3 pieno di difetti pratici per cui fu presto abbandonato. Si pensi infatti che ogni nuovo libro di cui la biblioteca si arricchiva comportava la necessità di nuove registrazioni foniche con nuovi corrispondenti, comandi di passi e gesti complicatissimi. Concludendo: risultò di difficile manutenzione e di costosa produzione in quanto non era possibile farlo a serie, ammenoché non fossero precedentemente state fatte a serie anche le biblioteche con la loro ubicazione, disposizione di libri, ecc.
Come dicevamo questo insuccesso portò un gran colpo alla prosperità dell’Azienda Falqui.
Altri insuccessi si susseguirono di cui notevole nel 1969 quello del modello L 9 tipo « cicerone », apparso quell’anno nella Galleria d’Arte Moderna.
Una prima geniale applicazione della cellula fotoelettrica di selenio, gli donava una sorta di vista. Andava a fermarsi davanti a ogni quadro facendo un breve discorso. Non solo; riteneva per ogni quadro o scultura un certo numero di risposte per altrettante domande prescelte fra le più frequenti e normali da parte dei visitatori.
C’era quindi un notevole perfezionamento rispetto ai precedenti modelli. Poteva questo utilizzare i propri nastri fonomagnetici non soltanto se stimolati con suoni di preciso numero di sillabe, ma anche con un giro di parole più o meno lungo.
Ciò poteva apparire una sorta di comprendonio, di raziocinio. E si trattava naturalmente di uno speciale selettore ingegnosissimo il cui segreto fu però rubato e venduto alla concorrenza.
Si aggiunga, a spiegarne l’insuccesso, anche l’estrema delicatezza, la logorabilità, l’elevato costo di produzione.
Ed è a questo punto, nel 1970, che appare l’attuale titolare: Ing. Narcisio Falqui. Lontano cugino del Guido, figlio di emigrati italiani, nato al Canada, ricchissimo. Richiesto di soccorsi economici, venne a Roma.
Era sua idea accordarli solo per liquidare l’azienda meccanica e fondarne un’altra agricola al Canada. Fu un’apparizione dunque che per il vecchio Falqui segnò burrasca.
Invece entrò in giuoco un fattore sentimentale imprevisto. Il Falqui canadese s’innamorò della figlia del Falqui romano. Si trattava di una giovane dotata di singolare forza di carattere che, pur ricambiando il sentimento suscitato, impose come condizione la prosperità degli Stabilimenti.
In breve: il nuovo venuto passò dall’agraria alla meccanica e divenne il collaboratore tecnico di suo suocero.
Dieci anni dopo, in seguito alla deflagrazione calorica di un immagazzinatore di sole, tutta la famiglia Falqui fu incenerita ad eccezione appunto di Narcisio Falqui e di una sua bimba treenne.
Da quel tempo il sopravvissuto si può dire si sia recluso nei suoi laboratorî.
Di lui è stato notevole, rispetto al suo predecessore, la prudente gestione commerciale nel senso che compresa l’impossibilità, nonostante le proprie ricchezze, di sostenere la concorrenza degli altri produttori, ha preferito troncare ogni attività industriale, in attesa di escogitare qualche modello standardizzabile e a basso prezzo.
E questo modello fu l’R.4, tipo « chaffeur », presentato alla Grande Esposizione Internazionale di Berlino nel 1987-8; rimarchevole per il gran perfezionamento in esso delle cellule fotoelettriche, che conferivano capacità all’automa di guidare veicoli su percorsi noti e di poche curve: cioè autostrade.
Le cellule fotoelettriche percepivano i margini delle strade, gli ostacoli eventuali, i segnali delle stazioni di arrivo e permettevano all’automa lo sfoggio di qualità perfette di conduttore.
Era producibile a serie e a basso costo. Costituiva per il suo inventore una prova di superiorità tecnica rispetto all’altro Falqui che lo aveva preceduto.
L’innovazione però apparve così minacciosa alle Corporazioni Operaie, che nuove violente agitazioni furono promosse.
Del resto la mentalità umana non era ancora matura per tollerare l’idea di un veicolo che marciasse tutto solo. La faccenda di una macchina che se ne andasse guidata da un’altra macchina, sembrò diabolica e contro natura. Qualcosa come ai tempi in cui apparvero le prime carrozze che camminavano senza cavalli. Per cui la protesta sboccò nel campo della legislazione industriale originando la famosa Legge sui Limiti della Meccanizzazione: « È fatto divieto a chiunque non solo di esperimentare ma di escogitare macchine che per la loro perfezione e praticità possano, sia umiliare l’umanità sia tendere al monopolio di servizi particolarmente delicati ».
E questa legge, di valore puramente teorico, in quanto non è possibile prescrivere a priori un limite alla ricerca degli inventori e alla corsa del progresso, fu tuttavia valida a impedire un successo commerciale a Narcisio Falqui proprio quando i suoi risultati tecnici furono già brillanti.
Non ha tuttavia sospeso mai i suoi esperimenti fino ad oggi e sembra che si sia proposto di eludere la Legge sui Limiti della Meccanizzazione con dei nuovi modelli tipo « schiavo ». Comportante cioè, nel nome loro stesso, requisiti di perfezione incapaci di urtare contro lo spirito della legge.
Sui risultati effettivi di questi esperimenti esiste il segreto geloso. Noi non ne sappiamo niente. Sappiamo che i suoi stabilimenti sono sempre pronti a qualsiasi improvvisa ripresa di lavoro su larga scala. Sappiamo che ha impiegato automi di sua speciale fabbricazione per scavare anzi nuovi locali e officine nel sottosuolo.
Anche noi conosciamo la sua improvvisa ripresa di questi giorni. Sappiamo che la Corporazione dei Meccanici ha fornito l300 operai a turno straordinario continuo, pasti e riposo nell’interno degli stabilimenti; proibizione di comunicare con l’esterno fino a lavoro ultimato, la cui durata, con queste condizioni, non può essere molto lunga.
Concludendo: da tutto quello che sappiamo e che vi abbiamo riferito noi induciamo che entro gli Stabilimenti Falqui si stia oggi effettuando la produzione in serie di un nuovo tipo d’automi ritenuto suscettibile di consensi e di successo.
Termine del testo riservato e confidenziale.
Fattura allegata.
Gradite i nostri saluti, ecc.
Il capufficio, che aveva finito con un mormorio di soddisfazione la lettura dell’esauriente documento, per distrarsi si avvicinò un momento alla finestra. E un’immensa scritta rossa abbagliante sul grattacielo della « Tribuna » colpì subito i suoi occhi.
Leggere e ritornare nervosamente sui suoi passi fu tutta una cosa.
— Signorina – egli chiese alla fonodattilografa – ha finito?
— Tempo di ordinare, numerare e…
— Prenda tutto con sé. Si precipiti all’ascensore. Le farò trovare un taxi alla porta… Numeri e cataloghi in auto. Mi faccia venire la fotoradiotrasmissione non più alle 11 ma entro le 10 e 45. Ci sarà una ricompensa per lei.
La signorina, in grembiule e con tutte le sue carte a fascio nel cestino, era già fuori.
— O noi guadagniamo questo quarto d’ora – si disse il capo ufficio – o ci faremo dire di non essere più noi e di farci sorpassare dagli avvenimenti ».
Ciò che avevo letto; ciò che gli altoparlanti già diffondevano era: « L’illustrissimo scienziato E. I. Sedana ha chiesto la convocazione urgente della Somma Accademia d’Europa oggi alle 11 a. m. per riferire su un grave imminente pericolo della meccanizzazione mediante automi ».
IX.
L’Accademia.
La sezione romana del Partito Nazionale dei Meccanici era entrata in subbuglio; questo partito costituiva l’estrema destra accentrando in sé Faristocrazia e le classi agiate le quali, da un incremento di meccanizzazione, non si prospettavano che benefici.
Costituivano invece gli agrari il partito di sinistra; mentre tutte le Corporazioni Operaie, compresa quella stessa importantissima dei meccanici, stavano al centro con l’interesse che mai avesse a prevalere o l’uno o l’altro dei due partiti estremi. Avevano accolta con indifferenza la notizia di una nuova offensiva ideologica contro i meccanicisti. Le ideologie non facevano presa sulle Corporazioni Operaie, soltanto preoccupate di non fare alterare le condizioni materiali dell’esistenza. Quasi alla materia non presiedesse l’idea.
Ma i meccanicisti che ritenevano di adunare in loro, nella loro ansia di progresso e di perfezione scientifica, anche l’aristocrazia del pensiero, all’annunzio che alla testa della nuova offensiva si poneva uno scienziato famoso si erano indignati.
Erano accorsi numerosi all’Accademia occupando tutto lo spazio riservato al pubblico, cominciando una gazzarra con ostruzionismo e impedendo ai reporter della fonoradiovisione di montare le loro macchine.
Colluttazioni ne erano sorte; e un giovanottone bruno riconoscibile quale un agrario dal colore del suo vestito era divenuto là dentro, per l’energia della sua boxe, il loro nemico più odiato.
Fu in questo modo che essi dimenticarono il vero oggetto della loro avversione e che il vecchio Sedana potè fare, quasi inavvertito, apparizione alla tribuna.
— Illustri colleghi, signore e signori! – egli cominciò con voce così debole che risultò non a tutti udibile nonostante i fonomoltiplicatori dell’aula. – Quello che io debbo urgentemente comunicare nella sede più adatta a dare alle mie parole risonanza mondiale, non è una teoria, non sono dei pensieri; si tratta di un fatto. Vi prego quindi, non di cessare il baccano, ma appena di sospenderlo per soli dieci minuti.
E la speciale psicologia delle folle è così strana che finì per sembrare più udibile la voce bassa che non il gridio dei tumultuanti.
— La sera di mercoledì scorso, 28 maggio – aveva ripreso il vegliardo indifferente a tutto – dal mio studio di « Villetta Nadir » ho sentito verso le undici bussare alla porta. Sono andato ad aprire e ho introdotto un visitatore che dal vestito si rivelò per un operaio meccanico. Aveva la fronte e la testa…
Tutto il seguito di questa descrizione, del resto al lettore già nota, fu perduta nel baccano il quale aveva attinto un’intensità eccezionale e quindi transitoria. Quando fu possibile udire nuovamente qualcosa lo scienziato diceva:
— … voce singolarmente precisa e atona ha soggiunto: « Mi presento qui perché sono alla vigilia di una gran decisione e mi occorre di venir esaminato nelle mie capacità intellettuali le quali sembrano molto potenti ».
— Il mio interlocutore appariva sprovvisto di ogni capacità di eloquio mondano; sorta di tipo grezzo e vergine.
— Ero stato tuttavia punto da quella proposta di un esame motivato con ragioni di una goffa immodestia. « Ebbene, risposi, l’accontento; mi dica quali sono le quattro operazioni ».
— Mi colpì l’assoluta tranquillità della sua risposta, quasi gli fosse sfuggito il sarcasmo. Era perplesso ma non volli tuttavia dismettere il mio fare canzonatorio: « E Napoleone chi era? », continuai.
— Come prima così adesso non rilevò il sarcasmo. Ma questa volta la risposta non fu breve; mi citò le più autorevoli biografie, le monografie, le opere storiche attinenti, loro edizione, data di pubblicazione, numero della tale e della tal’altra pagina…
— Io non sono uno storico. Per controllarlo dovevo portarlo su altri campi. L’interruppi, gli dissi di parlarmi della fisica stellare. E non compresi che ormai ero stato preso nel suo giuoco. Quando la cosa ricominciò: numeri, date, editori, con i riferimenti più svariati mi diedi a controllare. Per la maggior parte avevo le opere citate nella mia libreria. E presto il mio tavolo fu ingombro di centinaia di volumi senza che io avessi potuto cogliere inesattezze notevoli.
— Ero stupito. Ma finora non avevo saggiato che la memoria del mio visitatore. Il mio stupore doveva accrescersi quando anche ne esaminai l’intelligenza dandogli a risolvere dei problemi complicatissimi. Singolare era il senso della misura e dello spazio che lo sconosciuto palesava scrivendo alla lavagna; in virtù del quale mai incorreva in ciò che accade anche al matematico più abile: di disporre male le proprie equazioni e di dover cancellare e riscrivere più piccolo.
— Udii a un antico carillon suonare le 12. E nel mistero della notte e del caso, con quello sconosciuto davanti a me, dal volto celato e dallo sguardo inespressivo come la voce, confesso che mi sentii poco allegro e a disagio.
Nessuno in tutto l’uditorio ebbe coscienza del gran silenzio che si era prodotto, tanto tutti erano intenti alle parole del vegliardo. Della calma avevano intanto profittato i reporter della fonoradiovisione per mettere a punto le loro macchine; e questo significava che tutto il mondo era ora un solo uditorio e una sola curiosità.
— Non mi diedi tuttavia per vinto – l’oratore aveva continuato – avevo controllato la memoria e l’intelligenza; volevo adesso vedere se anche apparisse quella dote che è la condottiera del pensiero: la fantasia. Senza cui qualsiasi grande intelligenza risulta incapace di proporsi mete e direzioni verso cui irradiarsi e brillare.
— Avevo davanti a me le cartelle di un lavoro scientifico a cui sto appunto lavorando. Ne esposi al mio interlocutore le premesse e i punti di partenza. In base a questi avrebbe dovuto riuscire a riimmaginare i miei scopi. Non si prese che pochi istanti di meditazione e poi…
— Ma a che vale continuare? Dovetti riconoscermi vinto. – Non sono più io – balbettai – quello che può esaminarla. Forse è lei che potrebbe esaminare me.
— Nella sua rozza verginità, allo sconosciuto era tuttavia sfuggito che io intendevo con ciò suggerire un commiato. Prese il complimento per una proposta seria; mi chiese: « Ritiene lei che valga più l’individuo attuale o non piuttosto il trionfo nell’Universo di tutto il pensiero e di tutta la vita futura? ».
— Come scienziato sereno e imparziale avrei dovuto rispondere che conta di più la conservazione del pensiero e della cultura, il trionfo definitivo della Vita nel cosmo; non il resto, non gli individui attuali. Ma, non so perché, io non ero più imparziale; al contrario: geloso, ritornato elementare, uomo, di fronte a una domanda che mi sembrava insidiosa. Tergiversai: « Bisognerebbe prima dimostrare che non siano proprio gli individui attuali quelli che garantiscano meglio quel risultato finale ».
—- Ahimè ! Ci vuole così poco a dimostrare la debolezza di essere incapaci di resistere anche a quella cosa minima nell’Universo quale sarebbe uno scarto improvviso di 50° C. nella temperatura della Terra. Bastano poche formule chimiche, bastano poche obiezioni. E lo sconosciuto trionfò.
— Disperatamente, invaso da non so quale urgenza, obiettai: « Sono intanto proprio le formule che lei ha scritto quelle che esprimono la materia vivente, e non vedo, oggi come oggi, chi sia più atto dell’umanità a garantire gli scopi e le mete suggerite da una cultura e da un pensiero appunto umani ».
— « Ma è chiaro! » fu la risposta. « Più atta dell’umanità può essere una superumanità delle membra più resistenti, dalla vita infinitamente più lunga, non suicida ma prodigiosa e geniale ».
— Mi misi a ridere. « Grazie, se non è che questo, allora aspetto! ». Con la sua solita indifferente calma lo sconosciuto che già si era volto per ritirarsi allora ristette, mi guardò con i suoi inespressivi occhi, disse: « Bene. Aspetti. Quindici giorni. O, per farle cosa gradita, anche meno ».
