Luni

di
Emanuele Celesia

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I
Introduzione

Lunei portum est operae cognoscere cives.

ENNIO.

Sempre avido, come è natura de’ giovani, di nuovi commovimenti, e desioso di attingere ne’ luoghi che furono teatro di celebri fatti, quel vigore che talvolta s’estingue nello strettoio delle comuni sventure, quel vigore che in noi si ridesta alla vista della schietta natura, alla rimembranza di grandi avvenimenti, all’eloquente silenzio delle rovine, io presi la via di Lunigiana, terra fecondissima di storiche tradizioni, proponendomi di raccogliere le memorie dell’Apuano paese, che il popolo piú che i libri conserva.

Presso la Magra, che divide il Toscano dal Genovese, si distende una pianura or coltivata ed or ingombra di macerie e di sterpi, i quali accennano che ivi anticamente fu Luni. Monte Caprione coll’estrema sua punta, che dal bruneggiante colore dicesi del Corvo, chiude ad occidente questa pianura: a settentrione sorge in tutta la sua selvaggia maestà l’Apennino; a levante il territorio d’Avenza, ed a mezzogiorno l’è confine il Mediterraneo. Le rovine dell’infelice città giacciono alla sinistra del fiume circa un miglio e mezzo sopra la foce.

Era un bel tramonto di autunno, ed io vagando per que’ malinconici campi, meditava la caducità delle umane grandezze, cercava di ritessere un glorioso passato, svincolatomi dalle viltà del presente, popolare quelle rovine, tener ragionamento con gli antichi dominatori di quelle contrade, quasi fossero a me legati da vincoli arcani. In ogni prunaio, in ogni sasso, in ogni contadino che sospettoso mi passava da canto, io raffigurava qualche cosa di sacro. Assorto in tali contemplazioni, non m’avvidi che il dì se n’andava, e cadevano piú risentite giù l’ombre: anzi, caldo ancora la fantasia delle fresche letture, io vedeva tutte le cose a me intorno animarsi. Bella e fiorente per vivezza di traffico e, quale Strabone la dice, signora del mare, vedea sorgere Luni: mi passava dinanzi lo spettro dell’indovino Taigetenota 1 e d’Aronte in quella strana attitudine in cui lo descrive la terribile penna del nostro maggiore poeta. E d’uno in altro pensiero portato, io vedea schierarsi a me innanzi l’ombre d’Aulo Persio Flacco che venia forse a visitare il suo nido nativo, e dei Malaspina ch’ebbero in signoria quel paese e lo popolarono di tante castella: ad ogni soffio di vento mi pareva udire il gemito di Guido Cavalcanti e degli altri Bianchi fiorentini ivi balestrati in esilio: ravvisai l’ombra di Uguccione della Fagiola, l’uomo che di immane armatura copria le membra giganti, e colla fiera sua guardatura bastava a scombuiare un esercito: parvemi udire i pietosi salmeggiamenti di frate Ilario ed il fremito dello sdegnoso Alighieri, ed esuli pur di Firenze raffigurai gli avi di Buonaparte… nota 2.

Dante e Napoleone! Io raffrontava nel mio pensiero questi due genii de’ tempi moderni, il poeta della rettitudine, il severo amatore d’Italia, coll’uom della forza che rinegò la sua patria, e l’anima intanto mi s’apriva a sentimenti novelli. Tenta il primo a rivendicare in libertà la sua patria e reggere un popolo ingrato, e n’ha in premio l’esilio: figlio il secondo di libertà, il libero reggimento sommerge, e n’ha in premio lo scettro; ma la vendetta di Dante frutta all’umanità la piú maravigliosa epopea che mai siasi concetta, mentre l’altro, divorato da voracità di dominio, né fatto saggio dalle sventure, riafferra il soglio perduto e allaga di nuovo sangue l’Europa… Da questi luoghi tante volte percorsi dal Ghibellino fuggiasco, ripete il fiero Corso l’antiche sue origini: su questi luoghi, anzi sul golfo di Luni, egli voleva inalzare una portentosa città che da lui si chiamasse, quasi volesse riparare gli oltraggi delle sventure e del tempo… Ed or che rimane di sí grandiosi progetti, di sí sfolgorate grandezze?

