L’orda d’oro, del 1906, è il primo volume della trilogia composta da Diego Angeli, spesso definita di gusto e ispirazione dannunziani. Nel 1908 pubblicherà Centocelle e infine Il crepuscolo degli dei (1915). Considerato dai suoi contemporanei un erede di D’Annunzio – in realtà erano pressoché coetanei – Angeli si differenza dal ‘vate’ per uno stile decisamente più asciutto e per un fortissimo desiderio di rendere lettrici e lettori partecipi delle sue passioni: l’arte, le bellezze di Roma, la vita culturale e cosmopolita che animava allora i suoi caffè, i grandi alberghi e le vie del centro storico.
Protagonista indiscussa di questo romanzo è Roma. Ogni azione dei suoi personaggi, ogni sfondo delle loro vite, ogni intermezzo tra un movimento e l’altro, la fugace storia d’amore che percorre dall’inizio alla fine tutto lo scritto è un pretesto per parlare e descrivere delle bellezze della città eterna. L’opera si potrebbe definire a buon titolo un Baedeker in forma di romanzo, nel quale si ritrova tanta Roma di oggi ma dove si legge anche di una campagna romana che lambiva la città, proprio fuori dalle sue porte, sostituita poi da colate di cemento. Diego Angeli, fiorentino di nascita, fu un figlio adottivo molto affezionato. In molti tratti del deuteragonista de L’orda d’oro, Paolo Maleandri, è difficile non intravedere il giovane colto e brillante, richiesto in tutti i salotti per la sua verve e la sua capacità di intrattenere su tutto, politica come moda, arte come storia; lo sportman, il diplomatico, in breve l’”uomo prezioso” al quale tutte le porte sono aperte.
Maleandri è passionale ma i suoi sentimenti, soprattutto verso le donne, non sono mai profondi; ha «le qualità che procurano le facili avventure e di queste qualità egli approfittava con una gioconda libertà di spirito». In lui è decisamente più forte l’amicizia verso pochi scelti, come il pittore francese venuto a Roma come pensionnaire all’Accademia di Francia a Villa Medici, o come il giovane marchese Giorgio Vaini, tenente di cavalleria, istruttore alla scuola di Tor di Quinto.
La vita di Paolo è fatta di viaggi che invariabilmente lo riportano nella sua città, per presenziare alla saison romaine: un turbinare di incontri, di appuntamenti, di intrighi, di pettegolezzi, di flirt, di splendide donne in fantastiche toilettes, di giovani artisti venuti a studiare le antichità, di passeggiate all’alba, al tramonto, sotto la pioggia, in carrozza negli angoli più belli e romantici, per visitare le chiese più mistiche e coinvolgenti, … È la stagione in cui «Roma aveva la sua messe di belle donne invernali come la primavera ha la sua messe di fiori.»
Tutta l’azione si svolge nel corso di un anno, e prende l’avvio, in uno sfolgorante autunno romano, dall’abitazione di Paolo in Palazzo Mattei, uno dei più interessanti palazzi storici romani, oggi sede tra l’altro della Discoteca di Stato e della Biblioteca di storia moderna e contemporanea – almeno ritenendo esatta l’identificazione con questo straordinario edificio nei pressi appunto di Piazza Mattei; perché a Roma, oltre a questo, esistono altri notevoli Palazzi Mattei. La descrizione di Angeli è però quasi fotografica, quando descrive un «cortile, adorno di bassorilievi, di frammenti, di busti e statue senza numero».
Tutta l’azione, si è scritto, si svolge nel corso di un anno. Ma quale anno? Nel libro sono disseminati indizi ma non è indicata una data certa: è citato The Oval Portrait di Edgar Allan Poe (1842, la prima traduzione italiana è coeva); a Roma sono insediati deputati e un Parlamento; si legge di una «ansiosa fine di secolo»; è citato l’’orribile’ piano regolatore, quello presumibilmente del 1873; al Teatro Costanzi – oggi Teatro dell’Opera – nell’anno di cui Angeli ci racconta viene rappresentata per la prima volta la Valkyria di Wagner: l’avvenimento della prima esecuzione a Roma delle quattro giornate del Der Ring des Nibelungen (La tetralogia de L’anello dei Nibelunghi è composta di un prologo, Das Rheingold – L’oro del Reno, e di tre giornate, Die Walküre – La valchiria, Siegfried – Sigfrido e Götterdämmerung – Crepuscolo degli dei) fu forse nel 1883; si accenna all’arrivo a Roma della principessa d’Irlanda – Vittoria di Sassonia-Coburgo-Gotha, detta Vicky – come futura imperatrice (lo sarebbe diventata nel 1888 quando il consorte Federico di Prussia successe al padre Guglielmo); il luogo per eccellenza in cui avvengono gli incontri mondani, i five o’ clock, i meets, le cene più intime, le feste più sontuose e dove i ricchi stranieri e le belle avventuriere, soprattutto americane, non possono fare a meno di scendere è il Grand Hotel, inaugurato nei pressi di Piazza Esedra da César Ritz l’11 gennaio 1894; infine sono gli anni in cui John Singer Sargent (1856-1925) e Giovanni Boldini (1842-1931) sono all’apice della notorietà.