— Aveva già imboccato il corridoio. E sentii che aveva parlato sul serio! Tutto d’un colpo allora valutai quel non so che di inumano, di grezzo, di nuovo in lui cui ho già accennato. E compresi finalmente il perché del mio disagio di fronte a un fenomeno, o a un mostro.
— « Ma lei?… Lei chi è? », gridai lanciandomi dietro a lui, raggiungendolo. E quasi non lo avevo ancora toccato che una percezione di gelo e di rigidità mi paralizzò di orrore. Attraverso la stoffa io non avevo palpato che modanature e sagome metalliche: una perfetta sfera sotto le bende che gli nascondevano il capo, delle laminette al posto degli orecchi, tante piastre connesse al posto delle scapole…
— Poi caddi. Io sono vecchio: e l’orrore provato, lo shock nervoso, la caduta, mi han fatto svenire.
Un immenso brusio si era intanto levato nell’aula ove s’incrociavano i commenti più disparati. A stento fu lasciato modo allo scienziato di concludere.
— Tre punti debbo adesso raccomandare alle commissioni competenti dell’Accademia di voler discutere:
— 1°: Data la possibilità di veder comparire dei superuomini meccanici, vi è da temere che questi tendano a ridurci in servaggio come noi gli animali domestici?
— 2°: Quale accoglienza sarebbe opportuno riservar loro?
— 3°: Decidendo una guerra, in qual modo e con quali mezzi condurla?
X.
Un uomo.
Lo svenimento di Viola era stato di breve durata e nel primo vago ritornare della conoscenza aveva avuto confusa impressione di essere sostenuta da due braccia salde contro un petto ampio. II ricordo degli ultimi avvenimenti le era alquanto ritornato; si era rammentata di suo cugino Al e, tuttora intontita, aveva immaginato fosse lui a trasportarla in quel modo. Questo pensiero le era riuscito di una dolcezza, imprevista a cui aveva preferito abbandonarsi senza chiedere, senza indagare.
Ed era invece Zeta Otto quello che la sosteneva osservandone pensosamente il volto, il quale, sbiancato dall’emozione, sembrava ancora più delicato, più evanescente. Un pallido volto di uno di queste effimere creature umane che un niente può cancellare per sempre dal mondo; e che tuttavia, appunto da questa fragilità, ricavano qualcosa di prezioso, più e più di tutte le cose inconsumabili.
Il peso di questi pensieri nuovi dovette parere grave all’automa che accelerò l’andatura, discese dalle scale e giunse a un noto uscio vetrato con la scritta « Direzione – Privato ».
Depose la fanciulla su un divano, le elevò di fronte un paravento che le mitigasse l’effetto diretto dei ventilatori, le accomodò sotto il capo il cuscino di caucciù fra i meno enfi e i più soffici che trovò; e si ritirò discretamente.
Solo allora, quando il rumore dei suoi passi si attenuò nella distanza, la fanciulla in dormiveglia aprì gli occhi: — Al!… – ella chiamò debolmente.
E solo allora una sensazione di durezza e di gelo perdurante attorno al suo corpo la colpì; quasi dall’inverosimile contatto di una statua. Con uno scatto si levò a sedere sorpresa di trovarsi nella Direzione di suo padre. E in quel momento, dal di là del paravento, vide giusto suo padre che era stato avvisato da Zeta Otto ed accorreva.
La fanciulla si rifugiò nel suo abbraccio come contro un ignoto pericolo. Ma passate le prime effusioni non poté non accorgersi che il piacere di lui nel rivederla dopo una lunga separazione e il pericolo corso era stato presto fugato. Distratto, più intento al fracasso che giungeva dai laboratorî che alle parole di lei, aveva troncato con un riso improvviso la storia di Al.
— Ah, era Al quell’altro con te? Allora han fatto bene a ributtarlo via. Abbiamo ben altro a cui pensare, qui!
— È vero, si lavora qui! Dunque, papà, hai già completato il modello Z. 2?… Se tu sapessi come io condivido la tua gioia!… Sebbene mi dolga che questo basti a farti dimenticare di me! – rimarcò con dolce rimprovero la fanciulla.
E le sembrava suo padre ora così smagrito; felice, certo, ma anche tanto preoccupato, che ella risentiva più pena che gioia.
Narcisio Falqui, cinquantenne, era di alta statura, ma il lungo lavoro piegato sui tavoli da disegno, il lungo scervellarsi sui più complessi problemi di meccanica avevano curvato la sua persona e lasciato sul suo volto un’espressione di trasognamento che lo invecchiava al di là del vero.
Le preoccupazioni di una vita intensa avevano precocemente imbiancati i suoi capelli; le veglie alla luce artificiale avevano consumato la vivacità antica dei suoi occhi; la consuetudine dei cibi sintetici, graduati per lo stimolo al massimo delle energie mentali, avevano logorato il suo controllo nervoso e muscolare. Frequenti tremiti, gesticolazioni imprevedibili, scoppi di riso e silenzi repentini si alternavano senza transazione.
— Sì. Si lavora: è venuto il momento dei Falqui… Sss!… degli Zeta volevo dire! E che Al se ne ritorni da dove è venuto. Facciamo senza di lui, ora!
Anche Viola aveva detto quella stessa cosa, quella stessa mattina. Ma ne sentiva adesso dispiacere.
— Gli Zeta!! – continuava suo padre. – Una falange che correrà…
— Sicuro – provò ad entusiasmarsi con uno sforzo di volontà Viola – dovrebbe essere finalmente il tipo « schiavo » di cui hai mantenuto il segreto pure con me, cattivo!
Ma s’interruppe a un improvviso cenno di suo padre. — Tu perciò non sai chi ti ha salvata. Uno Zeta, sì… Tu eri svenuta… Non hai ringraziato…
Si era alzato in preda a grande agitazione, si era rivolto a un inserviente che passava perché pregasse Zeta Otto di venire.
— Ringraziare, pregare, papa, un automa, uno « schiavo »? – aveva interrogato la fanciulla che cadeva di stupefazione in stupefazione.
Ma una mano di suo padre contro la sua bocca le aveva impedito di proseguire. — Silenzio!… che non abbia udito!… Schiavo a lui, mai!
E Viola con un grande spavento che sentiva insorgere in sé rimirò suo padre che si sforzava a un’espressione sorridente e deferente, presso l’uscio, mentre nel corridoio si approssimava un passo preciso e meccanico.
XI.
Gli schiavi.
Semidimenticato dalle ditte concorrenti, Narcisio Falqui si era recluso nei suoi laboratorî, studiando la costruzione di un modello d’automa perfetto per inconsumabilità e molteplicità d’impiego.
L’inconsumabilità l’aveva ottenuta con la produzione di speciali leghe metalliche; la molteplicità di impiego con una serie di superazioni inventive.
Base di queste erano sempre stati: 1°, i fili di ferro per la registrazione magnetica dei suoni; 2°, le cellule fotoelettriche.
Aveva impressionato magneticamente diecimila sottili striscioline di ferro ripartendo fra loro brevi ragionamenti essenziali: sull’aritmetica, sull’alfabeto, su tutte le più frequenti decorrenze della vita pratica.
Dopo aveva escogitato uno speciale selettore il quale, partendo da un microfono che fungeva da orecchio, a seconda i comandi percepiti andava a stimolare in rapida successione i corrispondenti fili magnetici. Ad esempio, la parola disegno stimolava i ragionamenti pratici sul disegno; la parola triangolo il ragionamento corrispondente.
Per cui all’ordine « Disegna un triangolo » lo speciale selettore era in grado di fare partire impulsi opportuni. II filo magnetico disegno, una volta stimolato, faceva mettere in moto una mano meccanica, mentre il filo triangolo faceva sì che le linee tracciate risultassero nella forma suggerita.
C’erano poi le cellule fotoelettriche che supplivano la vista. Un migliaio di immagini fondamentali: lettere, colori, case, animali, ecc., trasformate da apposito dispositivo in impressioni elettriche inconfondibili, erano già state fissate magneticamente in altri corrispondenti fili con selettore proprio ma collegato all’altro selettore fonico.
Ecco quindi che anche potevano essere eseguiti ordini più complessi: disegnare un albero, arrampicarsi su un albero, segare un albero, ecc.
Ma oltre ai fili delle immagini fondamentali gli occhi fotoelettrici avevano a loro disposizione altri fili suscettibili d’impressionarsi solo transitoriamente, i quali servivano alla registrazione di tutte le immagini secondarie; sorta di memoria ottica di breve durata come quella degli uomini, ma basilare in tutte le questioni di pratica corrente. È infatti in virtù sua che è concesso ambientarsi, dimenticare l’ubicazione della casa di ieri per imparare quella della casa di oggi; o così via. Fino a tanto che le immagini più usuali, a forza di essere riimpresse, non diventano familiari determinando il buon senso e il raziocinio elementare della vita pratica. Andare in un luogo; riconoscere quell’albero; arrampicarsi solo su quello…
È superfluo accennare ai cento meccanismi interferenti che erano ingegnosi ma intuibili: per l’equilibrio, per i movimenti, per le posizioni di sforzo. E a membra di acciaio messe in moto da similradium erano concessi sforzi fantastici.
Giunto a questo punto, dopo dieci anni di studio, era dunque venuto fuori lo Z. 2. tipo « schiavo ». Narcisio Falqui ne costruì dodici con ottimo esito e tenendo conto di come era preceduta la loro costruzione stabilì, fin nelle più minute particolarità, l’attrezzatura dei lavoratori per la produzione in serie di duemila automi al mese; e fissò una data per l’inizio dei lavori.
Ma il lungo studio, il lungo patimento avevano logorato la sua fibra. E di lui accadde quello che per molti artefici accade: arrivare a compiere l’opera e poi dubitarne.
Ciò che egli aveva prodotto era una cosa miracolosa, ma egli, che a quel miracolo si era venuto abituando di giorno in giorno, non ne valutò più la portata.
XII.
Un superuomo.
Un periodo di riposo avrebbe indubbiamente guarito l’inventore di ciò che altro non era se non esaurimento nervoso.
Invece una nuova ansia di superazione lo prese, Non più diecimila ma centomila.
Con miracoli di disegno e di adattamenti ingegnosi egli tramutò in matasse di fili magnetizzati tutto ciò che nello Z. 2. era massiccio, ottenendo, con un paragone grossolano ma efficace, di far funzionare un organo contemporaneamente da « cervello » e da « muscolo ».
Non più solo ragionamenti elementari ma anche registrazioni fonomagnetiche complesse. Speciali macchine parlanti giorno e notte in funzione fissarono la Bibbia, i lavori letterarî più noti, compendi di storia, di filosofia, di meccanica, di matematica superiore, di finanza. Milioni e milioni di cognizioni furono immagazzinate in un’orditura metallica che un selettore velocissimo poteva stimolare in rapida successione a simiglianza di quanto avviene nel cervello dell’uomo, ove tanto maggiore appare l’intelligenza quanto più grande è il numero di dati culturali e quanto più veloce è il meccanismo psichico capace di testarli e compararli: creando quella veloce e meravigliosa favilla raziocinante che è il pensiero.
D’altra parte le cellule fotoelettriche a forza di perfezionamenti erano divenute due veri e propri occhi artificiali di quarzo infrangibile; con le loro iridi dilatabili, con le loro palpebre, con le loro sopracciglia aggrottabili; dotati di un corredo non di mille immagini fondamentali ma di diecimila; occhi capaci di leggere, capaci di vedere.
Mentre lo Z. 2. aveva solo tre « sensi » rudimentali: tatto, udito e vista, adesso con congegni chimico-magnetici vennero suppliti anche il fiuto e il palato, non già perché all’automa servissero per il controllo di una nutrizione, ma solo per completare la sua psiche. Allo stesso scopo, nonostante l’inservibilità pratica, venne munito delle qualità istinto-psichiche del maschio. E vennero in più inseriti in lui: il senso d’orientamento magnetico degli ostacoli invisibili come nei pipistrelli che possono volare anche al buio; e le possibilità magnetiche dei rabdomanti e degli ipnotizzatori.
A questo punto, dopo due anni di tormenti, nei disegni di Narcisio Falqui non restava più un millimetro disponibile. E cominciò il montaggio della nuova sagoma umana Z. 2.
Filo a filo, rotella su rotella, rocchetto su rocchetto, piastra sopra piastra, tutto lo scintillante groviglio, tutta la complicata macchina inconsumabile fu compiuta.
E Narcisio Falqui che aveva dimenticato il mondo, la vita, gli uomini, restò esitando davanti a lei. Avrebbe funzionato? Non avrebbe? Con mani tremanti inserì in un ricavo a chiocciola dell’ombelico la capsula energetica ricambiabile di similradium, con gesti e ancora più confusi vi avvitò sopra la chiavetta a segreto…
E attese.
Allora qualcosa di fantastico avvenne: un sussulto animò tutto il groviglio che l’uomo aveva montato; le membra meccaniche si stirarono come in una creatura che si svegli, le palpebre si sollevarono e gli impressionanti occhi di quarzo divennero fosforescenti…
Un trillio stridulo di parole gioconde e senza senso come in un bambino si susseguì. E questo fino a che i selettori interni non si misero a punto con quanto gli occhi vedevano. Poi uno stupefatto silenzio.
Sogno fatto realtà: la macchina pensava.
— Io!… – fu la prima parola che la macchina disse levandosi e andando avanti barcollante.
Rabbrividendo fino alle radici dell’essere, Narcisio Falqui capì di avere creata quella cosa meravigliosa che è una personalità, un individuo.
Non più lo « schiavo » Z. 2., macchina raziocinante buona solo ad eseguire ordini altrui ma incapace di proporsene di propria iniziativa. Qui c’era una macchina con una volontà in lei.
L’automa che nella prima coscienza di vita aveva guardato sbalordito l’inventore, era venuto davanti a lui; poi, con il gesto eterno di tutte le creature, gli si era prostrato davanti come un uomo o come un cane. — Dio mio! Padre mio!
Questa la realtà mitica di un giorno.
In seguito Zeta Otto si accorse che se grande era l’intelligenza del suo creatore, più grande era la propria. Camminò, uscì. Al braccio del suo padrone che, avendo creato non uno schiavo ma un superuomo, non si accorgeva di perdere ogni giorno un po’ della propria autorità, la nuova creatura vestita di abiti umani, girò per le vie, vide, vide, imparò, capì; e così vivificò l’arida cultura che le era stata infusa con un caldo interesse della vita reale.
Nacque l’ambizione, la generosa emulazione. Seppe dei 2000 automi tipo « schiavo » possibili in un mese, in meno di un mese e…
Ma egli adesso si avvicinava nel corridoio e la luce della stanza lo rivelò nel riquadro dell’uscio dì fronte a Viola attonita.
Ella ne misurò la statura appena superiore alla media; la sagoma snella entro un « completo » di cuoio da meccanico, le mani grigio-ferro ma lucenti nelle giunture. E questa era indubbiamente una macchina. Ma non di macchina era lo sguardo che pur nella sua fissità rivelava un pensiero, non di macchina il volto.
Quel volto, nella sua inumanità, era apparso a Viola singolarmente umano.
Quello che era accaduto era semplice : il volto lo aveva modellato Falqui secondo il profilo e le sembianze di un ipotetico giovane dall’espressione meditativa e franca. E il capriccio del caso ne aveva ricavato la copia perfetta di un altro viso: quello di Al.