Scosso da tai pensamenti, io rifacea le mie orme, e nel tornare io ripeteva que’ versi del maggior Fiorentino che sí propriamente secondavano il tenore delle mie riflessioni:

Se tu riguardi Luni ed Urbisaglia
Come son ite, e come se ne vanno
Diretro ad esse Chiusi e Sinigaglia,

Udir come le schiatte si disfanno,
Non ti parrà cosa nuova né forte,
Poscia che le cittadi termin hannonota 3.

II
CENNI STORICI

Nominis est auctor sole corusca soror.

RUTILIO NUMANZIANO.

Atteso da un mio conoscente di Sarzana, giovine d’animo liberale e cortese, io cercai dar piú lieta direzione al corso de’ miei pensieri, al qual uopo giovò mirabilmente una sontuosa cena ch’egli aveva fatto ammanire. Intanto ei mi veniva, richiesto, toccando della natura di quegli abitanti che tengono insieme alla rozzezza dei Liguri e della gentilezza toscana: saputa poi la cagione della mia venuta, ei mi propose una visita alle rovine di Luni ch’io accettai di buon grado, giacché sapendolo assai versato in questa maniera di studi, io sperava a ragione di trarre gran frutto dalle sue cognizioni.

— Se qui, egli diceami, non troverai piú que’ portentosi cacci descritti da Marzialenota 4, vedrai però che le vigne apuane sono ancor quelle istesse che tanto furono celebrate da Plinionota 5.

E intanto, empiendomi ad ogni tratto il bicchiere con vini di varie regioni e squisitissimi tutti, minacciava mandarmi a zonzo il cervello. Senonché io allora, per sottrarmi in parte a questo pericolo, ma piú ancora per far tesoro di quelle memorie ch’egli aveva raccolto del suo luogo natale, gli mossi preghiera d’espormi quanto gli venne fatto sapere su Luni e sulle cagioni del suo struggimento.

— La storia di questo miserando paese è sí involuta di tenebre, che impossibile opera io stimo sceverare il vero dal falso. Pochi ricordi ci restano della sua primogenia grandezza, e le favole che se ne spacciano son senza numero.

— Le memorie, allor l’interruppi, io ricerco e le tradizioni che, sbandite dal patrimonio della storia, si conservano intatte nel popolo: non menzogne, non fiabe. Io ho sempre fatto il viso dell’arme a que’ bizzarri racconti che a torto s’appellano tradizioni e ch’invece ti parlano colla maggiore serietà d’apparimenti di morti e di streghe, onde si perpetuano nel popolo i pregiudizi piú strani. Qual bene si ripromettano costoro da tante bugie, sarebbe difficile il dirti: ma certo parmi non abbino compreso l’uffizio di chi cerca con queste memorie supplire in qualche modo al difetto de’ storici. I quali, o perché abbiano consultati archivii spesso bugiardi, o per paura de’ tempi, o per proprie passioni, o perché infine, come piú probabile, abbiano creduto alcuni fatti domestici e certe costumanze locali mal confacienti alla severa dignità della storia, molto lasciano ancora a desiderare. Ora è debito di chi si pone a riempire questo vuoto d’interrogare veramente il popolo, non d’inventare a capriccio e dettare in un parossismo di fantasia le piú matte fole del mondo. Io per me tengo ch’ogni tradizione che non abbia qualche vincolo colla storia e che almeno non serva a lumeggiarla, sia da rigettarsi.

Dopo un cortese atto di assenso a queste mie parole, cosí l’amico mi narrò in pochi detti quanto egli potè raccogliere sull’ antica cittànota 6.