Abbiamo accennato a tutti questi ‘indizi’ per dimostrare che non è possibile stabilire un anno certo; genericamente il romanzo è ambientato a fine Ottocento, in una Roma testimone di enormi novità: uno dei periodi più importanti della Roma contemporanea. Ma gli indizi citati servono anche ad illustrare a lettrici e lettori il contesto sociale in cui si colloca il romanzo: la vecchia aristocrazia romana che vede la città cambiare sotto i picconi del piano regolatore, che si va abituando ad una vita mondana che prevede le ‘prime’ al Costanzi, i tè delle cinque, le visite – tutt’altro che religiosamente sentite – alla grandi basiliche per il rito del Venerdì santo, che si trova a contatto, un po’ malvolentieri ad onor del vero, con un mondo cosmopolita di avventurieri, di personaggi del bel mondo più o meno inserito nell’Almanacco di Ghota e che arriva a giudicare tutta questa effimera comunità straniera, soprattutto russa, come un’orda d’oro, nella quale rifulge la ricchezza ma che indubbiamente snatura la città con una presenza incapace di leggere la straordinarietà e la bellezza della città che li ospita. È chiamata Orda d’Oro quel movimento di conquista che, a partire da Gengis Khān (1162-1227), portò l’Impero mongolo dalle steppe dell’est fino all’Ungheria e a Costantinopoli.
«Ogni anno la società romana era commossa o interessata da qualcuno di quei principi slavi, discesi dalle loro steppe e spinti a traverso l’Europa, come da una avidità di godimento e di lusso.
Essi avevano nelle loro vene qualche ultima traccia del sangue di quei mongoli che avevano abbeverato i loro cavalli nelle acque del Volga e della Moscova; essi portavano nella vita occidentale quel tanto d’asiatico che i barbari dell’orda d’oro avevano trasmesso loro come indelebile eredità; essi cercavano di sfogare tutto l’ardore contenuto da lunghi secoli di vita russa e di compiere in pieno sole le gesta barbariche e voluttuose, che i loro padri lontani avevano commesso sotto le tende di pelle o nelle case smaglianti di Bukara o di Samarcanda. Quei senza terra, che il loro paese non avrebbe sopportato, quell’irregolari, che i loro concittadini non volevano ricevere, formavano come una legione sterminata e da Montecarlo a Roma, da Vienna a Parigi, dove il danaro poteva tutto permettersi e dove la società cosmopolita poteva tutto accettare, scintillavano come meteore, per poi sparire nel buio senza lasciare nessuna traccia alla loro vita.»
Buona lettura e buon viaggio a Roma!
Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS
Dall’incipit del libro:
Egli gettò da un lato il cartoncino che aveva letto con occhio distratto, deciso a non accettare l’invito del nuovo ambasciatore di Russia. Quelle poche frasi usuali avevano evocato la visione dell’immutabile ricevimento: il barone Osimov, rigido nella sua uniforme a ricami d’argento, fermo nella prima stanza dell’Ambasciata, con a fianco quella povera baronessa troppo grassa, troppo coperta di brutti gioielli e di penne e di fiori, mentre il cerimoniere di servizio presentava ad uno ad uno gl’invitati, di cui spesso non conosceva nè meno il nome. Poi nei salotti piccoli e poco eleganti le solite signore che era abituato a vedere tutti i giorni, una quantità di uomini coperti d’oro e di decorazioni, le medesime frasi ripetute col medesimo sorriso, la lunga tavola del buffet dove si affollava una moltitudine di ignoti e le inevitabili presentazioni e gl’inevitabili inviti. Dunque non sarebbe andato al ricevimento. Voleva godersi per qualche settimana la libertà del ritorno, il piacere della solitudine, la gioia di errare per le vie di Roma senza la preoccupazione di dover correre al five o’ clock di Miss Duncombe, al pranzo della contessa Rovella, alla serata della principessa Voronew. Era tornato il giorno innanzi da uno dei soliti viaggi estivi nella Svizzera e in Germania.
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