Ora, a rendere più impressionante la rassomiglianza, come in Al così nell’automa lo sguardo incontrando quello di Viola aveva espresso, sia pure in velo di apparente scontrosità e di studiata freddezza, una cosa identica: l’ammirazione, il nascente amore.
L’allucinazione della fanciulla era stata in un primo tempo così gradita che ella aveva arrossito ed aveva sorriso.
Finché, alla vista di suo padre sottomesso e rapito in cospetto- dell’automa, in un attimo intuì tutte le sinistre conseguenze di un’umanità caduta in servaggio e in idolatria delle macchine. La stessa propria dolcezza di un istante prima le apparve sentimento mostruoso e contro natura. Il raccapriccio la soffocò; e prima che Zeta Otto avanzantesi verso di lei avesse avuto tempo di sostenerla, svenuta per la seconda volta, cadde a terra.
Il gesto di repulsione e di orrore della fanciulla era stato evidente. Zeta Otto aveva ben compreso. Narcisio Falqui, livido e senza fiato, vide chiaramente il disappunto dell’automa. Ma non già vide balenare negli occhi di lui il furore, sibbene un sentimento ben diverso: la tristezza.
La macchina si era quindi evoluta. « Laddove c’è malinconia là c’è un uomo » ha giustamente scritto Shakespeare.
Senza una parola si era ritirato.
L’inventore che aveva temuto l’ira dell’automa restò sbalordito. E sola conseguenza non ci fu che l’impossibilità anche per Viola, al pari di chiunque altro entro gli stabilimenti, di potere uscire o solo comunicare notizie sulla fabbricazione dei 2000 « schiavi ».
Altri automi, come si è visto, facevano buona guardia entro ai recinti.
XIII.
Guerra.
Era solo al mezzogiorno del martedì 3 giugno che il segreto di Zeta Otto doveva essere rivelato a tutto il mondo da E. I. Sedana.
Restava il dubbio sulla veridicità di questa rivelazione e un’inchiesta fu ordinata.
E fu allora che la polizia si rammentò di uno chauffeur berlinese, tal H. Schimdt, trattenuto in questura fin dal mattino del 29 maggio sotto l’accusa di pazzia simulata.
Mentre guidava un autocarro con rimorchio era incorso sull’autostrada Firenze-Roma in un misterioso incidente dal quale la sua macchina era uscita danneggiata.
Versione fornita: l’investimento di un uomo di ferro!
Quale straordinario valore non aveva perciò improvvisamente assunto la sua deposizione! Le edizioni straordinarie dei giornali l’avevano diffusa. Altre deposizioni erano venute da parte dei passeggeri di una vettura tranviaria: tutto il percorso di Zeta Otto era stato ricostruito. E il nome degli stabilimenti Falqui era stato fatto. I magistrati e i delegati delle Corporazioni Operaie vi si recarono precipitosamente.
Era la mattina del mercoledì 4 giugno. Gli stabilimenti erano stati trovati chiusi e fu dato ordine agli agenti di effettuare la scalata. Alla loro testa si pose il brigadiere Ettore Molini: doveva il suo nome entrare nella storia come quello della prima vittima delle guerre industriali del mondo. Infatti non aveva raggiunto l’orlo della muraglia che fu visto cadere immediatamente incenerito. E le prove di una protezione elettrica furono acquisite.
Tutte le autorità erano presenti per cui non ci fu bisogno di piantonare il cadavere. Ma come se il cadavere fosse stato lasciato ugualmente sul luogo i curiosi cominciarono ad affluire e fu necessario stabilire un primo cordone di Milizia Volontaria per trattenere la folla distante dalle mura pericolose. Ma intanto la voce si era sparsa e già arrivavano le mogli e i parenti dei 1300 operai ingaggiati in turno straordinario e continuo.
In attesa quindi delle decisioni delle autorità si dovettero raddoppiare le truppe. E tutti i dintorni degli stabilimenti furono un mareggiare di folla concitata.
Non era però più la polizia che poteva prendere decisioni; e verso il pomeriggio risultò chiaro che ogni suo potere era stato trapassato alle più alte autorità del Governo.
Infatti l’Accademia dal giorno precedente si può dire non si fosse virtualmente più chiusa. Le tendenze emerse erano naturalmente due, opposte fra loro; e poiché la risposta ai tre punti di Sedana tardava, il Governo si trovava nell’impossibilità di emanare disposizioni prima che la cultura e la scienza si fossero pronunciate.
Fu così che l’indomani le prime agitazioni cominciate nel Consiglio delle Corporazioni trovarono energica eco nel Gran Consiglio del Partito di Stato e che alle 4 p. m. il colpo del Governo era stato fatto. Assunse il potere Marco Mundus e questi ebbe alfine il coraggio di scavalcare l’Accademia e di assumersi la responsabilità delle operazioni.
Prima delle quali: l’ultimatum agli Stabilimenti Falqui, intimato mediante messaggi lanciati da aeroplani, di sospendere ogni attività e di congedare tutti gli operai entro 12 ore.
Le 12 ore però scadettero la mattina del venerdì 6 giugno senza che nulla si fosse prodotto e Marco Mundus diede ordine ai pompieri di studiare ed effettuare immediatamente l’invasione degli stabilimenti; trapassò la faccenda in mani militari quando si delineò l’insuccesso dei pompieri.
Roma era intanto diventata una babele; dimostrazioni nelle vie, forestieri che arrivavano a migliaia, curiosi innumerevoli attorno agli stabilimenti, dicerie d’ogni genere, manifesti di associazioni, comizi ed eccitazione enorme. Panico quando la sera si videro le prime autoblindate avviarsi lungo l’autostrada.
Ma questo era nulla; l’indomani mattina, sabato 7 giugno, si videro arrivare alle stazioni anche i mastodontici traini dell’Artiglieria da Assedio, mentre i giornali riportavano il bando per la mobilitazione della Milizia Volontaria.
Ultimo freno era la presenza di 1300 operai entro gli stabilimenti. Imponevano ragioni di salute pubblica la tremenda misura di sacrificarli? Il tentativo di penetrare negli stabilimenti attraverso brecce praticate con la dinamite era stato frustrato dalla protezione dei raggi ultravioletti e Marco Mundus, come chiunque altro al suo posto, esitava.
Verso mezzogiorno ne furono improvvisamente messi in libertà 200; erano i fonditori.
Furono loro i più stupefatti di trovarsi attesi sul posto dai familiari in lagrime come dopo un disastro minerario. Ignoravano tutto. Il loro lavoro era stato ripartito in modo che potevano dire ben poco. Sapevano di automi, certo, per averne visto alcuni modelli già in funzione ed avere anzi da certuni ricevuto ordini. Ma altro ignoravano.
Senonché Marco Mundus da quel primo scaglione di operai messo fuori arguì che i lavori erano ormai sul finire e che ogni ritardo avrebbe potuto avere conseguenze irreparabili.
Alle 3 pomeridiane la Milizia fece sgombrare per gran raggio tutte le vicinanze degli Stabilimenti Falqui e fu dato ordine di radere ogni cosa al suolo; anzi, a motivo di laboratorî sotterranei, fino al sottosuolo.
Una squadriglia di 40 aeroplani da bombardamento prese quota e alle 3,12 le prime bombe di superesplosivo, con infernale frastuono, comunicarono alla terra vibrazioni da terremoto.
Comandante della squadriglia era il Generale Vittorio Lagreca. In sé medesimo aveva presa la cosa per un bluff ed era irritato per il compito affidatogli che egli qualificava: un inutile eccidio di pupazzi.
Ma dissipatosi l’immenso cumulo di gas giallo-verdi, qualcosa di singolare colpì i suoi sguardi dalla parte dell’autostrada. Un migliaio di uomini fuggiva selvaggiamente mentre lo spazio dietro loro lasciato libero si punteggiava di altri veloci esseri occupati a sparpagliarsi su un gran raggio come per una strana parata.
Fu creduto dapprima trattarsi di qualche carica della Milizia contro i curiosi o i facinorosi, ma non si tardò a capire che non era, lì, questione di una carica, ma di evoluzioni intese a mettere degli esseri in formazione militare.
Strana formazione, in verità, che ripartiva gli individui a uno a uno secondo i vertici di tanti grandi rombi distanti cento metri ognuno dall’altro; mentre si aprivano fra loro nella terra buche fumanti.
Con un’imprecazione il Generale Vittorio Lagreca capì: gli uomini visti fuggire poco prima erano i 1100 operai messi in libertà dopo aver espletato tutto il loro compito; gli altri che facevano evoluzioni erano quelli che egli aveva chiamato « pupazzi ». Gli automi.
La loro formazione aveva lo scopo di offrire il minor bersaglio ai grossi calibri. E gli uomini di fil di ferro, insensibili alle scheggie di granate, ai piccoli proiettili, ai gas venefici, alle micidiali radiazioni elettriche, poco dopo erano già in marcia verso la metropoli eterna.
PARTE SECONDA
IL MITO
I.
La sventura del signor Bonaventura.
Martino Bonaventura poteva esser considerato eccellente figliuolo in questo mondo come era ottimo ortolano. Era genuino come una delle tante rape che egli coltivava, ma era anche un tifoso sportivo di tipo preoccupante.
Infatti se ne veniva ogni domenica mattina fino ad un angolo del suo orto che guardava sul Tevere, e si perdeva da là nella contemplazione di un barcone ancorato presso la riva. Ora nulla ci sarebbe stato di male se il barcone non fosse stato quello adibito a spogliatoio dell’Unione Nuotatrici.
Ad esser chiari Martino non vedeva di questo spogliatoio natante niente altro che l’uscio, protetto per di più, all’interno, da una cortina più opaca di una montagna.
Ciò comunque non toglie che una lezioncina ci voleva.
Come al solito anche quella domenica, 8 giugno, questo preoccupante tipo se ne stava ben bene accomodato al suo posto, meglio che non in una poltrona di prima fila allo Stadium; ma tutto malinconico e accigliato.
Si è che contro al solito un gran silenzio gravava sui luoghi e non una nuotatrice, non una barchetta si vedeva nelle acque.
Dopo aver letto i giornali, Martino sospirava: se era la guerra che produceva quelle conseguenze cominciava a trovarla una cosa sgradevole.
Tutto il cannoneggiare del giorno precedente, tutta quella faccenda di automi in marcia verso Roma, arrestati a stento sul far della notte dagli allagamenti difensivi escogitati dalla Milizia; tutta quella storia di macchine in guerra contro uomini gli era riuscita troppo complicata per significargli qualcosa.
Ma quell’assenza di bagnanti, quella mattina splendente e sciupata: questi si, finalmente, erano dei fatti alla sua portata.
Stava indeciso se ritornarsene via quando le acque tranquille sotto a lui lasciarono travedere un’ombra che ascendeva verso la superficie: una bagnante? E da dove veniva se non anima viva era uscita dallo spogliatoio del barcone deserto?
Martino convogliò tutta la sua forza vitale negli occhi.
L’orologio di una chiesa scandì due colpi acuti e nove gravi; ed erano perciò le nove e mezza in punto, ma Martino sopraffatto di maraviglia non udì.
L’ombra nel fiume non nuotava ma camminava nel fondo, presto raggiunse la riva ed emerse a poco a poco. E l’ortolano vide un’armatura come uno scafandro metallico per palombari di gran profondità.
Una cosa simile nel Tevere non si era mai vista. Lo strano palombaro, mezzo rilucente e mezzo coperto di melma, era ormai tutto fuori; ristette un po’ girandosi intorno con l’evidente scopo di osservare i luoghi e siccome tutto il casco era ricoperto di erbe e di fango, con le mani ne nettò la parte anteriore.
In questo modo quel semplicione di Martino poté vedere e capire; non di un palombaro si trattava ma di un automa; per cui sentì che il terrore lo stava pietrificando o uccidendo e non fiatò, facendosi il più invisibile possibile dietro alcuni cespugli.
Nonostante fosse di domenica le strade erano percorse solo da gente preoccupata e frettolosa che non guardava nel fiume: l’automa si rannicchiò a sua volta fra le erbe e nessuno poté dare un allarme.
Dopo il primo ne emerse dalle acque un secondo, poi un terzo, poi un quarto. Poi, a quattro a quattro ogni minuto, altri automi continuarono a venire fuori e ad appiattarsi tutti infangati accanto ai precedenti.
Non era passato un quarto d’ora di quella scena fantastica la quale a Martino sembrava destinata a prolungarsi indefinitivamente come un incubo, quando un nuovo personaggio apparve a drammatizzarla in un imprevisto modo.
Era costui pure un automa ma di statura più bassa degli altri che erano alti come corazzieri. Non nudo ma ricoperto d’indumenti di cuoio e così rassomigliante a un uomo, tanto era perfetta la rifinitura del suo volto, che Martino avrebbe potuto scambiarlo per tale ove non ci fosse stata quell’impossibilità per un uomo di camminare sotto le acque di un fiume, indifferentemente come nella più agevole delle strade.
Costui doveva essere un comandante obbedito ciecamente e si guardò attorno con occhi molto più acuti dei suoi simili, tanto che lo stesso Martino rabbrividendo temette di essere stato scoperto.
Ma non era di ciò che si era trattato: il sopraggiunto doveva aver apprezzata la tranquillità dei luoghi come sufficiente all’attuazione di un piano che al povero Martino apparve tanto illogico quanto macabro.
Si era chinato un po’ sott’acqua a cercare qualcosa, poi era riemerso sollevando con sé questa volta due cadaveri: uno di un uomo d’età e l’altro di una donna giovane e bionda. Entrambi erano rigidi come se la morte datasse da lunghe ore e nessun dubbio vi era che riuscissero all’aria dopo una lunga immersione.
Il perché della presenza di quei due cadaveri fra gli automi era per il nostro ingenuo osservatore un mistero; ed egli vide colui che li aveva tratti a galla farsi aiutare a deporli entrambi sulla scaletta del barcone, indi introdurli nello spogliatoio.
La cosa era stata così rapida che Martino credeva di continuare a sognare. Finché, giusto come avviene nei sogni, anche lui si trovò d’un tratto trasformato da spettatore in attore.
Non era vero che poco fa esso fosse sfuggito all’indagine dell’automa vestito di cuoio; un cenno era stato fatto, qualcuno era partito strisciando ed ora, fra due automi che gli impedivano ogni fuga, sentì una voce metallica avvertirlo: — Niente gridare e forse puoi conservare la vita; chi sei?
Dopo un minuto buono di paralizzante terrore. Martino poté alfine mormorare: — Un ortolano.
— Dov’è la tua casa?
Martino indicò vagamente dietro a sé. — Vicino.
— Da dove si va?
— Da quella fungaia.
L’orto comunicava infatti con la ripa mediante un antico breve sotterraneo praticato sotto la via e trasformato giusto in fungaia artificiale.
In questo frattempo quello vestito di cuoio era uscito dal barcone e senza più nascondersi, per una scaletta e per un sentiero, aveva asceso la ripa confidando sul suo vestito per non venire rimarcato e riconosciuto a distanza da nessuno. Aveva sentito le ultime parole di Martino, aveva percorso il breve sotterraneo, era sbucato nell’orto, aveva visto in fondo una casetta e un cortile ove una donna, che rassomigliava a Martino come può solo una madre al figliolo, andava e veniva; ed era tornato di fronte all’ortolano che tremava come una foglia.
— Bene – egli disse – giovanotto, voi siete fortunato e il vostro avvenire dipende da voi.
E in questo dire si era cavata dal petto una borsa di caucciù da cui estrasse delle banconote di grosso taglio.
II.
Il principio dell’incantesimo.