— La fondazione di Luni si perde nelle tenebre dei tempi. È parere di alcuni che venisse eretta da Timeo, dodici secoli prima dell’era volgare: altri ne fanno autore re Giano: v’ha chi finalmente la dice fondata dai Focesi che, con greco nome, la chiamarono Selene. In tanto fluttuar di congetture, a qual partito attenersi? Una tradizione raccolta dal buon Giovanni Villani, ci narra aver Luni inviato un navilio a sussidio de’ Greci nell’assedio di Troia, che poi ritornò carico delle spoglie de’ vinti. Era essa città ligure o etrusca? Ivi pure è conflitto di parere fra i dotti; a noi basti il sapere che gli Etruschi, forse per farsene antemurale alle correrie dei Liguri, se ne impossessarono: anzi, a cagion del suo porto (fosse, come vogliono alcuni, il golfo della Spezia, od altro ne avesse, come è opinione piú ricevuta, lungo la Magra, presso alla città), Luni divenne ben presto centro della loro potenza marittima, fu sede di un Lucumone ed una fra le dodici città dell’Etruria. Roma nel decimoquinto secolo le ruppe guerra e la dominò; teatro delle cartaginesi e romane contese, e delle civili lotte fra Cesare e Pompeo, ebbe lungamente a soffrire: finché depredata dai Longobardi, distrutta dai Saraceni e Normanni a più riprese, giacque annichilata, né piú rinverdì la sua gloria, neppur quando venne da Carlo Magno, come opinano alcuni, data in feudo alla Sede Apostolica. A queste miserie, aggiungi lo straripamentonota 7 del fiume, che lasciato alle proprie licenze, formò paludi e viziò l’aria d’influssi maligni, per cui gl’infelici terrazzani vedendo la loro città quasi ridotta a maremma, e non potendo sopperire al gravissimo spendio di riparare a tai danni, a poco a poco l’abbandonavano. Già da piú anni i loro vescovi abitavano in Amelia ed in Sarzana, quando nel 1214 una bolla d’Innocenzo III trasportò la sede vescovile in quest’ultima città. Di qui la finale rovina: la fama di sí replicati sinistri vive tuttora nel popolo e ne racconta le piú bizzarre avventure.

— È appunto di queste memorie, allora risposi, ch’io corro in traccia, e assai tenuto io ti sarei, se non ti fosse a tedio raccontarmene alcuna.

— La messe, egli soggiunse, è assai vasta, e già molto innanzi è la notte. Domani io ti sarò guida a quelle rovine, e poscia cercherò satisfarti in ciò che sí vivamente stuzzica la tua curiosità.

Benché stanco del viaggio e pieno di sonno, io seguitai mio malgrado il suo divisamento, e mi gettai sovra un morbido letto, desideroso già che albeggiasse.

III
ROVINE

Desertae maenia Lunae.

LUCANOnota 8.

— Vedi, mi diceva cammin facendo l’amico, vedi gli Apuani, famosi per i lor marmi: appiè di queste rocche è Carrara. È fama che lassù Aronte avesse per sua dimora una grotta, in cui traeva gli oroscopi. Dante istesso, il fedele pittore de’ luoghi tradizionali, accenna a questa opinione del popolo. Egli finge di ritrovarlo all’inferno, che oppone le sue reni e la sua faccia al ventre di Tiresia, andando ambedue all’indietro col capo travolto:

Aronta è quei ch’al ventre gli s’atterga,
Che ne’ monti di Luni, dove ronca
Lo Carrarese che dissotto alberga,

Ebbe tra bianchi marmi la spelonca
Per sua dimora: onde a guardar le stelle
E il mar non gli era la veduta tronca.nota 9

— Di questo celebre indovino non dura oggimai che il nome nel volgo, ei continuava: il resto di lui è dominio della storia e della poesia. Noi sappiam da Lucano, che, quando fuggito Pompeo da Roma per l’appressarsi di Cesare, apparvero portentosi prodigi, ed il senato, per placare gli Dei, trovò espediente di chiamare un qualche aruspice che apprendesse loro i riti ed i scongiuri onde placare lo sdegno celeste. La scelta cadde sopra Aronte; e le cerimonie da lui operate, si leggono a lungo descritte dall’autore della Farsaglianota 10.

