Lo specifico del dottor Menghi
di
Italo Svevo
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La seduta della Società Medica stava per essere chiusa quando il dottor Galli, un socio che per invincibile timidezza non prendeva mai la parola, si alzò e informò l’assemblea che il dottor Menghi, al suo letto di morte, l’aveva pregato di leggere alla Società una sua memoria su un nuovo siero da lui scoperto. — Mi pare si tratti di un nuovo siero! — si corresse il dottor Galli dubbioso.
I medici più giovani gridarono subito: — Si legga, si legga!…
La quiete che mi deriva da tali idee mi fa riconoscere volentieri che io vi diedi talvolta motivo a dubitare di me. Molti anni or sono, con precipitazione giovanile io proclamai la mia scoperta di un siero atto a ridare istantaneamente ad un organismo vizzo la prisca gioventù. Fu poi provato che la gioventù data da me durava troppo poco ed un mio avversario cui non serbo rancore per quanto m’abbia ferito con tanta malizia, asserì che la mia gioventù non era altro che una corsa pazza alla vecchiaia. Lo riconobbero tutti però: io avevo scoperto uno stimolante incomparabile superiore a tutti quelli finora in uso. Nella mia superbia sdegnai di vantarmene: non era un risultato adeguato allo sforzo per fermare la gioventù, di scoprire uno stimolante anche esso di applicazione limitata perché non assimilabile che da organismi dotati ancora di piena vitalità. Ne parlo perché oggi io amo quella mia bella scoperta che abbreviava la vita ma la rendeva intensa mentre la scoperta di cui ho da parlarvi e che raggiunse il suo scopo mi fa ribrezzo. Parlo della prima anche perché ha relazione diretta con l’argomento per cui scrissi questa memoria. E non è per difendermi ma per schiarire che io neghi che il mio avversario abbia avuto ragione asserendo che il mio specifico meritasse la definizione di alcole Menghi. Il mio specifico è toto genere differente dall’alcole. L’alcole rallenta il ricambio della materia; il mio lo precipita, ed è così che, mentre l’alcole impaccia il lavoro del cuore fino ad esaurirlo, il mio specifico la facilita tanto che l’organismo intero vi soggiace. Notate: l’organo che è la sorgente della mia vita non trovando ostacoli in un organismo tutto vitale esorbita e uccide. Il dottor Clementi mi aiutò a costruire tale teoria che seppelliva la mia scoperta; anzi – lo riconosco volentieri – le parole sono tutte sue. E questa teoria, anzi queste parole, dovevano condurmi diritto diritto all’antidoto dell’alcole Menghi. Il mio nuovo siero fu immaginato perciò prima teoricamente e adesso dopo le varie esperienze che ne feci non ho nulla da mutare alla sua teoria. Mai pensai di aver trovato la pietra filosofale, la vita eterna; io dovevo arrivare ad un’economia delle forze vitali per la quale la vita fosse allungata incommensurabilmente. E mi sarebbe bastato! Mi sarebbe bastato di poter dire all’artista e allo scienziato: Ecco! La vita non è breve più neppure per voi!
L’assemblea di scienziati cui mi dirigo difficilmente potrà comprendere come io abbia potuto rinunziare alla gloria. Oh! Ve ne prego: Ammettete per un istante che uno degli inventori dei terribili esplosivi moderni avesse esitato di comunicare alla nostra umanità immatura la sua invenzione, lo comprendereste voi? Da me, poi, questo scrupolo fu aggravato da una promessa fatta alla persona più cara ch’io m’abbia avuta e cioè al suo letto di morte. Letta questa memoria comprenderete certo l’importanza della scoperta e dei miei studi e nello stesso tempo la ragionevolezza dei miei scrupoli.
Vado indagando che cosa io vi possa dire della mia scoperta tanto da rendervi possibile seguirmi negli esperimenti che vi descriverò minutamente e non tanto da rivelarvela. Lo specifico – l’avrete già immaginato – appartiene all’organoterapia. Lo conquistai da un animale longevo per eccellenza. Non pensate a certi pesci d’acqua dolce la cui vita – come si constatò in certi parchi – dura oltre tre secoli. Io trovai quale fosse l’animale più longevo con la semplice osservazione del suo metodo di vita, del suo modo di moversi, di guardare e specialmente di attaccare e difendersi. Fu sempre l’alcole Menghi che mi fornì gli elementi ad un’osservazione tanto sicura. Gli animali e le persone cui fu iniettato quell’abbreviatore di vita hanno i movimenti rapidi anzi violenti. Non sanno prendere ma afferrano, non sanno lasciare ma gettano. Hanno inoltre la veglia e il sonno intensi e brevi. La loro giornata conta, anziché ventiquattr’ore, dodici e anche meno. L’animale longevo di cui parlo ha la giornata di un anno (io so dove correte col pensiero ma v’ingannate), i suoi movimenti sono lenti, sicuri e misurati.