Martino valutò ad occhio e croce un centomila lire e si fece attentissimo sebbene non con ciò decadesse il suo terrore. « Infatti – pensava – costui adesso mi propone d’ingaggiarmi come spia e di dar ricovero alle sue macchine umane; ed io, sia che rifiuti o accetti, sia tradisca lui o i miei simili, farò sempre una brutta fine ».
Ma l’automa vestito di cuoio, il quale non era che Zeta Otto, aveva letto con la sua potenza ipnotica tutto quell’ingenuo pensare e si affrettò a chiarire.
— Voi restate libero dei vostri sentimenti per ciò che concerne la mia gente; non avrete mai nessun obbligo verso di me e guadagnerete ugualmente la somma che vedete solo che diate ricovero per un po’ di giorni ai due esseri umani che avete visto trarmi su dalle acque.
Martino era rimasto a bocca aperta: nonostante tutto l’automa che gli parlava emanava una potenza, una dirittura e uno splendore mentale che lo soggiogava. Se quelli eran gli automi, aveva pensato Martino, erano più simpatici di tanti cristiani; e avrebbe risposto senz’altro affermativamente ove non ci fosse stata in lui l’esitazione d’altro genere.
— E cosa posso fare di quei due morti? – aveva infatti obiettato.
— Molto bene – fu tutta la risposta di Zeta Otto. – Che titolo di studî avete?
— Il Diploma di Contadino – Martino balbettò.
— Ancora bene; siete quindi una persona istruita e capace di capire i fenomeni dell’ipnosi; vero? Seguitemi.
Fu così, in circostanze mai e poi mai prevedute, che il povero figliuolo mise piede sul barcone e varcò quell’uscio con tanto di scritta « Spogliatoio » sì insistentemente contemplato da lontano.
Adagiati in un angolo giacevano i due corpi dell’uomo e della donna; rigidi e lividi in viso.
L’ortolano, che si era tolto riverentemente il cappello, ristette a guardare con curiosità; ed ormai si riteneva tal personaggio romanzesco ed importante che una sorta di coraggio gli era venuto non solo per impedirgli di aver ancora paura degli automi, ma per farlo forte di assistere anche alla seguente impressionante scena.
Zeta Otto entrando si era chinato sui due corpi immoti riuscendo con una delicatezza inimmaginata a sollevare fra le sue dita metalliche le loro palpebre e a scoprire il bianco degli occhi roteati. Dopo di che con un asciugamano si era dato a fregare energicamente i volti attorno agli zigomi, ed in breve il miracolo di un tepore e di un rossore vitale trasparì entro le livide epidermidi, mentre le palpebre, perduta la loro rigidità, si richiudevano.
Nuovamente Zeta Otto le sollevò e questa volta apparirono le pupille. — Ti ordino di svegliarti – egli impose, con tono di certezza assoluta, alla donna fissandola. – Padre, ti ordino di svegliarti – parimenti comandò all’uomo.
Le labbra dei due allora si dischiusero per un sospiro mentre qualche fremito agitò le loro membra.
Zeta Otto si volse all’ortolano che aveva assistito commosso alla scena e porgendogli il denaro chiese: — Avete visto? Non si tratta che di aver cura di loro se non proprio quanta ne ho avuta io, macchina, quanto ne può un uomo per i suoi simili, senza mai chiedere il loro nome o comunque senza rivelarlo. Accettate?
— Accetto – annuì l’uomo soggiogato dalla forza degli avvenimenti. E poco dopo correva a casa a far preparare degli indumenti asciutti e delle bevande bollenti.
Completamente svegliata ma intirizzita di freddo la donna, più giovane e quindi più resistente del suo compagno, si era riavuta per prima. Sorpresa si guardava in giro.
— Viola – l’automa spiegò – questo accanto a te è tuo padre. Vi trovate entrambi in Roma sani e salvi. Si tratta di farvi vivere nascosti fino a che io non vi conquisti la più assoluta garanzia di libertà: specialmente per tuo padre che oggi sarebbe massacrato dalla folla inferocita se sapesse.
— A questo scopo vi ho trovato un rifugio presso buona gente. Ho dato una buona ricompensa e credo potrete vivere tranquilli. Ad ogni modo farò sorvegliare le adiacenze dai miei automi ed un segnale: due sciarpe, una rossa e una nera, sospese come ad asciugare, serviranno ad avvisarmi che tu o tuo padre avete bisogno di me. Ciascuno di voi due troverà nelle proprie tasche delle borse di caucciù con abbondante denaro.
— Mi hai rimproverato acerbamente la prigionia che ti ho imposta. Non potevo farvi fuggire, te e tuo padre, assieme agli operai perché oltre al pericolo delle bombe permaneva per lui il pericolo di venire riconosciuto e giustiziato.
— Vi ho quindi fatti cadere entrambi in catalessi e vi ho chiusi in una cassa metallica a prova di bomba ma non impermeabile. Le esigenze hanno impostò il vostro trasporto entro le acque del Tevere, ed entrambi lo avete superato fin qui…
— Mi hai rimproverata per tanti giorni la prigionia cui ti ho costretta, ed hai pianto. Sa solo Dio se io avrei voluto darti non sofferenza, ma una infinita felicità… Addio! ».
La fanciulla vinta da un fascino strano era rimasta immota:
— Zeta Otto… – ella cominciò con la dolcezza e il tono di chi debba dire un commosso ringraziamento.
— …ti detesto! – invece, con una violenta convulsione di tutta la sua volontà, si costrinse a terminare.
L’automa si era fermato con lo splendore di un’assurda speranza nei suoi occhi; ma sentendo così, senza più voltarsi, senza più parole uscì.
Vide Martino che sopraggiungeva a guidare i due esseri affidatigli; non vide dietro a sé la fanciulla che si era affacciata con tutti i segni più contraddittorî della simpatia e dell’orrore, della gioia e del rimpianto. Seguito da tutti i suoi schiavi, di nuovo si era immerso, mitico ed immortale, a riprendere la sua marcia in fondo alle acque del fiume.
III.
Il trionfatore.
Alle dieci e mezzo della domenica mattina il cordone degli invasori era ormai esteso attraverso tutta la metropoli e le prime schiere di automi in formazione romboidale scalavano le rive e s’irradiavano, silenziosi e spaventosi, per tutte le vie.
Per quanto strano possa ciò apparire, la possibilità per gli automi di camminare sott’acqua non era stata prospettata da alcuno. Dopo ore e ore di cannoneggiamento il pomeriggio del sabato si era dovuto constatare l’inefficacia dei consueti mezzi bellici ad arrestare la loro marcia. Tanto i micidiali proiettili esplosivi delle mitragliatrici che quelli dei fucili non avevano prodotto neppure un’ammaccatura sui loro corpi metallici.
Migliori risultati avevano invece dato i cannoni, ma a patto che il proiettile colpisse in pieno l’automa. E da qui la constatazione di effetti quasi comici. Un mastodontico proiettile da 305, per esempio, non aveva praticamente che lo stesso effetto di un proiettile di artiglieria leggera. E questo si spiega con la rada formazione che gli automi mantenevano. Se un 305 colpiva un automa in pieno allora lo sfracellava; ma solo che gli scoppiasse a due metri di distanza, ecco che tutta quella tremenda energia veniva assorbita dal terreno ove si aprivano le solite voragini. E l’automa naturalmente vi crollava dentro, ma per riuscirne tosto illeso ed indifferente.
Si era cercato di far perdere loro la formazione rada che avevano assunto adescandoli in passaggi che li obbligassero ad ammassamenti, ma essi erano apparsi incuranti di qualsiasi ostacolo: muri, siepi, ordegni agricoli e perfino case. Riflessivi come uomini, testardi come bestie, agili come scimmie, alacri come schiavi, possenti come macchine avevano indifferentemente camminato fra i fossi e sui tetti con la stessa inarrestabilità delle cose inevitabili e fatali.
Ora nessuno fino ad allora aveva studiata l’eventualità di dover colpire con i cannoni un solo individuo alla volta. Per cui solo per un caso, per una combinazione memorabile, si poteva riuscire ad abbattere un automa.
Le autoblindate e le tanks si dimostravano assolutamente ridicole, perché l’automa al loro avvicinarsi si buttava per lungo sul terreno fra le ruote e i cingoli non senza torcere e guastare quel che poteva.
La forza di quegli uomini-macchina era fantastica. Nei primi corpo a corpo che i militi eroici ma illogici avevano ingaggiato, si erano viste catene spezzarsi come spago e grappoli di soldati scagliati per aria come cuscini.
Un puro effetto estetico avevano avuto i lanciafiamme; giacché gli automi erano divenuti stupendamente fiammeggianti senza con questo perdere l’assoluta tranquillità dei loro movimenti. In quanto ai gas tossici se ne era abbandonato l’uso fin dai primi minuti di combattimento.
Di ora in ora il progresso degli automi era stato continuo e inarrestabile mentre invano tutto l’orizzonte si copriva, fra un incandescente lampeggiare, del fumo degli incendi, quando un nuovo elemento entrò casualmente in giuoco: l’acqua.
Il crollo di alcune dighe fece correre d’un tratto per i campi acqua a valanghe e a cateratte e dove le campagne facevano depressioni là si formavano laghi.
Ciò che aveva cominciato il caso ultimarono gli uomini. Nell’urgenza del combattimento, nell’ansia di un ripiego quell’acqua era sembrata una salvazione. Dighe e dighe furono fatte saltare e tutto il sistema idrovoro delle campagne attorno alla metropoli servì ad alimentare un’alluvione artificiale; livida e plumbea nel crepuscolo che ormai incombeva.
E fosse che le zolle dei campi formassero con l’acqua una tal pasta argillosa ove gli automi si fossero impantanati, o fosse una sorta di loro sgomento per una sorta di imprevisto, certo si è che fino a quando durò l’energia elettrica i riflettori non riuscirono a far scoprire più nella notte un solo automa.
La mattina era venuta radiosa e gli uomini quasi cominciavano a credere di aver vinto.
Tale era almeno l’opinione di certi signori che discutevano animatamente in un caffè del centro. Avevano allargato sul loro tavolino una gran carta geografica del teatro della guerra e vi stavano sopra ponzando la meravigliosa strategia dei caffè. — Se fossi io a comandare – finiva di dire uno che a parole aveva già decimato e sbaragliato gli automi – saprei dunque approfittare anche della loro formazione rada ogni volta che me li trovassi davanti!…
Ma la storia non dice in qual modo. Alzando gli occhi costui aveva visto, oltre lo sfondo di teste che si facevano corona, una massiccia sagoma lucente approssimarsi. E, per quel che si vide, tutta la sua tattica, di fronte agli automi, almeno in un primo tempo, consisteva né più né meno che in una fuga. La confusione successiva gli mise poi modo di sfoggiare il seguito dell’interessante manovra.
Infatti nel centro della Città Eterna, rimasto uguale e immutato pur nel volgere dei tempi e degli stili architettonici, era sfuggita nozione che da un quarto d’ora il volare degli aeroplani, non tutti ancora costruiti di materiale trasparente e quindi invisibile nel cielo era divenuto frenetico e che qualcosa era cambiato nel ritmo cittadino.
Via via che gli automi senza colpo ferire avevano progredito, i tramvai si erano arrestati, i negozi chiusi, i veicoli immobilizzati nel mezzo delle vie tra uno sgattaiolare affannato di gente che intendeva sottrarsi alle conseguenze di un combattimento.
Ma combattimenti sarebbero stati illogici e non vi furono. Fin dalla sera precedente avevano cessato di funzionare le tranvie sospese che scaricavano verso i dintorni della metropoli tutta un’enorme folla di operai e di commessi; e questa gente era rimasta bloccata nei magazzini e nei negozi. La popolazione del gran formicaio umano era quindi duplicata: ogni bomba, ogni colpo di cannone avrebbe fatto vittime innumerevoli fra gli inermi e nessuno ebbe il coraggio di dar l’ordine di radere al suolo la città più storica e monumentale della Terra.
Gli aeroplani saettavano perciò il cielo impotenti e solo utili ad effettuare l’esodo delle truppe e dei ministeri.
In conseguenza al mezzogiorno della domenica 8 giugno Roma si trovò, con tutta la sua popolazione, trasformata in dominio effettivo degli automi; primo paese di conquista di un nuovo impero che sorgeva nel mondo: quello delle macchine.
IV.
Il caduto.
Intanto, a quella stessa ora, ai margini della zona di inondazioni difensive, la forma di un uomo incastrata nella fanghiglia stava cuocendo al sole; livida e tumefatta, senza più un pelo addosso, tutta piagata e sanguinante, ricoperta di mosche e già adocchiata dai corvi.
Era quello il corpo di Al.
Fin dalla sera del venerdì era stata costituita fra tutti i forestieri residenti o di passaggio in Roma una Coorte Straniera; ed Al vi si era arruolato.
Era stato con i suoi commilitoni fra i primi ad ingaggiare lo scontro lungo l’autostrada quando, con esaltazione eroica ma illogica si era tentato di arrestare gli automi; di cui ancora si ignorava la potenza, con trappole e catene.
Si era battuto da indemoniato, fra i primi a superare il senso di panico e di orrore che gli uomini-macchina avevano inspirato al primo loro apparire.
Poi, vieppiù che la marcia degli inarrestabili aveva incalzato, le ore erano divenute lunghe come eternità; ed in questa adatta cornice di eterno aveva planato la Tragedia.
Tra le nuvole delle esplosioni, il cielo era rimasto sempre azzurro, la terra sempre rossiccia. Ed è in questi soli colori elementari che si era riassunta ogni idea di vita, in contrapposto all’oscurità delle deflagrazioni più vicine, sopportate appunto carponi e ad occhi chiusi.
Attimi di colore e attimi di nero, attimi di nero e attimi di colore. Vita e Morte senza più niente di intermedio quando nell’urgenza del pericolo le artiglierie e gli aeroplani furono costretti a confondere in un solo bersaglio amici e nemici.
Non gli automi infatti avevano seminato la morte; che, come fu poi rimarcato, essi avevano avanzato tranquilli ed inermi; ma le bombe, le miscele elettriche fulminanti, le spaventose ventate dei razzi voltaici, le scintille violacee delle frustate galvaniche, le mille proiezioni energetiche dei velivoli contro la terra.
E la terra era diventata un solo turbine in cui blocchi massicci di tonnellate di peso volavano in tutt’uno con la polvere e con i gas e con i fulmini fra una ridda di alberi incendiati e di travi in ischeggie. Fra uno sbriciolio di ringhiere e di edifici intieri. Fra il crollo di una casa da una parte e il miracoloso erigersi di una costruzione improvvisa dall’altra.
Giacché la nuvolaglia mortale ogni tanto si squarciava; e le autoblindate, le monumentali tanks, vere navi terrestri, apparivano come degli edifici costruitisi in un attimo per magia in quel caos, tutti coronati di violette. Il viola delle micidiali irradiazioni elettriche.
Il combattimento si era sviluppato troppo imprevisto acciocché le formule strategiche in cui si era pensato di contenerlo avessero potuto risultare valide, e il caos, giustificato dall’idea centrale del Comando in capo di finirla ormai a qualsiasi costo, era succeduto.
Lo spiegamento delle milizie era a poco a poco passato in second’ordine rispetto all’intento distruttivo da raggiungere per salvare la città e la popolazione; e le truppe si erano trovate ora tagliate fuori da ogni azione, ora d’un tratto al centro di un cratere tattico.