Intanto, seguitando la via Romana, giungemmo in luogo ove il terreno ingombro di sassi e d’infranti edifizi, da cui colla velocità del baleno si lanciavano nelle vicine siepi i ramarri, accusavano che quivi in remotissimi tempi sorgeva una città. Infatti, alla distanza circa di un miglio, in luogo che chiamano il Portone, vedemmo colonne, capitelli e i frammenti d’un’antica inscrizione. Una seconda pure me ne fu mostrata nella chiesuola di San Lazzaro, ned io curai trascriverla, ghiotto com’era di popolari memorie, non di archeologiche indagini. Presso un sito che dicono Mano-di-ferro, lontano circa tre miglia, ci mettemmo per una viuzza che ancora chiamano Luni: ivi abbondano in gran copia sassi, frantumi, rovine: e ci arrestammo a sinistra sovra tre nuclei di sepolcri e sugli avanzi di un’antichissima strada, che vogliono fosse l’Aurelia od altro tronco che la Claudia congiungesse alla stessa. Nuove macerie ci funestarono il guardo lungo la via d’Orto nuova, ove ravvisammo un sepolcro o, secondo altri, un faro che illuminava il minor porto di Luni, di cui forse or la Seccagna è il cratere. Vedemmo nella villa Olandini gli avanzi del Colosseo, di cui poco piú resta, dopo lo spoglio fattone dal cardinale Calandrini, che decorò di que’ marmi una sua cappella in Sarzana. Travagliati da un mesto pensiero a quell’aspetto funesto, non ci cadde neppure in mente la questione tanto ventilata fra i dotti, se questo Circo appartenga veramente ai tempi degli Antonini, od ascenda ad epoche anteriori a Roma: ché anzi, proseguendo la via, trovammo nuove rovine di bagni, di case, di tempi, ed a levante le reliquie di un semicircolare teatro, ove trovaronsi già scudi, statue, bronzi, candelabri ed altri antichi ornamenti. Ivi noi ci assidemmo meditando il nulla delle superbe fortune……

Allora io, volendo distogliere il contristato pensiero da quelle tristi vedute, gli richiesi a chi primo dovesse attribuirsi lo scoprimento di que’ marmi racchiusi in tanta copia ne’ monti vicini. Cui rispose l’amico:

— Che gli antichi abitatori di Luni conoscessero queste lapidicine, non par cosa da porsi in dubbio, ma la scoperta delle cave del Polvaccio da cui si tragge il marmo migliore, è universalmente attribuita ai Romani. I quali pare l’avessero in grande pregio, mentre vediamo aver questo adoperato in ogni lor monumento. Il piú dei marmi del Panteon, quelli della piramide di Cajo Cestio, il Tempio d’Apollo, il Portico d’Ottavia ed altri assai, son tutti lunesi. Anzi il Mengs ed Ennio Quirino Visconti, tengono che l’Apollo del Belvedere sia marmo di questi monti, sebbene non manchino forti oppositori……

— Ora una quasi sterile landa, continuava dopo breve silenzio, è fatta questa già famosa città. Nè ti maravigliare, non trovando quivi quasi vestigio del suo antico splendore e de’ suoi monumenti. I ricchi marmi ed i preziosi ornati sfuggiti alle visioni e ruberie barbaresche, furono in gran parte guasti dall’ignoranza dei tempi, e in parte divisi fra i finitimi popoli; molti di essi sono ancor fregio di moderni edifizi, giacché corre voce tra il popolo, che abbiano i Sarzanesi costrutta di questi avanzi la lor cattedrale, ed i Genovesi, il magnifico tempio di N. S. delle Vigne e quello di Santa Maria di Castello.

Fra questi ed altri ragionamenti giungemmo alla nostra abitazione, dove io caldamente pregai l’amico a narrarmi alcuna fra le tradizioni dell’eccidio di Luni, e con ciò sdebitarsi meco della fatta promessa.

IV
LEGGENDE

Conduntur feretro sub tergo corporis enses.

APPULUS, lib. 3, t. 5.

E la promessa fu sciolta. Tre soli giorni io stetti ospite di questo amico, la cui modestia mi vieta di qui scrivere il nome, ma la memoria dell’ore insieme trascorse mi vivrà lungamente nell’anima. Delle molte e svariate memorie sulla rovina di Luni, ch’io per suo mezzo raccolsi, racconterò alcune che alla storia possono in qualche parte annodarsi.