Se anche indovinaste di quale animale si tratti, non trovereste mai più quale suo organo mi diede il siero di cui abbisognavo. C’è un mitigatore nel nostro organismo! È ammirabile come i casi della vita s’adattino a servire l’uomo operoso. Quando pensai la teoria dell’antidoto all’alcole Menghi ricordai un’esperienza di vivisettore di cui, assistendovi, non avevo compreso subito la portata. Ripetei subito l’operazione e non ebbi più dubbii. Allontanato quel dato organo la vitalità dell’animale si esacerbava come per effetto dell’alcole Menghi. Feci poi un’esperienza che confermò luminosamente la mia idea. Privai di quell’organo quell’animale e l’avvelenai con della morfina. Esso resistette all’azione del veleno molto meglio che non un animale cui l’operazione non era stata praticata. E si capisce: L’organo mitigatore è cieco come tutti gli altri nostri organi ed il suo lavoro – benefico finché è circondato da organi vitali – diventa abbreviatore di vita quando questa vitalità sta per spegnersi. Per quanto indebolito esso arresta l’impulso che sarebbe stato sufficiente appena appena. La mia scoperta era fatta o, meglio, il mio lavoro era terminato. Il resto doveva essere abbandonato alle funzioni più occulte della natura. Se la mia Annina (chiamai così il mio siero in onore di mia madre) agiva come tiroidina e l’ovarina che vanno nel sangue e operano all’origine senz’aver bisogno di passare per l’organo alla cui insufficienza suppliscono, allora il mio moderatore probabilmente non avrebbe impedito lo sforzo e così, solo così, sarebbe risultata l’economia vitale che io cercavo.
Trovo fra le mie carte il bollettino su cui registrai la mia scoperta. Porta la data del cinque Maggio. Io non sono superstizioso ma la coincidenza di date è pur strana: Il cinque Maggio è una data che si chiama Napoleone, l’uomo il cui polso batteva all’unisono con l’orologio. Il ricordo del grande dalle sessanta pulsazioni normali mi diede una speranza che mi rese addirittura malato. Se oltre che all’allungamento della vita io giungessi a qualche cosa d’altro e di più alto ancora.
Le prove mi costarono molto e il mio piccolo bilancio ne fu dissestato. I miei studii mi avevano impedito di dedicarmi assiduamente alla mia pratica e poi i clienti più ricchi m’avevano abbandonato dopo l’insuccesso dell’alcole Menghi che da alcuni dei miei confratelli era stato presentato addirittura quale ciurmeria di un pazzo. Le mie difficoltà m’indussero a confidarmi a mia madre.
Mia madre! Io non so se qualcuno di voi abbia conosciuta mia madre. Questo so: Se uno di voi l’ha mai vista e sia pure per pochi istanti, non l’avrà dimenticata giammai. La persona alta, diritta, occhio nerissimo dolce e imperioso nello stesso tempo, la carnagione giovanile in contrasto con la chioma bianca del tutto, ma bianca candida, come di neve giovine.
Scusate se vi parlo di mia madre ma, come vedrete, essa appartiene al mio argomento. Se essa non fosse stata in vita allora, forse a quest’ora il potente farmaco da me inventato sarebbe nelle mani di tutti.
Mio padre tenne per lunghi anni a Venezia un negozio di droghe molto importante. A trentacinque anni, circa un lustro dopo di esser sposato s’era dato alla malavita. Ebbe delle donne, giuocò e – credo ma non lo so di certo – si diede al vizio del bere.
Per fortuna mia madre subito s’accorse del suo mutamento. Con l’energia ch’io le conobbi sempre nelle piccole e nelle grandi cose ma che allora nessuno avrebbe sospettata in lei, essa, quando dovette abbandonare la speranza di ricondurlo sulla strada retta, non s’abbandonò a vane querimonie ma assunse la direzione degli affari del marito che glielo permise a patto gli si lasciasse del denaro e il tempo per goderne.