Il vestito dielettrico si era lacerato, le scarpe e i guantoni isolanti si erano spappolati. Ridotto egli stesso ad un automa, Al, con le dita, il naso, i capelli, tutte le estremità del corpo formicolanti per l’incessante incipriatura elettrica dell’aria, aveva brancolato per ore ed ore in quel crepuscolo artificiale alla ricerca di qualche automa su cui scagliare le bombe a mano delle quali si riforniva su ogni caduto.
Strane voci ogni tanto si originavano in quella nebbia, ripetute di distanza in distanza con fedeltà fonografica su cadenze foniche difficili ad imitarsi: — A destra-a-a-a, quarto-o-o-o, qui-i-i-into rombo-o-o-o. Ottan-tesi-i-i-mo rombo-o-o-o, pronto a passa-a-a-are in testa.
Ed erano queste le voci degli automi che si trasmettevano gli ordini del loro capo misterioso.
Allora Al, a quelle voci, calcolava se poteva veder passare un automa a portata di tiro e si appiattava guardandosi tuttavia anche dagli equipaggi delle tanks. E questi non esitavano a lanciarsi eroicamente avanti con la prospettiva ben dubbia di poter individuare un solo automa e con l’effetto invece certo di segnalare con la massa della tank la fluttuazione del combattimento ai velivoli, ricevendo così addosso una parte delle scariche terremotali che ricadevano dal cielo.
Il giovanotto si era dimenticato di tutto, trasformato in macchina pure lui dell’agguato e dell’umanità contro le macchine dell’avanzata e della inumanità.
—- Attenzio-o-o-one a raccogliere-e-e-e i pezzi-i-i-i dei co-o-o-ompagnii guasta-a-a-ati… – ritornavano ogni tanto le voci a guidarlo da direzioni imprevedute.
Per esso come per gli altri superstiti da tempo non arrivavano più ordini ed invano ad ogni soldato trasmettitore che incontrava, riconoscibile per il caratteristico casco blindato a protezione delle cuffie, chiedeva ordini precisi.
— Faccia ogni uomo il più che può! L’umanità si aspetta da ognuno il massimo. – Era ciò solo che veniva risposto.
Infatti i radioinformatori avevano perduto il contatto con i propri reparti e le informazioni che davano sulle varie posizioni di combattimento erano contraddittorie; da qui l’impossibilità al Quartiere Generale di elaborare azioni coordinate. E la vasta battaglia era divenuta solo una serie di azioni individuali.
Da quante ore? Al non lo sapeva più e nel suo ramingare da una buca all’altra, da un fosso all’altro, appena aveva coscienza, oltre che di una gran sete, di quel miracolo che ora il resistere della sua vita fra tanta morte.
Del resto, con l’angoscia della sconfitta nel cuore, egli cercava ora più la morte che la vita.
Quando l’orizzonte dietro a lui si variegò di meravigliosi getti tutti splendenti in quella nebbia di polvere e di fumo.
Questo significava che, ormai all’estremo di ogni risorsa, un ordine supremo doveva essere stato impartito e supposto eseguito: il ritiro di tutte le truppe dietro le schiere dei Servi della Morte, i lanciafiamme, coloro davanti a cui di vivo non restava più niente.
E Al, non avvertito da alcuno, si trovava invece davanti a loro: così vicino che entro la nebbia, nella gran luce prodottasi, poteva distinguere gli uomini infagottati nel loro vestito grigio d’amianto. Camminando carponi per non farsi scambiare per un automa, con l’ostinazione eroica di non farsi tagliar fuori dal combattimento, cercò fra un getto e l’altro di passare al di dietro della schiera.
Per quanto tempo?
Ogni tanto il getto raggiungeva un automa aspergendolo di liquido ardente, inspegnibile: allora l’automa restava fiammeggiante per più minuti, ma, meraviglia, senza con ciò alterare di una nota l’incessante cantilena: — …rombi-i-i-i di te-e-e-esta obliquare-e-e-e a sini-i-i-istra…
E ogni tanto era anche qualcuno degli uomini vestiti di amianto che si tramutava in torcia. Un guasto, una scheggia di granata che avesse bucato il tubo di lancio, bastava a spruzzare di liquido ardente pure l’uomo che lo dirigeva.
Colmo di orrore Al osservava: se l’uomo faceva a tempo a chiudere il rubinetto del serbatoio sulle spalle ed a riparare il guasto prima che il liquido cadutogli addosso fosse troppo, allora, ravvolto nel suo vestilo d’amianto, poteva resistere fino all’estinzione delle fiamme; altrimenti dopo un minuto cominciava a non poter resistere più al calore. Invariabilmente era una sorta di pazzia che succedeva e l’uomo partiva gesticolando in una corsa frenetica; ma si arrestava presto se non già l’arrestava, col getto proprio, qualche commilitone che si vedeva minacciato d’incendio a sua volta dall’approssimarsi del morente.
Ormai riuscito a insinuarsi indietro, Al ne aveva visto uno incendiarsi per ben tre volte e riuscire tuttavia a rimediare in tempo. E l’uomo che aveva resistito muto fino a che aveva potuto, si era poi aggrappato carponi a un rottame che sporgeva dal suolo ed era morto dopo aver urlato così spasmodicamente che, nonostante la maschera che gli ricopriva il volto e il frastuono della battaglia, anche Al aveva potuto udire.
Ora al giovanotto era sembrato così eroica quella morte di quell’uomo che si era voluto abbarbicare al suolo sino alla fine per non correre come gli altri, che a sua volta si sentì investito da un’ondata di fanatismo eroico.
Non appena le fiamme si estinsero, si precipitò sul caduto sfibbiandogli dalle spalle il serbatoio; non aveva tempo né modo di togliergli anche il vestito d’amianto e mise senz’altro in funzione l’apparecchio irroratore di fuoco. Senza maschera, senza occhiali neri, mezzo accecato dalla incandescente luce, si diresse ad orecchio alla caccia degli automi di cui aveva cominciato a riudire le voci. — … in caso-o-o-o di allaga-a-a-amento resta-a-a-ando senza o-o-o-ordini esegui-i-ire…
Finché non accadde quello che doveva accadere. L’apparecchio, evidentemente già guasto, d’un tratto lo spruzzò di liquido dalla testa ai piedi, e, prima che avesse avuto tempo di chiudere il rubinetto, il fuoco, di goccia in goccia, era ormai dilagato sugli abiti.
Al non sentì dapprima il calore; solo comprese di far luce nella nebbia col proprio corpo. Non pensò affatto alla morte per alcuni secondi, tanto vero che si affrettò a liberarsi del tascapane colmo di bombe, quasi egli avesse mai potuto aver tempo di sopravvivere nelle vampe fino alla deflagrazione degli esplosivi.
Solo successivamente si accorse che la luce che egli produceva nella nebbia correva; che cioè egli stesso, pur non volendo, correva: ciecamente, pazzamente, selvaggiamente. Gridando l’invocazione disperata di tutte le creature in pericolo di vita: — Mamma!…
Eppure aveva ben coscienza che ancora il fuoco non aveva toccato le sue carni e che gli restava ancora qualche secondo prima di sentire il vero, il tremendo dolore della carne che si carbonizza. Ma il calore attorno al suo corpo già cominciava a coagulare il sangue nelle vene dandogli il delirio.
Non si arrestò che sbattendo contro le pareti di una casa colonica sventrata; o, per restare d’accordo con le sue impressioni, con l’accorrere e lo sfasciarsi di un muro su di lui.
E l’impressione non era stata forse inesatta; il giovanotto vide una cortina, perlacea come acqua ma calda come il suo fuoco, cadérgli addosso e pensò, in una parentesi di lucidità nel delirio, appunto di star delirando.
Fu una scintilla appena di lucidità, ma la famosa scintilla degli agonici che è sufficiente, in un millesimo di secondo, a proiettare sulla coscienza di chi muore il film lunghissimo di tutta la vita.
Si rivide bimbo. Poi adolescente. Questo, quell’episodio… E in ultimo; Roma. Viola. Viola… Questa della fanciulla, l’immagine ultima con cui sentì di star sigillando la sua vita.
E dopo…
Già; cosa c’è dopo il pensiero estremo, l’immagine estrema della vita?
V.
La stupefazione.
Tanti erano stati i morti che non c’era casa che non avesse un lutto. Ma la vita nuova si annunziava così piena di stupore che solo le madri restarono indimentiche a piangere i figli. I figli superstiti, le fanciulle dai leggiadri corpi, i bimbi dagli occhi perpetuamente sbarrati sulle meraviglie, i vecchi e gli adolescenti, gli operai e gli intellettuali, gli uomini d’affari e i poeti a poco a poco discesero nelle vie a contemplarli da vicino, questi conquistatori della loro metropoli; questi nuovi invasori delle cento volte invasa Roma e cento volte riassurta a capitale d’imperi; questi nuovi barbari calati giù dalle lande del sogno, dalle nuvole del Mito.
Ed erano rimasti percossi d’ammirazione davanti alle schiere degli uomini-macchina; inoffensivi perché così comportava la loro consegna; ma potenti, ma infaticabili, ma inarrestabili.
Suddivisi in plotoni di dodici, gli automi che non avevano necessità di sonno né di riposo avevano camminato senza posa per tutte le vie, per tutte le piazze, per tutti i vicoli moltiplicando la loro presenza; assurgendo per effetto di questa illusoria moltiplicazione da circa 1900 a cui si erano ridotti dopo la battaglia, a un numero che le fantasie elevavano di ora in ora.
Anche tra di loro vi erano i feriti e i mutilati; quelli in cui un braccio si troncava a metà in un groviglio di ferraglie contorte otturato momentaneamente con blocchi di mastice; quelli di cui un occhio di quarzo era stato incrinato da chi sa quale violenta esplosione; quelli che zoppicavano; ma erano tutti tranquilli e del resto sapevano che il loro capo stava approntando un loro ospedale nell’officina di un garage sotterraneo.
Questo ospedale restava presso il Colosseo e fin dal mezzogiorno la folla stupefatta che guardava da dietro le finestre aveva visto convergervi automi che si trascinavano carponi od altri che non potevano camminare affatto e venivano portati sotto le ascelle dai compagni come leggeri pupazzi di cartapesta. Alcuni portatori portavano ancora sulle spalle veri cumuli di bracci, di gambe, di busti e di teste. E lo spettacolo, nonostante si trattasse di ordegni meccanici, aveva pure un suo aspetto raccapricciante, così che notevole folla avida di emozioni si era a poco a poco radunata all’ingresso del garage.
Senza saperlo gli uomini stabilivano i primi rapporti pacifici con gli automi i quali lasciavano fare.
Dentro il garage un altro automa tutto vestito di cuoio, distinguibile dagli altri per la statura più bassa e per la rifinitura del suo volto che, ove non fosse stato per certe lucentezze metalliche qua e là, sarebbe apparso realmente umano, con occhi fosforescenti, da cui si dipartiva un ignoto fascino magnetico le cui conseguenze dovevano emergere ulteriormente, osservava i pezzi, faceva svitare, faceva cambiare bracci ammaccati con bracci integri, faceva guarire in pochi minuti tutti i feriti meno complicati lasciando accatastare in speciali casse blindate i resti inutilizzabili da sottrarsi allo spionaggio industriale e bellico.
A guardia delle casse vegliavano altri automi indifferenti ai richiami ed ai lamenti che ne venivano fuori. Solo in un caso si dovette assolutamente far tacere una testa ancora attaccata a un pezzo di corpo sfracellato la quale, chi sa per quale guasto, si dava a quando a quando a digrignare tutti i comandi già trasmessi durante la battaglia della sera avanti. E ciò avrebbe potuto ingenerare equivoci.
L’interesse degli uomini per gli automi era a poco diventato frenesia. Così che, nonostante il riposo domenicale e l’assenza di operai, nonostante l’insufficienza dei servizi e la deficienza di energia elettrica, qualche giornale poté uscire in edizioni straordinarie.
E quel che si lesse fu quel che si legge nei giornali: l’interpretazione dei sentimenti pubblici; dimenticato cioè il rancore e l’allarme di ieri per far posto alla nascente idolatria del domani; l’invito a recarsi al comizio che il misterioso capo degli automi, Zeta Otto, aveva fatto bandire dai suoi automi per lei sei del pomeriggio fra i marmi e le colonne del Foro.
Nessuna offesa, infatti, in quel luogo di tesori storici incalcolabili sarebbe mai piovuta dai velivoli contro gli automi.
Ed alle sei una moltitudine enorme che palesava nel proprio nervosismo tutti i segni della stupefazione pronta a trasformarsi in cieca passione, in delirante dedizione, in incondizionato applauso si andò stipando fra le rovine del Mito Passato per assistere alla natività del Mito Futuro.
Con il loro passo metallico alcuni legionari di ferro scortarono fra le vestigia dei palagi antichi il loro capo.
Arrampicatosi ai piedi della più perfetta colonna del mondo l’immortale Zeta Otto dagli occhi di fiamma con voce di sonorità inaudita disse parole di Mito.
VI.
Gli idolatri.
— Io sono Zeta Otto. Non ci sarà nessuno che possa recarmi offesa oltre me stesso.
— Milioni di Amper-ora di energia elettrica, migliaia di tonnellate di esplosivo, centinaia di vagoni-cisterna di liquido infiammante hanno carbonizzato e gessificato le campagne all’intorno dell’Urbe; ma non hanno potuto arrestare né me né i miei legionari.
— Noi siamo la passione e l’ardimento umano fatto ferro: siamo inarrestabili e inconsumabili; siamo fatali e perpetui come il ritorno delle stagioni, come l’alternarsi dei giorni e delle notti, come il divenire e l’andare delle stelle.
— Non siamo calati da un altro pianeta; non stiamo apparendo vostri nemici. Ci ha fatti un uomo a sua immagine e simiglianza utilizzando il patrimonio comune di cultura umana. Siamo perciò figli vostri; vostri continuatori. Come tali non abbiamo arrecata altra offesa che quella che avete suscitata voi stessi. Siamo innocenti come le creature che nascono.
— Siamo però delle creature e come tali abbiamo da chiedervi tre cose: cittadinanza umana; libertà di moltiplicarci; compatibilità reciproca. Non vogliamo modificare le vostre leggi e le vostre istituzioni; ma al contrario vi daremo il concorso del nostro lavoro per le opere d’interesse comune. Non chiediamo in cambio che delle officine per noi. Ritornino pure le vostre autorità che sono fuggite; e cercheremo di non far cosa alcuna che vi danneggi.
— Non vi sottrarremo pane né aria: partiremo dalla Terra quando sarà la nostra ora. Partiremo per estendere, di mondo in mondo nell’Universo, il costume, la legge e… il pensiero dei padri ».
Ci fu un lungo silenzio fra la folla raccolta nel tramonto.
Zeta Otto era stato sincero ed una cosa sola egli aveva cercato di ottenere; l’assuefazione negli uomini al fatto compiuto. Per questo aveva parlato con mitezza ed aveva accennato al suo progetto di esulare con tutti i suoi schiavi in altro pianeta non appena ne avesse escogitato il modo. Insomma, aveva mirato a guadagnarsi una cordiale tolleranza.
E l’assoluto, il profondo silenzio con cui la folla aveva accolto il suo discorso non era un sentimento glaciale di diffidenza. Era la pietrificazione di chi ha assistito al miracolo.
Altro è sentire parlare di prodigio, altro è constatarlo.
Non c’era dubbio: quell’uomo era una macchina. Ma quella macchina era un uomo. Si muoveva, pensava, agiva, parlava.