Lucio, principe di Luni, preso perdutamente delle bellezze d’una giovane imperatrice che viaggiava in compagnia di Alarico suo sposo, era per morirne di dolore, giacché, sebbene la donna lo ricambiasse di pari affetto, pure la gelosia del sospettoso marito, toglieva loro ogni speme di potersi abboccare. Senonché amore, fabbro d’inganni, venne finalmente ad aprir loro una via di salute. L’imperatrice finge d’essere improvvisamente assalita da grave morbo: il medico, posto a parte del meditato secreto, agevola il tradimento e fa correre voce che pochi giorni di vita le sopravanzano. L’astuta trama fu condotta con un’arte mirabile. Sparsa la nuova della sua morte, Alarico che teneramente l’amava, ordina le sia celebrato il piú solenne funerale che mai si vedesse, e cieco di dolore per tanta perdita, si diparte da que’ luoghi che gli rammentavano una sí acerba sventura. Lieta intanto la giovane imperatrice volò in braccio del suo seduttore, e seco lui visse alcun tempo beata. Ma le lor gioie non ebbero lunga durata: una furiosa procella scatenossi per parte dell’oltraggiato marito sovra il lor capo, e ravvolse nel suo turbine anche l’innocente città. Perocché l’imperatore, avuto sentore del nero lor tradimento, e come la sua consorte ch’ei lagrimava perduta, vivesse tranquilla al fianco dell’adultero Lucio, raccolse un potentissimo esercito, e dopo d’aver cinto Roma d’assedio, e gonfio già per le sue vittorie di Campania, Basilicata, Calabria, discese su Luni, passò per piú vendetta a fil di spada gl’intieri abitanti, smurò la città e la smantellò da’ suoi fondamenti.

Dal fin qui narrato rilevasi che un amore lascivo fu causa dell’eccidio di Luni. Questa tradizione era cosí divolgata, che anche Petrarca nel suo Itinerario Siriaco, dice la lussuria fonte dell’estermino di questo paesenota 11: al che pur concorda Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo, ove canta:

Lussuria senza legge, matta e sconcia,
Vergogna e danno di colui che t’usa
Degna di vituper, tanto se’ sconcia,

Noi fummo a Luni, ove ciascun t’accusa,
Che sol per tua cagion veracemente
Fu nella fine disfatta e confusa:nota 12

Altri raccontano diversamente un tal fatto, e sebbene corra un grande divario fra le due tradizioni, pure nella sostanza concordano, giacché in ambedue una morte simulata fu la causa dello struggimento di Luni.

Astingo, d’origine goto, feroce condottiero de’ Normanni avendo sentito levar a cielo le dovizie di Roma, vago come era di preda, propose d’impodestarsi di quella città. Levato perciò un grosso di truppe, ed allestito un naviglio forte di cento legni, si mise un pelago alla ventura, ignaro in qual parte d’Italia giacesse l’agognata città. Saccheggiate le coste della Spagna e della Mauritania, penetrò nel Mediterraneo, e delle isole Baleari fe’ scempio atrocissimo. Inconsapevole in qual luogo ei si fosse, entrò nel porto di Luni, e l’aspetto di quella leggiadra città dalle mura di marmonota 13, la sua felice postura e le torreggianti sue moli strinsero di tanta meraviglia i Normanni, ch’essi tennero per fermo esser quella la città di Roma, e la Magra cambiarono per il Tevere.

Correva il dì del Natale, ed i Lunesi accolti nella loro cattedrale, attendevano agli uffizi di religione, quando ad un tratto si diffuse la voce che il loro porto era occupato da gente forestiera e nemica. Lasciati i cittadini all’istante i sacri riti, diedereo di piglio alle spade ed accorsero a torme in difesa della minacciata lor terra, risoluti di vender care le loro vite. Astingo, benché d’indole audace e fattiva, fu scosso da quel guerriero apparato, ed avvisando non esser cosa di lieve momento il poter penetrare in città, volle ottener colla frode ciò che non potea colla forza. Per la qual cosa mandò alcuni messaggi in città, i quali, giunti al cospetto del vescovo e del conte, dovessero esporre — venire essi dalle lontane regioni del nord: sebbene vincitori de’ Franchi e per ogni dove temuti, nutrire però sensi di pace e di fratellevole amistanza: ogni timor deponessero: null’altro essi chiedere che riparare nel sicuro loro porto, sbattuti come erano, e rotti dalle tempeste e dai marini travagli. — Quinci per inspirare maggior credenza e trarli piú agevolmente nel laccio, aggiunsero: — essere Astingo, lor re, oramai stanco della sua vita errante e perigliosa: aver sentito magnificare la santità della Fede Cattolica e nutrire desiderio vivissimo di abbracciarla, e perciò chiedere umilmente il battesimo dalle mani del vescovo. —

Presi alla dolcezza di queste parole i cittadini, ed ignari del turbine che loro soprastava, cacciarono in bando i concetti timori, sovvennero di larghe derrate il loro campo; e in mezzo a pompe e cerimonie solenni, Astingo fu battezzato: ma non perciò i Normanni vennero intromessi in città.