Finché egli visse fu una lotta di ogni giorno contro di lui prima di tutto che voleva sempre più denaro, e poi contro i creditori impazienti che da ogni parte reclamavano il loro avere, e contro i fornitori che non volevano più fare credito.
Quando mio padre morì di una pneumonite seguita al terzo giorno da esaurimento cardiaco (è solo da ciò ch’io arguisco ch’egli fosse dedito al bere perché mia madre non me lo confermò giammai) le cose migliorarono subito per quanto mia madre non volesse riconoscerlo e si proclamasse fino all’ultimo giorno della sua penosa esistenza quale la più infelice delle donne. Migliorarono in questo senso: Prima sulla faccia di mia madre era stata perennemente stampata un’incurabile tristezza e nello stesso tempo l’ambagia pel destino proprio, pel destino di lui (sì, anche di lui) e pel destino mio soprattutto. Morto mio padre la bella figura si eresse di nuovo per curvarsi solo nel singhiozzo frequente. Ed essa parlava continuamente del marito morto avendo dimenticato di lui i cinque o sei ultimi anni. A me insegnava ad onorarne la memoria ed anzi essa la lavava perché nei miei ricordi di fanciullo doveva essere rimasta impressa la sua fisionomia minacciosa di malcontento che esige, esige e non dà.
Queste qualità di mia madre vengono poste più in alto quando si apprende di quale intelligenza essa fosse dotata. Essa accumulò in commercio in breve tempo una piccola fortuna apprendendo da sé tutti quei complicati particolari che costituiscono la scienza commerciale. Io non credo accade di spesso che una donna non provveduta di certa cultura, abbia una facilità tale di comprendere tutto.
Fino all’epoca della decadenza morale di mio padre, mia madre non s’era occupata che della sua cara casetta ove aveva fatto da padrona e da serva. Poi oltre agli affari ebbe sempre da attendere anche alla casa.
Mi concesse il suo aiuto con una prontezza che mi meravigliò. Io che la conoscevo commerciante fino al midollo, calcolatrice come un banchiere, astuta e previdente, esitante e dubbiosa ad ogni decisione che potesse implicare la diminuzione di un utile oppure una piccola perdita, fui stupito e commosso di vederla accogliere immediatamente la mia proposta. Aveva fatti rapidamente i suoi calcoli: Poteva concedermi per tre anni un sussidio mensile di mille lire, proprio l’importo che avevo domandato. Concluse dicendomi con una carezza: — Alla peggio mi resterà tanto da aprire un’altra drogheria —. Eppure essa allora s’era già convinta ch’io non cercavo il mio siero per farne – come essa da prima aveva creduto – una speculazione commerciale.
Né a me né a lei la probabilità di dover riaprire una drogheria parve una minaccia grave. Avevo indovinato da lungo tempo ch’essa soffriva di essere stata privata dell’attività cui aveva dedicato tanta parte di se stessa e nella quale aveva trovate non piccole soddisfazioni. Prima non aveva conosciuto che agitazione e stanchezza, ora invece soffriva oltre che di agitazione e di stanchezza anche di noia. Dirigere una casa e comandare ad una serva era ben poco per chi come mia madre aveva diretta un’azienda e comandato a due o tre impiegati e a varii facchini. La casa era tanto accuratamente sorvegliata che finì coll’avere un solo difetto: Vi si parlava troppo di ordine. Chi ci vendeva la carne o gli erbaggi doveva stare bene all’erta perché tutto quello che veniva in casa era pesato, esaminato, cribrato e mamma aveva trovato il modo di lavorare altrettanto nella piccola casetta quanto nella grande azienda.
Di mia madre devo dire ancora ch’essa era una grande egoista di un egoismo in cui comprendeva me solo. Ricordo a questo proposito ch’essa non carezzò giammai i figli degli altri com’essa diceva. Non li amava e, in grazia mia, tollerava qualcuno nella nostra retrobottega; ma l’antipatia sua trapelava tanto chiara che ben presto tutti m’abbandonarono e mi lasciarono goder solo la retrobottega e la merendina del pomeriggio. Ai suoi clienti essa riservava sorrisi e parole cortesi in cui io che la conoscevo di lei tutt’altri sorrisi e tutt’altre parole, sentivo la falsità. Quando essa credette di dover ingiungermi il sacrificio di rinunziare alla mia gloria, al risultato già ottenuto di tanti miei studi in favore degli altri ch’essa non amava, io dovetti obbedire perché le ragioni che la inducevano a tale domanda dovevano essere ben forti.