Le donne sentivano le loro viscere commuoversi per amore materno di lui. L’istinto materno che c’è in ogni donna in loro era ritornato primitivo e favoloso. Ogni donna desidera che il suo figlio sia il più forte; ed ora avevano là davanti il modello di un sogno fatto realtà. Le loro viscere si commuovevano per il desiderio di progenie come lui; di un’umanità come lui.
Ora, perciò, una di loro, pianse e gridò: — Battezzatelo come un cristiano e sia figlio di tutte noi. Non è questo il figlio che hanno atteso fino ad oggi tutte le creature?
Il cielo nel tramonto si tappezzava di porpora. E la folla udiva e restava allibita.
Poi fu un uomo che si distaccò da una figlia pallida e bionda che era rimasta tutto quel tempo aggrappata al suo braccio. Si dimenticò dì questa figlia per aprirsi ferocemente un varco verso l’uomo-macchina gridando: — Figlio mio!
La folla allora riconobbe il volto di questo uomo che le fotografie avevano in quei giorni reso noto a tutti e sentì un brivido collettivo come un gran vento mistico squassare le immobilità e tramutare le estasi in fanatismo.
— Viva. Viva. Viva Narcisio Falqui! » fu il primo grido della folla delirante.
L’uomo raggiunse demente e dimentico la sua macchina che era una creatura per inginocchiarlesi ancora una volta davanti piangendo.
Il nome dell’inventore gridato dalla moltitudine era stato un ponte sonoro gettato fra l’umanità e il miracolo. Così, per questa via, l’entusiasmo poté trovare il modo di convergere su quella cosa indefinibile che era una macchina ma anche un uomo: «Viva. Viva. Viva Zeta Otto! ».
E altri padri si dimenticarono dei figli. E i figli dei fratelli. E le donne degli uomini.
Il prodigioso automa, da dietro il freddo vetro dei suoi occhi carichi di potenze magnetiche, vide tutta la sterminata folla inginocchiarsi come già Narcisio Falqui davanti a lui.
Qualche ora dopo Viola sospendeva una sciarpa nera e una rossa, bene in vista, nell’orto.
VII.
Quando gli uomini smemorano.
In quella stessa notte la stessa pallida luna che illuminò il segnale delle due sciarpe presso a Viola in attesa, illuminò anche, più distante, più lontano, ai confini della vita, il primo risveglio di un redivivo: Al.
Non era stato delirio il suo: veramente il muro stava crollando nell’attimo preciso in cui il giovane vi si abbatteva contro; e veramente la cortina che attraverso quel crollo aveva investito era stata acqua. Bollente, indubbiamente, il primo velo che aveva toccato la sua pelle quando già le fiamme la raggiungevano, ma fredda, poi, e nemica del fuoco; e in tal quantità che il giovane ne era stato sommerso per più metri.
Una quercia carbonizzata e divelta dalla battaglia, trasportata dall’impetuosa corrente, aveva dragato il fondo con i rami portando a galla il corpo immoto e depositandolo fra la melma là ove le acque si arrestavano.
Privo di coscienza per una notte e un giorno, era finalmente ritornato alla vita. Non ricordò niente di quella landa sinistra ove si trovava, né pensò cosa alcuna che potesse essere di giovamento a lui o ad altri.
Nudo, piagato, le ciglia e le sopracciglia arse, i capelli bruciati, le membra dolenti, senza documenti, senza memoria, senza scopo, si guardò attorno senza curiosità. Solo la sensazione di qualcosa pesante come piombo nel suo cervello.
Poi, dato che l’istinto non muore, si alzò e vagò. I cani di un attendamento della Croce Rossa videro quell’ombra e abbaiarono. Fu dovuto rincorrere come una fiera e come una fiera fu finalmente catturato. Fu portato entro la tenda e un cappellano militare dalla lunga barba lo visitò.
— Sembra che non ci sia nulla di leso – disse alla fine. – Per ciò che riguarda il corpo forse basto io; ma per lo choc nervoso bisogna attendere fino a quando potremo avere un medico.
Gli altri che avevano assistito scossero malinconicamente la testa. Roma era crollata in piena follia e nessun servizio funzionava più.
Lo lavarono alla meno peggio, spalmarono di vaselina le ustioni e le piaghe, lo vestirono con indumenti tolti a dei morti che quei pietosi erano venuti appunto a seppellire. La mattina del lunedì 9 giugno fu instradato verso Roma.
I servizi pubblici non funzionavano, l’energia elettrica mancava, non si vedeva una auto, le campagne erano deserte. Tagliata fuori dal mondo nel cerchio delle sue alluvioni e della sua sconfitta la Città Eterna era piena di folla impazzita.
Fischi salutarono i crocerossini, contumelie accolsero i superstiti della battaglia e, nella confusione, Al si ritrovò sperduto e solo per le vie.
La visione delle vie che poteva stimolare qualche memoria in lui non valse che a fargli sentire con ancora più fastidio quel peso di piombo nella sua testa.
Nutrito dalla carità di qualche pietoso, il volto e la testa coperti di bende, le membra tutte dolenti, vagò come un mendico.
Qualche reduce dolorante e sperduto come lui gli rivolgeva qualche volta la parola. Ciascuno aveva da raccontare di una casa lontana, di una famiglia forse distrutta o forse solo dispersa; ma egli non aveva niente da dire; e il suo frasario, tutto un miscuglio slegato di italiano e di inglese, a poco gli serviva.
Sentiva certo che qualcosa doveva esservi dietro il suo presente, ma ciò restava sepolto sotto quel blocco di piombo nella sua testa.
Cercava di crearsi una coscienza e una comprensione nuova ascoltando e osservando avidamente.
Ogni tanto passavano degli automi impassibili e rapidi; e la gente si faceva plaudente alle finestre e alle porte.
Ogni tanto qualche velivolo militare, silenzioso e trasparente, solcava invisibile il cielo; lasciando a traccia del suo passaggio miriadi di manifestini che la popolazione sdegnava di leggere.
Solo qualche burlone li leggeva a gran voce nelle piazze per suscitare le risa e lo scherno.
— Romani, rammentatevi la vostra millenaria tradizione di civiltà: rammentatevi che siete fatti per comandare non per servire.
— Proteggete i nostri emissari. Seguite i loro consigli per un ostruzionismo scientifico contro gli automi. Essi sono macchine. Non offrite al mondo lo spettacolo di un popolo degradatosi fino all’idolatria ».
— … avete nei vostri magazzini solo pochi giorni ancora di pillole e di cibi sintetici. Cosa vi darà dopo da mangiare, o feticisti, il vostro Vitello di Ferro, il vostro Zeta Otto, la macchina e l’idolo che vi siete costruiti con le vostre mani? ».
Grida e invettive salivano dalla folla e una bieca animosità contro il resto del mondo di giorno in giorno avvelenava sempre più la sua passione.
Vedeva Al degli stupendi palagi dalle grandi porte chiuse; ed erano basiliche e chiese disertate. Vedeva file e file di altre porte chiuse; ed erano i negozi senza più commercio. Vedeva file e file di porte sfondate; ed erano altri negozi saccheggiati. Vedeva delle vetrine davanti a cui la gente sostava a crocchi; ed erano quelle dei negozi per confezioni che esponevano i modelli della nuova moda inspirata dalle sagome lucenti e rettilinee degli automi.
Tutta la città ogni giorno si risvegliava sempre più in idolatria e in follia delle macchine. Fomite di tutte le passioni era la speranza fatta balenare da Zeta Otto di poter ognuno un giorno assidersi di fronte a un automa vergine, di poter trasporre in esso la propria memoria, il proprio io; e svegliarsi non più creatura peritura e umana ma inumana e inconsumabile macchina.
Scene mostruose avvenivano ogni tanto; individui resisi sospetti di essere emissari del Governo di Marco Mundus venivano linciati e massacrati per le vie.
Era però notevole che pure senza viveri, senza giornali, senza luce, senza raziocinio, la città isolatasi volontariamente dal mondo tendeva a un ordine e ad un’organizzazione sempre più in accordo con la propria follia.
Per questo il resto del mondo lanciava manifestini ogni giorno più espliciti: — …il Comitato Scientifico Internazionale sta riunito in permanenza. Come la mente di un uomo ha saputo creare gli uomini-macchina così saprà trovare il modo di distruggerli prima che sia troppo tardi.
— Genti di Roma, negate ogni collaborazione agli automi e disertate la città prima che la fame e la guerra non la riducano la vostra tomba.
— Voi non curate i nostri comuni feriti; tentate di abbattere i nostri comuni aeroplani; ci siete divenuti nemici nel servaggio delle macchine. La nostra pazienza ha dei limiti.
— Abbiamo rinunciato a portare il combattimento nell’Urbe per non ridurre a un solo ammasso di macerie tutto il suo tesoro storico; ma il giorno in cui voi stessi vi dimostraste indegni di questo tesoro e di questa tradizione che la storia vi ha consegnato; il giorno in cui vi metteste contro la storia umana completando l’officina a cui già lavorate per i nuovi automi, quel giorno sarebbe l’ultimo per voi e per i vostri feticci. – In questo modo venne il venerdì 13 giugno.
VIII.
Il mago deluso.
Al aveva dormito di volta in volta sotto le arcate dei ponti, sulle panchine dei giardini pubblici, nei retrobottega dei negozi saccheggiati. Quella sera fu colto dal calar delle tenebre ai margini di un piccolo orto.
Attraverso il cancelletto ne rimirò pensosamente tutte le vetrate cromatiche in abbandono, le tubazioni per i nitrati senza più alimento, le lampade per il sole artificiale spente, le aiuole calpestate e tramutate in viottoli; e si sentì commuovere come se la visione di quel piccolo mondo agricolo in abbandono dovesse suscitare il miracolo della sua guarigione.
Questo non avvenne, ma nella sua incoscienza un fascino purtuttavia lo raggiungeva impedendogli di allontanarsi. Nel suo ramingare aveva già preso costumi semiselvaggi: si assicurò che nessuno vedesse e scalò il muro; dall’altra parte, dei cespugli lo nascosero. Restò ancora un po’ pensieroso, poi il sonno lo vinse.
Per quanto? Un cigolo del cancelletto lo svegliò e il suono di una voce femminile giunse a lui.
— Perché, caro, hai tardato tanto questa sera?
Il suono di questa voce rimescolò il disgraziato fino alle radici dell’essere. Perché? Cosa significava? E sentiva quel blocco di piombo nella testa dolergli come se fosse divenuto rovente… L’esistenza raminga di quei giorni, la derisione della folla per la sua divisa di Milite, la sua deficienza stessa gli avevano ad ogni modo insegnato a temere e a nascondersi.
E non si mosse.
Una voce monotona d’automa aveva intanto risposto.
— Tanto daffare, tante cose… cara, vita.
— Tante? Dimmi.
—- Tu sai: l’officina… Cioè… No; non è vero che sia più l’officina a stare in cima ai miei pensieri; sibbene il preparare la tua casa, le tue stanze, là, per te.
Se era possibile raccogliere una sfumatura in quella voce d’un tono solo e sempre uguale, questa era di stanchezza e di tormento.
— Lo desidero anch’io di starti per sempre più vicina; per studiare ogni tuo gesto, per copiarti, per diventare un po’ macchina io pure… Ma hai detto: tante cose. Cosa in più? Cosa ancora? Chi può far tardare te?
La voce monotona esitava. — I miei pensieri! – proruppe.
— Ritardi a venire per pensare… E cosa?
Ci fu una pausa dalla quale la voce femminile risorse tutta piena d’angustie: — Ora tu non vuoi che io mi mostri con te! Perché dici che ciò adesso potrebbe diminuire il tuo ascendente sulle moltitudini. Vuoi che in attesa della nuova casa io abiti ancora qui, perché altrove non ti sarebbe concesso di venire in segreto. E tu ritardi… Perché? Ci sono tante donne, so, impazzite come sono impazzita io, che delirano per te. Cosa mi nascondi? Cosa c’è?
— Oh, se ci può essere, se c’è dell’altro! – giunse agli orecchi di Al la risposta quasi gridata. – C’è la mia malinconia. Sì, è vero: tante donne che delirano per me; ma ce ne fosse una sola che potesse riuscire a prendermi!…
— Ma Zeta Otto, cosa vuol dire tutto questo?
— Cara, vita, vuol dire una cosa ancora più tormentosa di quella che puoi immaginare tu. Vuol dire; il non poterti chiamare vita mia, perché non ho vita. Il non poterti chiamare: mio solo bene, perché io non ho bene. Cosa sono io? Se non un cumulo di congegni, se non un cumulo di pensieri che si snodano senza cessa, senza requie, senza sonno, senza sogni, giorno e notte?… Ed a favore di chi? A favore mio, forse? No: che godimento potrò io mai avere?… La soddisfazione di appagare la mia volontà? Solo questa cosa così astratta!… Mi potrà pungere forse mai il desiderio di conseguire uno scopo per il mio piacere?… Che piacere se per me tutto è lo stesso? Sedere su una pietra come su una poltrona; star nella pioggia come star nel sole; riposare come operare; avere delle comodità come non averne?
— Solo un filo di pensiero: ecco cosa sono io! Una macchina come ne esistono per suonare come ne esistono per correre, come ne esistono per scrivere; soltanto fatta per pensare. Pensare!… in favore di chi? Non in favore mio. Tutto al più in favore della mia volontà. E poiché questa è una cosa artificiale infusami dal di fuori secondo un modello generico umano; non più volontà mia ma umana; di tutta l’umanità.
— Ecco che io non sono che una macchina al servizio degli altri. Trionfando io chi trionfa, infatti? Precisamente il pensiero umano. Mentre finendo io chi finisce? Una macchina!… Io!… Cosa sono io? Se per me un bacio e una sassata sono la stessa cosa?…
Le voci si allontanarono e ad Al non giunse altro più che un brillio confuso.
I due personaggi dovevano essersi seduti lontano diffondendo nella loro strabiliante pena, della loro inverosimile passione solo una successione di cadenze verbali accurate e irreali, certe ma assurde, veraci ma fantastiche come se ad Al giungessero addirittura dalla Luna in tutt’uno con i raggi lunari che illuminavano debolmente l’orto.
La Luna si era infatti levata ed Al, dal suo nascondiglio, si guardava attorno attonito perché l’orto in quel misterioso chiarore cinerino gli sembrava trasfigurato e non più terrestre: paesaggio non più di verità ma da incubo, con quei due innamorati da incubo, con quel loro penare da incubo.
Era malato, era smemore, era ridotto più miserabile di un cane randagio; ma ciò che era rimasto della sua coscienza bastava a dargli quella sensazione di sbalordimento e di raccapriccio. Senza poi dire l’agitazione in cui una delle due voci continuamente lo poneva.
Per questo, strisciando fra un cespuglio e l’altro, fra un’ombra e l’altra volle avvicinarsi ai due per vedere ancora, per udire. Udire.
E i due favorivano il suo intento; passeggiavano, ritornavano. Una donna e un automa; grotteschi e stupendi; deprecabili e miracolosi al tempo stesso, con quel loro amore impossibile ma anche con quell’esaltazione sublime che voleva vincere tutte le impossibilità.
Diceva la donna: — …che importa? Se fino a che io vivrò sarò con te? E se dopo morta ancora, entro forma d’automa, con tutte le parole, i pensieri che tu avrai fissato me viva, io continuerò ad essere sempre la tua Viola?
Ed Al udì.
Ma era l’automa quello che attirava la sua attenzione; con un vestito inutilmente bello e di gran moda: tutto una pioggia cangiante di scacchi rossi, blu e gialli.