Vedendo Astingo essergli fallito questo espediente, e risoluto di venire ad ogni costo a capo del suo iniquo disegno, meditò nuovo inganno.

Un bel mattino i terrazzani, scossi da non piú intesi ululati e da strida d’immenso dolore, accorsero in tutta fretta verso le navi, e trovarono i Normanni che, immersi nella piú tetra desolazione, si stracciavano i panni e si batteano come dementi la fronte. Chiesta la cagione di tanto scompiglio, udirono che Astingo il lor duce, assalito nella notte da furiosa febbre, era morto, legando le sue molte ricchezze alla chiesa di Luni, purché gli fosse in detto luogo concesso sepolcro. Come negar fede a cosí vivo dolore? Come rifiutare le spoglie di Astingo, dopo che lor vennero consegnati i grandi tesori dei quali il fiero Normanno aveva disposto in favore della loro cattedrale?

Si cinge adunque di gramaglie la chiesa, vi si inalza nel bel mezzo un gran catafalco, ed i Normanni, disciolti in lacrime ed abbruniti, fanno mesto corteo al cadavere del loro condottiero. La chiesa ribocca di popolo accorso a tanto spettacolo: la bara è collocata nel mezzo del tempio. Il vescovo, cinto di solenni apparati, intuona le consuete preghiere, cui rispondono in voci di pianto le strida dei guerrieri Normanni: indi, benedicendo, sparge il cadavere dell’acqua lustrale…..

Spavento di Dio! Da qual mano arcana parte il colpo improvviso che stende il vescovo a terra? Nel punto istesso in cui stava per essere calato nel suo sepolcro, sbalza Astingo gigante fuor della bara, ed afferrato il vescovo per i capelli, lo impiaga di mortale ferita. Questo fu il segnal della strage. Cessano i guerrieri Normanni gl’infinti singulti, e tratti fuori bravamente dalle vesti le daghe nascoste, si gittano come leoni sovra i disarmati Lunesi, e ne fanno orrendo macello. La santità del tempio non affrena la loro cupidigia di sangue: cadono i sacerdoti appié degli altari, al fianco dei consorti le spose, in braccio delle madri i lattanti: tutto è orrore, desolazione e rovina. Divenuto per tanta empiezza signore di Luni, Astingo riconosce il suo errore ed apprende esser Roma ancor molto lontana. Ciò rinfocò a piú doppi la sua rabbia bestiale, talché cieco di nuovo furore, si rovesciò armata mano sull’afflitta città ch’ebbe a soffrire quanto di piú crudele abbiano giammai registrato le istorie. Sfogata ogni fiera libidine, e stanchi d’atterrare e d’uccidere, trasportarono le ammassate ricchezze nelle navi, come pure le donne piú avvenenti ed i giovani capaci dell’arminota 14.

Lungi dieci miglia da Luni è Tiro, vaga isoletta, ove sorgeva in que’ secoli il ricco tempio di San Venerio. Quivi non curando la religione del luogo, si gittarono i Normanni, non ancor sazii di preda. Fuggiti i monaci per il terrore, non vi trovarono che un vecchierello, il quale, acceso da sacro ardimento, osò rimproverare ad Astingo la sua immanità, dicendo che non gli avrebbero (soccorso dal cielo) potuto torcere un sol capello. Irato Astingo da sí coraggiose parole, lo fece, stretto da grosse funi, gittare dentro un vivissimo incendio: ma le fiamme, non che divorarlo, gli si apersero rispettose d’intorno, ed egli sereno e tripudiante cantava inni al Signore. I Normanni rimasero sí possentemente percossi dallo strano spettacolo che tenea del prodigio, che, date senza altro le vele ai venti, tornaronsi subitamente alle patrie contrade, carichi d’immenso tesoro. Da quel giorno funesto il navigante che veleggiava quel mare, volgendo lo sguardo su Luni, piú non ravvisava di tanto famosa città che un ammasso di pietre lorde del sangue de’ suoi miseri abitatori.