Dal giorno in cui chiesi il suo soccorso, essa domandò di poter lavorare con me. Erano molti anni che non si lavorava insieme. Essa m’aveva insegnato a leggere nel suo mezzà e la ricordo pronta di venire ad aiutarmi e ad insegnarmi per poi abbandonarmi e correre ai suoi affari. Questo metodo ebbe delle conseguenze non so se buone o cattive pel mio avvenire. Io credo mi sia derivato da esso una bramosia febbrile di mutare ogni mia idea in un’azione, bramosia che può talvolta spingermi a comunicazioni premature ma che all’incontro mi spinge a precisare sinteticamente le idee mentre altri perde tempo in errori e illusioni. Capisco che nel laboratorio l’idea si realizza immediatamente ma in una forma non precisa. Io ammetto una somiglianza fra l’animale evoluto e il non evoluto ma non ne ammetto l’identità. Bastano le esperienze fatte con l’Annina per stabilirne la diversità.
Quando mamma cominciò a lavorare con me in laboratorio la mia scoperta era già perfetta. Non si trattava più che di produrre una quantità sufficiente di Annina per procedere a esperimenti seguiti. La massima parte del nostro tempo fu impiegata a discussioni sulla teoria che ne risultò più chiara.
Essa capì presto e bene. Vero è che per farmi intendere meglio usavo meno possibile di termini scientifici anzi ricorrevo a un linguaggio che la scienza rifiuta.
La vita animale è comparabile all’ebollizione di una caldaia d’acqua posta su un focolare di cui il combustibile sia limitato. Quest’ebollizione può finire perché il combustibile vada ad esaurirsi o perché l’acqua a forza di bollire svampisca. Nel primo caso si avrebbe una morte per esaurimento; nel secondo per abbruciamento. Ora è evidente che la vita animale è assicurata da un eccesso di calore; voglio dire che l’equilibrio fra l’acqua e il fuoco non è perfetto e che la vita potrebbe durare di più se l’ebollizione potesse essere diminuita. Per esempio è evidente che il calore emanato dal nostro corpo è una perdita; quanta parte di questa perdita è necessaria per proteggere la nostra periferia? Per essere più precisi: È noto che impiegando utilmente la forza manifestata (e perciò perduta) dal cuore in ventiquattr’ore si potrebbero sollevare chilogrammi quattromila a un metro d’altezza. È un eccesso! Quanta parte di questa forza è necessaria per alimentare la nostra vita e quanta parte va perduta o risulta dannosa? L’avvenire della scienza igienica è tutto nella soluzione di tale problema. Io intanto so che questa forza è eccessiva e lo so prima di tutto pel fatto che molti individui di cui il calore manifesto era inferiore, si dimostrarono più forti di quelli dalle pulsazioni affrettate e dal calore trapelante da ogni poro. La forza latente è la sola forza; quella che si può percepire coi nostri sensi o misurare coi nostri istrumenti è la perdita della forza. E avete osservato come il cervello funzioni egregiamente in individui il cui cuore abbia declinato? Io ho constatato delle menti lucide anzi acute in persone il cui polso non si poteva più contare per la sua debolezza e velocità.
Io mi abbandonai tutto al piacere di far sentire a mia madre la grandezza e l’originalità della mia idea. Non avevo oramai che da dire una parola e mamma pensava il mio pensiero. Avevo bisogno di una tale collaborazione! Di solito quando lavoro mi lascio andare spesso alle mie fantasticherie. Mi arresto a contemplare le ultime conseguenze delle mie idee, le accarezzo, ne ammiro il futuro successo e oblio il lavoro necessario per realizzarle. Con mia madre ciò non era possibile. Essa portava seco in laboratorio i sistemi che tanto le avevano giovato negli affari.
L’Annina nella sua forma più pura, cioè quale un siero tratto direttamente dall’organo moderatore dimostrò di essere un veleno di una potenza incomparabile. Con un decigrammo nel sangue si uccideva un cane giovine e forte in quaranta secondi. Dapprima mia madre non voleva credere si trattasse di una morte reale. Accarezzava il cane per farlo tornare in sé. Poi, convinta, piegata ancora sul corpo dell’animale, pallida, pallida, mi domandò — Tu non volevi questo?