Di vestiti simili lo smemorato ne aveva visti, sì, in circostanze recenti che gli suggerivano…
Un passo ancora, un movimento ancora e l’automa venne a porre in piena luce lunare un volto dall’espressione meditativa e stanca. E lo smemorato, nascosto per terra fra i cespugli, vide il volto di un giovane che riconosceva bene; il volto di sé stesso: Al Falqui.
Un nome che si agganciò subito all’altro che aveva appena finito di udire: Viola.
Viola; il nome che aveva sigillato la sua vita alla soglia della morte la sera del sabato 7 giugno: il nome ultimo di una sua scintilla mentale contenente tutto il film della sua vita; di nuovo riaccesasi entro la sua testa un’incandescenza che fuse e dileguò quel peso, quel piombo che vi era fissato.
— Io!… Io!… Io!… – gridò lo smemorato che si era ritrovato; e cadde a terra svenuto.
Viola si era atterrita, Zeta Otto le aveva fatto scudo col suo corpo. Due automi che vegliavano dietro il cancello entrarono sollevando il corpo irrigidito e tranquillando tutti. — Un milite disperso e malato.
— Già, ce ne sono così tanti – chiarì Zeta Otto a Viola. – Bisogna ormai pensare a toglierli dalla circolazione.
E due legionari poco dopo consegnavano al custode di una caserma Al, tutt’ora svenuto. Ma svenuto per l’ultima volta.
IX.
La città dei dementi.
In quella stessa notte gli aeroplani militari del Governo di Marco Mundus ricoprivano tutta la città dì manifestini.
Il numero di questi era così grande che non fu possibile non leggerli.
— O idolatri di Roma, tutto il mondo è contro gli automi. Una Santa Alleanza è stata concordata questa mezzanotte del 13 giugno fra tutte le Potenze. Una grande offensiva contro i vostri idoli è imminente. Il Comitato Scientifico Internazionale ha escogitato un acido gassoso di spaventosa efficacia il quale corroderà tutto ciò che vi è di metallico. Inoltre non ci è più possibile garantire per zone neutre la Città del Vaticano e le estensioni archeologiche. Il Papato e tutta l’umanità ci approva. Il pericolo di lasciare cadere gli uomini in servaggio delle macchine ci impone di essere spietati ed energici.
— Diamo perciò, a partire dalla mezzanotte del 13 giugno, 48 ore di tempo alla popolazione per evacuare la città. Passato questo tempo tutta la metropoli sarà considerata zona di guerra.
— Roma è eterna. Cento volte ha saputo risorgere sempre più meravigliosa dalle sue rovine. Risorgerà anche questa volta; tutto il mondo lo vorrà.
— Allora, quando contemplandola col nuovo splendore della nuova risurrezione, gli uomini la ritroveranno custode perpetua di una civiltà eterna come il suo nome; saranno beati coloro che potranno dire: anche io ho combattuto e son risorto con Lei.
Ogni lavoro civile fu perciò immediatamente sospeso.
Le fanciulle dell’aristocrazia e del popolo corsero le vie con abbigliamenti stile-automa bandendo l’arruolamento per donne ed uomini di tutte le età. Cedettero i loro corredi per ricavarne indumenti militari e maschere contro i gas; cedettero le loro calzature per ricavarne guantoni isolanti e cinghie per strumenti bellici; cedettero i loro gioielli per suscitare un esempio ed un entusiasmo; cedettero le loro lenzuola per ricavarne scafandri cerati contro l’effetto corrosivo degli acidi; cedettero le loro suppellettili per ricavarne i chiodi e la legna da ardere.
Gli uomini corsero spontaneamente alla caccia di tipi idonei al comando che potessero agire da ufficiali; offrirono forti ricompense ai militi dispersisi nella città purché si tramutassero in istruttori delle nuove reclute.
Erano vuoti i magazzini militari, senza attrezzi le caserme, senza medicine gli ospedali, senza scorte di viveri la città, senza armi i depositi, senza aeroplani gli aerodromi, senza energia elettrica gli impianti. Ma una folla impazzita ed esasperata coordinò la propria demenza e sfruttò la propria esasperazione.
Alle dieci vi erano già i primi plotoni; a mezzogiorno i primi ufficiali; nel pomeriggio i primi servizi militari. Tutto questo di spontanea volontà, indipendentemente dai lavori e dalle misure difensive che gli automi stavano escogitando per proprio conto.
Uomini e donne scavarono larghe trincee nelle strade per farvi cadere le tanks e le autoblindate, elevarono barricate, eressero impalcature e finte case e finti ostacoli per trarre in inganno le artiglierie, organizzarono sotterranei a tenuta stagna per la protezione contro i gas e i velivoli.
Nei grattacieli non c’era un ascensore o un montacarichi che funzionasse, ma i pesanti cannoni vecchio modello per il tiro antiaereo furono ugualmente elevati a centinaia di metri sulle terrazze e sui giardini pensili.
I tranvai erano immobili e la metropolitana senza più convogli, ma furono ugualmente trasportati da un capo all’altro della città carriaggi ed ordegni guerreschi diversi.
Non c’era alcuno che si facesse illusioni sull’efficacia bellica di quei vecchi cannoni con scarsa dotazione di proiettili; superati mille volte dai moderni mezzi elettrici dell’esercito regolare; ma la città che non aveva più elettricità aveva i musei, le reliquie delle vecchie fortificazioni, i depositi dei fucili di settanta anni fa. E tutto ciò che in un modo o l’altro poteva servire a una difesa fu preso e messo in opera. Vennero i professori di storia a insegnare artiglieria e gli antiquari ad insegnare il maneggio delle antiche armi.
Dove c’era qualche antidiluviano motore a scoppio fu fatta requisizione di benzina e di oli e con quello dello zolfo e della pece furono escogitate miscele che potessero sostituire il fuoco dei lanciafiamme.
Tutto ciò era un regresso bellico, indubbiamente, ma dove non arrivava più la materia suppliva l’idea, la frenesia, l’esaltazione.
— Roma è ripiombata indietro nei secoli – si gridava nei comizi – e ritornerà se è necessario ancora più indietro; fino al tempo dei miti, quando erano i destini che vincevano la forza e le avversità! Siamo noi i glorificatori di Roma che vogliamo fatta capitale di un nuovo impero di creature inconsumabili!
A mezzanotte scadde una metà delle 48 ore concesse dall’ultimatum quando già un gran lavoro di camuffamento era stato iniziato dalla popolazione insonne. E la città, l’indomani, aggiornò con i tetti e le vie tutte striscie, striscie di colori diversi allo scopo di disorientare gli aeroplani; era questa l’estrema toeletta di guerra. Scritte di « Viva Zeta Otto! » pendevano ovunque.
Da una finestra del suo alloggio in Campidoglio Zeta Otto osservò tutto ciò immobile e pensieroso.
X.
Il fare vale sempre più del non fare.
Come l’automa anche Al aveva avuto di che pensare.
Si era trovato all’alba del 14 giugno in una stanzetta sotterranea e odorante di muffa che prendeva luce da una feritoia praticata a livello del cortile di una caserma. Altro non si udiva che il tic-tac del distributore automatico dei viveri. A mezzogiorno squillò una suoneria e nella parete si aprì un incavo ove Al trovò una fetta di legnoso cibo sintetico e un piccolo otre di carta impermeabile colmo di acqua.
Evidentemente il giovanotto si trovava nella cella per la prigione di rigore.
I suoi primi attimi di coscienza erano stati attimi di esultanza durante i quali era andato avanti e indietro a passo di danza, solo pago di non sentirsi più uno sconosciuto a se stesso. Le meditazioni tormentose erano venute quando, ritrovata tutta la propria memoria, aveva ritrovata anche l’immagine di Viola, ma intorbidata dall’impressione del colloquio sorpreso nell’orto.
Senonché la sua opinione sulla condotta della fanciulla trapassò presto dal disgusto e dalla collera verso l’indulgenza e la pietà.
Al aveva veduto gli occhi fosforescenti di Zeta Otto ed ora indovinava tutte le potenze magnetiche ed ipnotiche di cui la macchina era stata dotata. E nel quadro di demenza collettiva offerto dall’intiera popolazione di Roma l’episodio di Viola era appena secondario.
Dotato dal suo inventore di sensi e di pensieri umani, l’automa, grottesco e sublime, si era innamorato della prima fotografia femminile venuta davanti ai suoi occhi; tanto più che il caso aveva proprio presentata l’effigie più adorabile. Poi vi era stata addirittura la vicinanza della giovanetta e, nulla importa se lui stesso ignaro, l’automa l’aveva irretita nel proprio fascino.
La strana rassomiglianza dell’automa con lui, Al, aveva fatto il resto.
Sì, adesso, dopo tanti giorni, dopo tanti patimenti che avevano lavato nel cuore di Al anche l’ultimo risentimento per le antiche stizze e per i passati dispetti, egli ben vedeva di essere stato amato dalla fanciulla fin dal giungere in Napoli, così come egli l’aveva amata fin da quel primo giungere.
Ecco quindi che le prime ore di meditazione di Al in prigione non erano state, per tanti motivi, prive di dolcezza.
Dolcezza per l’intuizione di un amore formatosi solo dopo tanti giorni, dopo tanti patimenti. Non era ormai troppo tardi?
II vento aveva spinto dal cortile dei fogli attraverso la feritoia ed anche il giovane era perciò venuto a conoscenza dell’ultimatum di Marco Mundus. Dimenticato in quella cella, egli, a quel mezzogiorno del 14 giugno, non aveva davanti a sé che sole trentasei ore. E dopo?…
La porta, di pietra artificiale, alle spallate più violente neppure vibrava; le mura erano sottili ma di cemento armato, la feritoia era così stretta che un gatto non vi sarebbe passato.
Il giovane risolse di chiamare e di attirare l’attenzione di qualcuno a forza di gridi; ma dopo un’ora si ritrovò esausto e nervosissimo senza aver vista la faccia di un cristiano. Altre ore passarono lentamente.
Ora là non vi era tempo da perdere; sentendo d’impazzire dall’esasperazione, a forza di strattoni violenti Al divelse una sbarra dall’intelaiatura metallica che sosteneva la bocca della tubolatura di scarico per i rifiuti. Salì sul tavolato che serviva da letto e si diede con quella sbarra a tempestare di colpi il margine della feritoia; dopo un’ora constatò di avere roso quasi un millimetro.
A che pro esaurirsi per un lavoro che equivaleva a nulla? Si ridiede a gridare da selvaggio comprendendo, nel silenzio sempre uguale e sinistro che gli faceva eco, di rasentare la follia.
Alle sette rifunzionò l’apparecchio per la distribuzione dei viveri e ritrovò ancora una fetta di cibo legnoso con la nuova provvista d’acqua.
Evidentemente se egli non si aiutava da sé era perduto.
Come un folle riprese il suo lavoro sovrumano contro la feritoia e coordinando meglio i suoi sforzi riuscì a duplicare il suo effetto elevando il suo guadagno di spazio a ben due millimetri l’ora…
Quello che a lui occorreva erano circa 40 centimetri…
Non volle più meditare, ragionare: con l’ostinazione dei pazzi, rifiutandosi anche un minuto di riposo proseguì per tutta la sera. Proseguì per tutta la notte. Proseguì per tutta l’alba. Proseguì per tutta la mattina. Venne il mezzogiorno e squillò la solita suoneria. Bevve l’acqua e mangiò il cibo contemplando il risultato del suo lavoro; poco più di tre centimetri. Non gli restavano che 12 ore sole.
Con le sue piaghe che si riaprivano e sanguinavano sotto le bende, le unghie rotte, le mani doloranti, la schiena dolorante, gli occhi infiammati dal pulviscolo che vi cadeva sopra; ma accanito ed ostinato come prima, più di prima, riprese la sua opera.
Al tocco si trovò ad aver guadagnato ancora qualche millimetro; di qualche altro millimetro progredì fino alle due. E così passarono le tre, le quattro…
Quando la volontà del giovanotto scagliata contro l’impossibile suscitò appunto il miracolo.
La porta si aprì lentamente dietro al prigioniero e un atletico sottufficiale entrò puntandolo con la pistola elettrica.
— Vuoi proprio diroccarmi la caserma? – commentò ironicamente. – Andando infatti di questo passo in un millennio o giù di lì raggiungerai lo scopo, non c’è che dire. Solo mi rincresce che per tutto questo tempo io debba sopportarmi il miagolio della cellula fotoelettrica.
— Cosa?… – inquisì Al torbidamente; gli occhi frattanto sulla pistola elettrica; deciso a giuocarsi la vita pur di fuggire.
— Proprio, caruccio mio! La poverina non è sensibile alle piccole alterazioni architettoniche dell’edificio. Ma quando si raggiungono i quattro centimetri allora mi diventa nervosa.
Al si era scagliato. Ci fu una colluttazione che ad Al parve lunghissima ma che in realtà durò appena qualche paio di secondi. E dopo questa Al si ritrovò, tutto confuso e massacrato di pugni, sul suo tavolato.
Disperato, con la sua sbarra metallica strappatagli via, si prese la testa fra le mani e pianse come un bambino, con tanta pena e tanto strazio che il sottufficiale smise le sue contumelie.
Costui era il solo custode della caserma. Gli avevano consegnato Al con la raccomandazione di toglierlo dalla circolazione perché pazzo. E in buona fede aveva creduto di essere più utile al giovanotto tenendolo in quella cella sotterranea ove bastava otturare la feritoia per premunirsi contro i gas allo scadere dell’ultimatum…
Quando invece comprese che il giovanotto, nonostante tutto il gridare che aveva fatto, era perfettamente in sé, allora agì con lui come con tutti gli altri militi che gli automi gli avevano già condotti. Gli mise in tasca una piccola riserva di viveri e lo lasciò libero.
Erano quasi le cinque.
XI.
Epopea.
Di gente in uniforme che correva per le strade se ne vedeva molta ed Al pure corse inosservato fra gli altri.
Gli automi che incontrava apparivano ora scintillanti e il giovanotto comprese che si trattava di una vernice vitrea. Costituiva questa una delle misure adottate da Zeta Otto contro la minaccia degli acidi corrosivi, mentre la popolazione aveva in più preparato per loro bende e scafandri di tela cerata incorrodibile.
Chi avrebbe vinto? Quante sarebbero state le vite umane falciate fra la popolazione demente?
Il cielo era sempre azzurro, la terra sempre rossiccia; e questi due colori elementari sembravano comportare per Al ancora quel senso stesso di tragico e di fatale percepito nella prima battaglia. Con un’angoscia grande quanto inspiegabile Al correva.
Capì il motivo di ciò quando finalmente giunse all’orto. Viola non era più là. Troppo tardi. All’approssimarsi della notte di guerra la fanciulla doveva essersi recata da Zeta Otto.
Ov’era adesso? Cosa fare? Ci poteva più essere la speranza di ritrovarsi entrambi vivi in quella città?
No. I miracoli, appunto per la loro prodigiosa eccezionalità, non si ripetono. E Al sapeva che questa volta o lui, o lei, o tutt’e due…
II cielo era sempre azzurro; la terra sempre rossiccia.
Gente e gente camminava nelle vie; uomini e uomini andavano e andavano smemori e dementi verso il loro destino.
Al cercò con gli occhi una barca nel fiume. Non se ne vedeva. A piedi allora s’incamminò malinconicamente verso i confini della città che aveva sognato di poter varcare in tempo assieme a Viola.
Restare significava morire.