E giacché mi accadde di parlar di Venerio, non posso dispensarmi di toccar brevemente la grande riverenza che gli professano quei terrazzani, per averli tratti da un fiero pericolo. Portano le tradizioni che nel monte Marcello, due miglia lontano da Luni, vi fosse una caverna abitata dal piú mostruoso dragone che fantasia di poeti abbia potuto descrivere. Stimolata dalla sete del sangue, scendeva ogni giorno l’immane fiera in vicinanza della città, e faceva orrendo pasto di quanti le si paravano innanzi. Durò lungamente questo misero strazio, talché il paese ne rimase quasi deserto. Forza umana nè arte erano bastate a spegnere questo dragone, in cui la cupidigia del sangue si faceva ogni giorno maggiore. I pochi superstiti, vedendo non esser loro piú scampo, risolsero di ricorrere ad un uomo di santi costumi che abitava in un vicin romitaggio, acciò placasse l’ira del cielo che loro si mostrava tanto visibilmente indignato. Nè andarono falliti nella loro aspetazione, giacché dalla voce di Venerio percosso il maledetto mostro, mandando acutissime fischia, uscì dal suo covo e si precipitò negli abissi del mare.

Altri acerbi disastri intesi raccontare di Luni, quali affatto ignoti agli storici, quali in parte raccolti dagli oscuri cronisti di quella terra. Troppo lunga cosa sarebbe riferirli in queste pagine. Non posso però passare sotto silenzio l’avvenimento che portò l’ultimo colpo all’infelice città.

Sul volgere dei primi anni dell’undecimo secolo, un barbaro Emir, saraceno (i cronisti lo chiamano Musa, il popolo ne ignora, non che il nome, la patria), dopo essersi reso signore della Sardegna, si portò sulla Magra, avvisando esser quello un luogo acconcio alle sue correrie, perché posto fra Liguria e Toscana. Il disonesto scempio ch’egli fece di Luni, è tale da stringere di raccapriccio. Coloro fra gli abitanti ch’ebbero modo a sottrarsi alla strage, ripararono a Genova e a Pisa, e il racconto delle sozze immanità saracene tanto animo alzò in que’ magnanimi repubblicani, da incitarli a vendetta. Giunsero i loro lamenti all’orecchie del pontefice (Benedetto VIII), il quale, predicando la guerra santa, spronò Genovesi e Pisani a distruggere quel covo di serpi. Allora le flotte di queste città unite mossero a Luni, chiudendo il mare ai Saraceni, mentre il pontefice con forte polso di gente gli stringeva da terra. Un’orrenda battaglia fu dalle due parti con eguale ardore combattuta, finché le squadre barbaresche toccarono sí grave sconfitta, che pochi ne andarono salvi. L’istessa regina, mentre cercava nei passi della fuga uno scampo, n’ebbe mozza la testa, e la metà del suo diadema fu dal pontefice mandato in dono ad Enrico imperatore. Il Musa con pochi superstiti giunse a fuggire, ed afferrò la Sardegna. Fu allora che impotente a vendicarsi, prese il partito d’inviare al papa un sacco di castagne, dicendo: — Stasse parato a nuova guerra, giacché all’aprirsi della stagione avrebbe riposto piede in Italia con tanti soldati, quante erano le castagne che le inviava; cui Benedetto VIII rispose: — Venisse pure, attenderlo con invitto animo, e intanto accettasse a ricambio del suo dono un sacco di miglio; quasi gli volesse significare, che tanti guerrieri gli avrebbe ad opporgli, quante erano le granella del miglio che gli trasmetteva. In questa guisa furono cacciate le torme saracene, ma da tanto rovescio Luni non risorse mai più.