La rassicurai dicendole che il caso era stato previsto. Il siero di cui avevo a servirmi doveva essere ben altrimenti elaborato di questo. Essa rimase commossa e per lungo tempo dubbiosa.
Ciò mi spinse ad un lavoro febbrile per toglierle al più presto tale dubbio. Preparai un coniglio con iniezioni seguite per vani giorni di dosi minime di Annina. Ne raccolsi il sangue che, sterilizzato, considerai quale il siero voluto. Feci tutto questo lavoro alla chetichella per poter sorprendere mia madre e così la memoranda giornata del due Giugno cominciò per me con un trionfo come non ne ebbi altro in mia vita.
Svegliai mia madre alla mattina per presentarle il frutto del mio lavoro. Essa si vestì in un attimo e mi seguì al laboratorio ove poco dopo un coniglio ricevette la prima iniezione che fosse stata fatta con l’Annina. Lasciato libero l’animale mi volsi a mia madre e le dissi additandoglielo sorridendo: — Ecco il primo longevo.
Mia madre guardava invece la povera bestiola aspettandosi di vederla morire. Il fatto ch’essa invece visse fece restare ammirata mia madre. Ciò che non era altro che l’applicazione al mio siero di un processo inventato da altri destò in lei la maggior meraviglia che non la mia stessa idea originale. Solo in questo si manifestò in lei la mancanza di preparazione scientifica.
Il coniglio cui era stata praticata l’iniezione presentò varii fenomeni. Cessò di mangiare per molte ore e quando mangiò, confrontato con gli altri conigli in mezzo ai quali l’avevo posto, appariva meno vorace e più lento nei movimenti. Salvo quando si scuoteva, era evidentemente colto da una specie di stupefazione e mamma l’osservò tanto ch’ebbe una frase forte e caratteristica che allora mi piacque immensamente: — Pare sepolto nel suo corpo!
Passammo la giornata intera ad osservare il comportamento dell’animale. Io potei constatare in esso un altro sintomo chiaro, evidente dell’efficacia dell’Annina: La manifestazione più chiara di vitalità in un coniglio è lo sbalzo con cui si sottrae ad una mano che voglia afferrarlo. Il mio faceva un balzo formidabile quando era minacciato la prima volta; era invece incapace di farne un secondo se minacciato immediatamente una seconda volta. Cadeva subito nel menzionato stato di stupefazione e si lasciava afferrare trasalendo inerte.
La sera, in stanza da pranzo, continuammo a chiacchierare dell’Annina. Ma mentre mia madre sempre più s’infiammava di ammirazione e di gioia, io mi sentii colto da un deciso senso di sconforto.
Dove m’avrebbero condotto le esperienze sugli animali? Anche arrivando a constatare in essi quel mutamento di vita consono – secondo le mie teorie – al loro mutamento fisico, non mi sarei trovato avanzato di molto. No! Solo la constatazione di un mutamento di tutta la funzione vitale – mutamento che in gran parte doveva sfuggire alla verifica mediante istrumenti – poteva giovarmi. Non ebbi esitazioni! Quella stessa sera avrei iniettato l’Annina nel mio proprio sangue. Rinacque in me la più viva speranza.
L’osservazione soggettiva non ha molti esempi in medicina ma ne ha tuttavia e dei più strani. Intanto il celebre medico napoletano che, affetto di nefrite, preconizzò per primo la cura lattea, ne intuì il benefico effetto dapprima soggettivamente e lo constatò poscia oggettivamente verificando la diminuzione dell’albuminuria. Tanto più l’esperimento soggettivo doveva dare un esito concludente qui ove si trattava di verificare un’intensità di vita che secondo me doveva diminuire prima di tutto nella vivacità del senso e del sentimento. Perché se l’Annina si dimostrava efficace come io speravo doveva diminuire quello che io chiamo l’attrito. Ora quale è il maggiore nostro attrito, quello che sperpera le nostre forze senza che noi ce ne accorgiamo? I nostri organi di percezione talvolta non bastano – lo riconosco – ma per lo più peccano per troppa sensibilità. Quante volte non vengono lesi dal suono e dalla luce? Dei sentimenti poi non parlo. Le gioie eccessive e gli eccessivi patemi d’animo decimano l’umanità.
Mamma parlava ora di cose di casa ed io non l’ascoltavo tutto immerso nel mio pensiero e agitato dalla ferrea decisione fatta.
Anticipai col pensiero l’effetto che avrebbe prodotto in me l’Annina. Pensai che l’Annina dovesse divenire il farmaco degl’intellettuali e non dei manuali. Ho già detto quello ch’io penso della necessità di un cuore manifestamente forte per il funzionamento del cervello. Soggiungo anzi che se l’uomo morente non sa comporre un poema o fare una scoperta, ciò dipende dal fatto che il cervello viene frastornato dagli altri organi i quali non vedendo arrivare il cibo ch’è loro indispensabile, soffrono e chiamano aiuto.
Poco dopo, chiusomi nella mia stanza, mi praticai un’iniezione di Annina. Ne adoperai una dose molto maggiore di quella usata pel coniglio che non mi parve abbastanza anninizzato. Devo confessarlo: Mettendo il liquido nel tubetto mi tremava la mano e il cuore mi batteva. Qualche cosa di simile deve aver provato quel coraggioso inventore che fece passare attraverso il suo corpo duemila volts di forza per provare l’innocuità della corrente alternata. Avrei forse agito più prudentemente rimandando l’esperimento al giorno seguente e notando nel frattempo la mia scoperta perché fosse sperimentata ulteriormente da qualche mio collega. Ma non seppi attendere. Presi un foglio di carta, lo posi sul tavolo da notte assieme ad una matita per fissare subito sulla carta le osservazioni fatte. Ho conservato quella carta e la trascrivo qui:
2 Giugno ore 10 ¼. L’iniezione è stata fatta. Una calma assoluta è nel mio organismo. Il mio polso è di 84 e si capisce. Mi stenderò subito sul letto per provare la mia temperatura. Il punto del braccio ove praticai l’iniezione mi brucia. L’assorbimento del siero procede lentamente. Ricordo che dopo l’assorbimento totale del siero il contegno del coniglio non ne accusò un effetto che oltre 10 m. dopo.
Ore 10 e 35 m. Sotto la cute non c’è più alcun residuo di siero. La mia temperatura è di 37 e 2. Mi sento agitato. Posso contare il battito del cuore nell’orecchio poggiato sul guanciale e arrivo a stabilire ch’è sincrono al polso. Una vera perturbazione nel circolo è esclusa.
Ore 10 e 40. Ho paura di perdere i sensi. Nel mio organismo scoppiò un temporale che mi pare vada ancora aumentando. Cominciò con un rumore assordante nelle orecchie, tale che mi parve esterno. Fu uno scoppio dapprima come se la pressione dell’aria all’esterno avesse fatto scoppiare di un sol colpo le otto lastre della mia stanza. E adesso continua assordante e minaccioso come se qualche cosa di macchinoso enorme s’avvicinasse, s’avvicinasse. Per capire che tutto quel frastuono è in me e non fuori di me mi basta di guardare la fiamma di gas accanto al mio letto la quale si riflette immota nello specchio di faccia. Ricordo con terrore la dose enorme di Annina che mi sono iniettata. Mi faccio dei rimproveri con mente lucidissima. Il professor Arrigoni aveva ragione di dire ch’io ero tale un geometra ch’ero capace di misurare un abisso in pochi istanti ma saltandoci dentro. Cesso di scrivere perché non reggo più. Che avessi la febbre? Voglio provare.