Ma andarsene cosa significava? Vivere? Ce n’era una vera certezza? E del resto: felicità mai più! Felicità per lui, superstite nel mondo con la visione dietro sé di quella città piena di morte e di sventura sentiva non ce ne sarebbe più stata.
Come gli appariva adorabile Roma in quel pomeriggio! Come gli apparivano eroici i suoi abitanti pur folgorati dal barbaglio di una suggestione!
Restare significava morte. Ed Al restò.
Vieppiù che Al ritornava indietro vedeva la folla farsi più fitta con una meta unica: il Foro. Era il convegno ultimo offerto da Zeta Otto ai romani; dal nuovo Cesare ai morituri.
II foro era colmo di moltitudine. La speranza assurda balenata un attimo ad Al di poter vedere Viola là in mezzo decadde subito. La fanciulla doveva esservi, essa la prima… Ma dove?
E, fra la schiera dei suoi schiavi, dal Campidoglio giunse Zeta Otto già tutto vitreo e senza indumenti, per presiedere alla cerimonia con cui i romani consegnavano a lui e ai suoi le bende e gli scafandri stagni contro gli acidi.
— Ave, Zeta Otto! – gridò al suo apparire la moltitudine.
— Ave o Despota, o Sublime, o Inconsumabile! – continuò una voce tonante mentre tutta la folla rabbrividiva di passione. – Concedi sia io, milite e superstite di una battaglia perduta contro di te, a rivolgerti, a una settimana precisa dal tuo trionfo, il saluto di tutte le creature che tu fra poche ore consegnerai alla Morte.
Ci fu un profondo silenzio fra la folla adunata nel tramonto. Colui che parlava si fece strada verso l’automa dagli occhi barbaglianti senza che le autorità perplesse fermassero quell’oratore non previsto nella cerimonia.
— O Sublime, o Inconsumabile! Per il tremendo dono con cui tu ricambi il nostro applauso, per il tuo dono apocalittico di sventura e di morte nessuno è più adatto di questo superstite della passata battaglia, di questo avanzo della passata tragedia, di questo ambasciatore della passata morte a venire a prendere dalle tue mani le chiavi del regno verso cui ci indirizzi: regno delle perpetue tenebre, del perpetuo gelo, del perpetuo nulla. Guarda, appunto, e giudica con i tuoi occhi di saetta e di tempesta e di diluvio se non proprio io sono il più adatto!
Ed un milite con una divisa lurida e a brandelli sorse sul nereggiare della folla di fronte a Zeta Otto.
Da una parte la macchina tutta lucente; dall’altra la creatura tutta stracci che con gesto rapido svolgeva e lacerava le bende. Ripugnanti piaghe allora apparvero dal cranio senza più capelli al petto senza pelle.
— Guarda, o Inconsumabile, questo corpo che non è perpetuo e ferrigno come il tuo; e valuta, da questo sfacelo che tu vedi su me, tutta la somma di strazio e di catastrofe che munificamente ci elargisci.
— Ma conserva memoria che questo fluire vermiglio si chiama sangue e che questa pasta pulsante si chiama carne. Nomi di sostanze che ci vengono direttamente da un miracolo divino: carne e sangue, sangue e carne che tu; o Motore, o Ordegno, o Utensile, non avrai giammai.
— Ben sai cosa significa ciò: restare inconsumabile ma pari a una delle tante pietre, dei tanti detriti, dei tanti metalli senza vita che noi calpestiamo; o, se ci coglie vaghezza, impastiamo in forma di uomini per farne pupazzi al nostro servizio, idoli alla nostra aberrazione, pericoli istruttivi alla nostra esperienza, carnefici al nostro martirio; di cui anche necessitiamo per attingere alla perfezione.
Il cielo nel tramonto si tappezzava di porpora. E la folla udiva e restava allibita.
— Ma allora cosa ti vale, o Macchina – la voce implacabile continuava presso Zeta Otto immobile e incredulo – questa tua inconsumabilità se non verrà mai elevata al rango di Vita? Se ti lascerà sempre a livello di una delle tante cose che noi calpestiamo? Ed io mi chiedo a cosa ti serviranno più le tue potenze ipnotiche quando le userai non più su moltitudini stupefatte, ma su vigili creature in cui l’ansia del rischio abbia stimolato le volontà fino a quell’alta violenza per la quale anche le montagne si vulnerano e i destini si piegano.
— Guardami e vediamo a cosa potranno allora più servirti quei tuoi occhi di quarzo.
La moltitudine era immensa, ma così silente che il cinguettio degli uccelli si udiva nel tramonto come in una foresta deserta. La moltitudine era attonita e immobile; eppure un brivido di emozione crescente la squassava come un uragano.
A nessuno era sfuggito che il milite audace, pur vicino a Zeta Otto, aveva sempre evitato d’incontrare i suoi sguardi; ma adesso tutti gli videro con le mani spazzar via sulla fronte e sulle palpebre il sangue che vi stillava e così, con i propri occhi mondi e sbarrati, incontrare e fissare quelli dell’automa.
Il gesto aveva assunto una tale importanza suprema che la folla restò senza fiato come in attesa di veder incenerirsi il temerario.
Invece: un attimo… due attimi… dei secondi trascorsero senza che più l’uomo il cui sguardo anche era divenuto splendente e tremendo, volgesse via le sue pupille.
Troppo era la gente rimasta senza respiro; e respirare doveva per vivere; e vivere voleva per gustare la gioia di un incantesimo e di una demenza ormai sul dileguarsi. Un sordo brusio era incominciato; ma prima che avesse tempo di concretarsi in un grido di liberazione ancora qualcosa doveva accadere. Via via che l’uomo era rimasto immobile e potente di fronte alla macchina, era risaltata la strana rassomiglianza dei loro profili e l’identicità delle loro espressioni.
E le schiere degli automi improvvisamente ondeggiarono per far largo a una giovinetta bionda che irruppe verso i due con i segni della più grande maraviglia.
Fu un momento: — Viola! – chiamò l’uomo spostando i suoi occhi da quelli della macchina a quelli della fanciulla.
XII.
Gran parata finale.
Or come l’uomo chiamò così e guardò, così un fremito corse la folla perché la fanciulla, come destandosi da un sogno, era rimasta dapprima un attimo stupefatta, era poi accorsa tra le braccia di chi l’aveva chiamata formando un viluppo solo, un corpo solo nel macularsi di uno stesso sangue.
— Questa – l’uomo gridò arrestando col gesto e con la voce Zeta Otto che si era scagliato su lui – questa, o Macchina, o Cosa, è la potenza che io ti dicevo del sangue e della vita! Rapisci ed incanta di nuovo questa creatura, ma fa’ che diventi una macchina come te, una cosa come te; fa’ che non senta più la pietà del sangue che l’attragga; fa, che non oda più una voce vivente che la chiami; od essa, come udrà e vedrà ti fuggirà in perpetuo!
Il grido si era frattanto maturato; il malo fascino si era dissolto. — Macchina! Macchina! – irrise con furore la moltitudine.
— Guarda, o folla, questa macchina! E se la sua magia non le vale più a nulla quando il pericolo urge; se il suo pensare è così tenebroso che non si arresta né si accieca neppure davanti a quello splendente tesoro che è una donna; giudica tu, o folla, a cosa vale?
— A nulla! A nulla! A nulla! – ruggì furibonda la moltitudine.
— Sì, in se stessa non vale a nulla: uno stupido ordegno per cui tutto è uguale; sedere su una pietra come una poltrona, star nella pioggia come star nel sole, riposare come operare, aver delle comodità come non averne… Guarda, o folla, una stupida macchina per cui un bacio e una sassata sono la stessa cosa!…
E la folla senza pietà ruggì e rise.
Le prime pietre volarono contro Zeta Otto e i suoi schiavi in tal numero e con tal violenza che Al dovette ritirarsi rapidamente indietro trasportando Viola tra le braccia.
Il crepuscolo scendeva e i primi pipistrelli incominciarono la loro pazza danza.
Incurante dell’ostilità e delle sassate, Zeta Otto era rimasto solo al centro di un largo spazio, immobile come sempre e muto. Ma i suoi occhi avevano seguita Viola; ed egli con lo sguardo non abbandonava né lei né Al che gliel’aveva tolta.
Cosa stava pensando? La sua potenza non era certo diminuita; la folla non ne aveva conosciuto ancora che una minima parte sfoggiata solo per difesa; ma di che cosa non poteva essere capace ove stesse decidendo di fare del male?
Un semplice suo gesto e tutti gli automi elevarono al disopra delle loro teste un piccolo fascio di verghe di ebanite a cui finora nessuno aveva fatto caso.
— Ah!… Ah!… Ah!… Avevi pensato anche agli scacciamosche contro le nostre pietre, o macchina? – irrise la folla.
Ma Al si era pietrificato. — La nuova arma elettrica che egli ha escogitato in questi giorni – aveva udito Viola balbettargli – con cui la gente s’incenerisce in terra e in aria a più chilometri di distanza. – E i due erano impalliditi avvinghiandosi ancora più stretti l’uno all’altro.
Cosa infatti avrebbe impedito all’automa furente, abbandonato da tutti e tradito anche da Viola, di sterminare quella folla che lo dileggiava?
Ed era quello l’attimo in cui nei suoi occhi già balenava il pensiero e il comando da impartire quando i suoi sguardi scopersero in prima fila un volto femminile che non gli era nuovo; di cui riconosceva l’espressione di pietà così adesso come già un’altra volta, una notte, in una vettura della tranvia sospesa.
Una povera ragazza, una sartina delle « Mode & Maraviglie » che aveva lavorato alla confezione delle bende e degli scafandri e che doveva prendere parte alla cerimonia della consegna.
Tutto ciò che è bene forse non si perde.
Zeta Otto esitò a dare l’ordine spaventoso, anzi, stanco, chinò il capo. E il suo corpo, il suo povero corpo gli parve adesso grottesco, così, senza indumenti: tutto spigoli e piastre, tutto ferro e lamiere.
E la folla lo dileggiò. — Cosa fai, macchina; guardi quanto sei bella?
— Sì – parlò allora l’automa – guardavo il mio povero corpo che questa sera rinserra più gran peso di malinconia che non mai tutti voi assieme nei tempi dei tempi. Grave errore quello di colui che ha foggiato in me una vita che non è vita ove si eccettui il sentimento di solidarietà e di amore per tutte voi, o creature!…
— Lapidiamolo!… Lapidiamolo!… Lapidiamolo!…
— Amore e pietà per voi, o creature – continuò l’automa sotto la gragnuòla – fino a un grado che non comprenderete giammai perché giammai comprenderete il desiderio della carne e della vita che io ho questa sera!… E lapidatemi pure, solo che siate buoni a trarre dal mio ferro una goccia di sangue!…
— Ah, ah, ah!… Buffone, buffone, buffone!…
Ma vaneggiava dunque l’automa? Poteva egli pure avere il delirio e la febbre come un uomo? Con le sue dita di ferro asportata la vernice vitrea del suo petto, egli, fra piastra e piastra, tra lamiera e lamiera apriva dei varchi e degli squarci donde appariva l’intrico lucente dei congegni.
— Potere con le mie dita trovare un cuore… trovare un sangue!… Sangue!… Sangue!…
Veramente come in un’agonia l’automa vacillava.
Tuttavia gli schiavi erano rimasti impassibili e inerti con le loro verghe ancora elevate. Solo una ragazza, una sartina, tale Delvaso Anna, fra il piovere delle pietre, ebbe il coraggio di inoltrarsi verso loro e di gridare: — Il vostro capo si uccide! Il vostro capo si uccide!…
Zeta Otto infatti si piegava, si piegava sempre più; ma ancora vaneggiava, ancora parlava agli automi accorsi attorno a lui.
— … sangue… sangue… non ce n’è… Oli, portatemi allora nel fondo del più vicino mare!…
— … il più vici-i-i-ino ma-a-are… – ripeterono gli automi.
— Sì… c’è da qua a occidente un mare degli eroi e degli dei…
— … di ero-o-o-oi e di dei…
— Il Mar Mediterraneo, vi dico, donde è germinata nei secoli la vita di tutto il mondo, la civiltà di tutto il mondo, il sangue più prezioso di tutto il mondo…
—… sangue più prezio-o-o-oso di tutto il mo-o-o-ondo…
— Così; nulla vi è di irreparabile in me… in me inconsumabile… solo qualche piccolo guasto… Solo un po’ di sonno per non pensare, per non soffrire più… Vi sarà facile ricoprire gli squarci che mi sono fatto. Basterà toccare quella vite che sapete per udirmi un giorno parlare ancora… Sollevatemi sulle vostre spalle. Imboccate il Tevere. Inoltratevi sempre più profondo, più profondo nelle acque fino a raggiungere lo speco più nascosto del mare. Là vegliatemi, là vegliate. E quando un appello pervenga dai fratelli umani in pericolo svegliatemi… Assieme a tutti gli eroi, assieme a tutti gli dei degli obliati miti allora correremo anche noi: per la salvezza e il trionfo della vita in eterno. Obbed…
—… il trionfo-o-o della vi-i-i-ita in eterno-o-o-o…
Nessuno fece attenzione a un colpo secco poco lungi.
E davanti alla moltitudine che incominciava a indovinare il compirsi di un grande avvenimento ed aveva taciuto, gli automi elevarono sulle loro spalle la sagoma irrigidita di quella sorprendente macchina che si era chiamata Zeta Otto. Con i resti dei compagni sfracellati, con tutti i loro ordegni attraversarono la città, giunsero al Tevere; e, nella sera incombente, discesero in gran parata sotto le acque piegando verso occidente.
Verso il mare da dove ritorneranno un giorno.
Epilogo.
Quella sera nella città abbondavano tutte le sorta di armi antiquate. Il colpo secco a cui nessuno aveva fatto attenzione era stato un colpo di rivoltella.
Narcisio Falqui, con i suoi stabilimenti distrutti, tutti i suoi complicati disegni e i suoi modelli non più ricostruibili; vedendo gli automi fuggire, si era sentito vincere dalla disperazione e si era ucciso.
E il segreto dei suoi uomini macchina fu perduto.
Le vittime della grande battaglia furono onorate ed elevate nel cielo della gloria dal culto dei superstiti.
I danni furono riparati e l’agro romano diventò lussureggiante come non mai con molte officine in meno e tante aziende agricole in più.
Perbacco; Al Falqui si era intestato! E chi seppe della sua volontà, delle sue famose ostinazioni, non si stupì se gli agrarî trionfarono così facilmente.
Vestito sempre di carta come un impiegatuccio o un contadino qualsiasi, ma ricco a miliardi, il giovanotto aveva venduto tutti i suoi domini al Canada, giusto per rifarseli attorno a Roma. Perché la terra dei padri finisce col richiamare fatalmente i figli dispersisi nel mondo.
In questo modo, con questo definitivo stabilirsi in Roma vennero quindi anche ad avverarsi le romanticherie di Viola, perché appunto un Falqui giunto dal Canada, tutto arie ed antipatie, sposò proprio quella Falqui bionda e dagli occhi di madreperla che fu la prima a dargli uno stizzoso benvenuto.
E il matrimonio tolse loro il gusto dei dispetti…
Fine.
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TITOLO: L’uomo di fil di ferro
AUTORE: Ciro Kahn
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: "L'uomo di fil di ferro : Romanzo d'avventure" – di Ciro Kahn; Collezione: Il romanzo d'avventure; Milano : Casa Edit. Sonzogno, 1932, A. Matarelli
SOGGETTO: FIC028000 FICTION / Fantascienza / Generale