Altri curiosi avvenimenti raccolsi nel mio breve soggiorno in cui, guidato dal mio cortese ospite, visitai quelle vaghe contrade che gli uomini e il cielo afflissero a prova con sí replicati disastri. Della venuta a Luni del Volto Santo sopra una nave non da mortal mano guidata; dei litigi che fra i Lunesi ed i Lucchesi ne insorsero, e dei giovenchi che poscia spontanei la trassero a Lucca, bella e poetica leggenda che mi fu raccontata da una donnicciuola di que’ luoghi, duolmi non poter dire, ché altre cose piú conformi all’indole di questi volumi m’incalzano. Le quali appartenendo piú specialmente che a Luni a Valdimagra, io darà in altro apposito scritto, che sarà come il compimento di questo lavoro.

Fine.


nota 1 – Indigenae dixere Tagen qui primus Etruscam
Edocuit gentem casus aperire futurus
. – OVIDIO.
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nota 2 – Persio accenna in piú luoghi alle sue native contrade:
…….. mihi nunc ligus ora
Intepet, bibernatque meum mare, qua latus ingens
Dant scopuli et multa litus se valle recepta.

Quanto a Guido Cavalcanti, ad Uguccione della Fagiola ed agli avi di Buonaparte, vedi Gerini, Memorie storiche della Lunigiana
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nota 3 – Vedi Paradiso, Canto XVI.
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nota 4 – Caseus Etruscae signatus imagine Lunae
Praebit pueris prandio mille tuis.
– MARZIALE.
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nota 5 – Lunense inter Etruriae vina palmam habet. – PLINIO.
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nota 6 – V. le dotte memorie su Luni, raccolte dall’egregio Carlo Promis.
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nota 7 – La violenza della Magra è ricordata pur da Lucano:
… nullasque vado qui Macra moratus
Alnos, vinae procurrit in aequora Lunae.

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nota 8 – Il chiamare Luni deserta, notano i commentatori di Lucano, è una mera esagerazione poetica. Vedine le allegate ragioni.
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nota 9 – Inferno, Canto XX.
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nota 10 – Haec propter placuit Tuscos de more vetusto
Acirri vates: quorum qui maximus aevo
Aruns incoluit desertae moenia Lunae,
Fnlminis edoctus motus, venasque calentes
Fibrarum et monitus volitantis in aere pennae, etc.
– LUCANO, lib. 1.
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nota 11 – Aliud enim hac in parte nihil habeo magnum exemplum fugiendae libidinis, etc., con quel che segue. Vedi pur Giovanni Villani.
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nota 12 – Libro 3, cap. 6.
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nota 13 – Ecco come un antico cronista (Benedetto da S. Celso) descrive le mura di Luni:
Hastenc esgarde la cité
De si tres grant nobilité
Cum li fosse issunt parfunt
Li terre roiste contremunt
E li haut mur de sus asis
Et le portaus de marbre bis
Cum les turs sont batailliées,
etc.
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nota 14 – Vedi l’istoria di Dupping. Era stratagemma proprio del popolo normanno fingere morto il suo condottiero, quando non potea recar in suo potere qualche città, per poi meglio cogliere di sorpresa il nemico:
Qui cum discedens huc praedabundus et illuc
Non aliquod castrum posset captare vel urbem,
Utile figmentum versatus adiuvenit, atque
Mandat defunctum quod quemlibet esse suorum,
Gens sua testetur….
Impositus feretro, pannusque obducere cara
Illitus hunc facie jussus latitante fuisset,
Ut Normannorum velare cadavera mox est,
Condutur feretro sub tergo corporis enses,
etc. – APPULUS, De Normannis, lib. 3, tit. 5.
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Luni
AUTORE: Emanuele Celesia
CURATORE: Rigoli, Aurelio
NOTE: Racconti popolari che, nella prima metà dell'Ottocento "rinomati scrittori italiani" (Pietro Giuria, Emanuele Celesia, F. Ramognini) recuperarono dalla tradizione orale e trasposero in prosa d'arte, per la ben nota raccolta di Angelo Brofferio "Tradizioni italiane".

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Racconti popolari dell'Ottocento ligure. - Palermo : Edikronos, 1981. - 2 v. ; 17 cm. - vol. 1.: 203 p. - vol. 2.: 226 p. - (I Contastorie)

SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti