Scritto nel 1829, quando Hugo aveva solo ventisette anni, questo racconto è un manifesto contro la pena di morte. Non sappiamo nulla del condannato e del suo crimine, se non, da poche frasi che Hugo lascia trapelare, il fatto che sia di una classe sociale elevata: “Il vedersi maltrattato, me ingentilito dall’educazione” e “La mia camicia di tela battista, solo brano che mi rimanesse di quello ch’io era altra volta”. Il silenzio sulle sue vicende ha chiaramente lo scopo di estendere a tutta l’umanità le considerazioni che l’autore fa sulla vicenda del singolo.

Incontriamo il protagonista già in tribunale, dove viene condannato a morte, ed impedisce al proprio avvocato di richiedere la commutazione della pena: ritiene la condanna ai lavori forzati peggiore della condanna a morte. Avrà a pentirsi nelle ultime pagine di questa scelta.

L’esecuzione con la ghigliottina veniva propagandata come un atto di umanità: la morte era immediata e meno dolorosa rispetto alle alternative, ma l’autore si domanda se la vera condanna non sia quel mezzo secondo in cui avviene l’esecuzione, ma i mesi, i giorni e le ore precedenti, in cui il condannato si tormenta, al pensiero di chi lascia (per il protagonista soprattutto la figlia di tre anni) o rievocando i momenti lieti della propria fanciullezza.

Rinchiuso nel carcere di Bicêtre il condannato, ancora prima di sperimentare in prima persona l’angoscia della sua esposizione al pubblico (“la plebaglia”) curioso di vederlo morire, assiste ad uno spettacolo analogo quando dal carcere viene mandato alla colonia penale di Tolosa un gruppo di condannati. La spettacolarizzazione della condanna è un altro dei temi principali del racconto.

Lo scopo dell’autore è chiaramente esposto con questa frase:

«Forse questa lettura gioverà a rendere la mano più lenta, quando si tratterà di far balzare una testa pensante, una testa d’uomo su quella che chiamano la bilancia della giustizia!»

Per un caso fortuito, due diversi volontari hanno preparato questo testo servendosi di due diverse edizioni. In questo caso, si tratta della traduzione di Luigi Masieri del 1854. Per chi fosse interessato alla questione della lingua italiana, curioso può essere il confronto con l’altra versione (Gli ultimi giorni di un sentenziato a morte) di pochi anni prima, che già nel titolo rivela un linguaggio distante dal nostro uso corrente.

Sinossi a cura di Claudio Paganelli

Dall’incipit del libro:

Condannato a morte!
Da settimane sono assorto in questo pensiero, sempre solo con esso, agghiacciato dal suo aspetto, prono sotto il suo peso.
In altri tempi, anni sono, parmi, anzi che settimane, ero un uomo come un altro; ogni giorno, ogni ora, ogni minuto avea la sua idea; la mia mente, giovane e splendidissima, riboccava di fantasie e godeva schierarle dinanzi a’ miei occhi le une dopo le altre, senz’ordine e scopo; intessendo ad infiniti rabeschi la rozza ed esile stoffa della mia vita. Erano vaghe donzelle, magnifiche cappe di vescovi, battaglie vinte, teatri riboccanti di frastuono e di luce; poscia donzelle ancora e misteriose passeggiate di notte, sotto le ampie braccia degli ippocastani. Sempre lieta era la mia immaginazione, libera la mia mente, libero tutto me stesso.
Ora sono prigioniero – il mio corpo geme in ceppi in una segreta, il mio animo soffocato da un’idea; orribile, sanguinosa, implacabile idea! Non mi rimane se non un pensiero, una convinzione, una certezza. Son condannato a morte!….

Scarica gratis: L’ultimo giorno di un condannato a morte di Victor Hugo, edizione del 1854 con la traduzione di Luigi Masieri. Sul sito è disponibile anche l’edizione, L’ultimo giorno d’un sentenziato a morte, del 1837 con la traduzione di Giovanni Battista Carta.