3 Giugno ore 9 ant. Non arrivai a provare il polso. Ora ammonta a 66; 18 pulsazioni meno di iersera. Rileggo la descrizione fatta del malessere da cui fui colto iersera. Come è imperfetta! Ma come completarla? La scienza medica è tanto povera di termini per esprimere delle impressioni soggettive! Il mio malessere andò talmente aumentando che finii coll’abbandonare la matita, mi stesi sul letto e perdetti i sensi. Ricordo che prima mormorai: Collasso! Infatti se un mio collega m’avesse visto allora, avrebbe detto così. Le mie labbra non trattenevano più la saliva che mi pioveva sulle guancie e m’accorsi che la mia respirazione era corta, precipitosa. La stanza m’appariva buia del tutto; sulla mia retina si rifletteva soltanto una piastrina gialla, la fiamma del gas, da cui non irradiava alcuna luce e penso che devo averla fissata continuamente perché ancora adesso ritrovo stampata in me la povera, misera cosa, così come era allora, fredda e piccola, l’unico mio punto di contatto col mondo esterno. Morivo! Laggiù, le mie gambe che mi parevano lontano, ben fuori dal letto, pesavano enormemente. Non ricordo altro! Questa mane mi accorsi che io debbo essere passato per una crisi di delirio perché le coperte ed il guanciale erano state smosse violentemente. Io non sono meravigliato di questo primo effetto dell’Annina. In certi organismi persino il primo effetto della morfina è violento. Pare che prima di adagiarsi all’effetto del farmaco l’organismo insorga. Quando ritornai in me ero mutato del tutto. Pareva fossi uscito da una crisi benigna di pneumonite; l’euforia era assoluta. Polmone e cuore dovevano lavorare perfettamente. Non sentivo né il mio respiro, né percepivo il battito del mio cuore. Sentivo ancora un certo peso alle gambe e mi parevano sempre lontane. Ciò significava senz’altro un indebolimento del senso. Debbo aver sorriso dalla soddisfazione di aver pensato tanto esattamente. Le mie previsioni si avveravano; il cervello sentiva meno degli altri organi l’effetto dell’Annina. Fu con isforzo che toccai con una mano i piedi nudi. Erano caldi ma subito pensai che con quell’atto non avevo fatto altro che verificare la differenza di temperatura fra le due estremità. Cercai il termometro che doveva trovarsi nel letto stesso e mi ferii la mano su una scheggia di vetro certo proveniente dall’istrumento che doveva essere andato in pezzi durante la crisi. Mi dispiacque; ma era poi certo che se l’avessi trovato intero ne avrei usato? E stetti immoto senza fare alcuno sforzo per liberare il mio letto dalle altre schegge di vetro che dovevano trovarvisi. Mi baloccai per lungo tempo immobile con le mie idee. Pensai: Dovrei notare subito le mie osservazioni. Ero certo che avrei potuto balzare dal letto e correre a fare le mie annotazioni. Ma non mi mossi. Il pensiero rimase alle annotazioni e m’indugiai a pensare quello che avrei scritto se avessi scritto. Intanto avrei guardato l’orologio per stabilire quanto tempo avesse durato la mia incoscienza. Non lo guardai e mi limitai di constatare che la notte era alta. Sarebbe bastato che alzassi la testa oltre il tavolo di notte per vedere l’orologio ma io non feci un tale sforzo. Restai supino lieto di veder confermata una delle speranze poste nella mia Annina: Io non correvo disordinatamente all’azione e mi compiacqui all’idea che oramai io potevo misurare un abisso senza gettarmivi dentro. L’avrei poi misurato? Il pensiero delle annotazioni continuò a perseguitarmi e senz’alcuna idea di giungere a prendere la matita in mano analizzai i miei sensi. L’orecchio mi parve senz’altro indebolito. Esso sentiva debolmente i rumori che io producevo movendomi nel letto. Passai ad analizzare la mia forza visiva. Mentre al momento di svenire avevo visto la fiamma di gas quale un pezzetto di metallo lucido, ora scorgevo perfettamente che la fiamma era una fiamma ma pure mi parve non illuminasse a sufficienza la stanza. Guardando bene io vedevo un’irradiazione che si prolungava per pochi centimetri intorno alla fiamma aperta, ma non pareva che tutta la stanza fosse illuminata. Nello specchio la fiamma si rifletteva attenuata di poco. Guardai meglio e nell’immagine della fiamma nello specchio scopersi un lieve color azzurrognolo proveniente senza dubbio dalla lastra in cui si rifletteva. Stanco dello sforzo, chiusi gli occhi e m’adagiai. Oh! L’effetto dell’Annina superava ogni mia più ardita speranza! Lo sforzo che costava la percezione di un oggetto era largamente compensato dalla finezza della visione. Io potevo analizzare la più lieve sfumatura di colore. Fino ad allora una fiamma di gas era stata per me gialla con qualche riflesso rosso e azzurra alla base; stupidamente gialla insomma. Ora vedevo che non era così e scoprivo nella fiamma le gradazioni più varie di quei varii toni. Quella fiamma parlava! Rizzai un po’ il collo e fissai nell’oscurità tentando di vedere l’armadio che doveva trovarsi accanto allo specchio. Non subito percepii l’oggetto ma come per mia volontà il mio sguardo divenne più intenso, così l’oggetto – come se io l’avessi chiamato – uscì dalla penombra. L’armadio era una cassa antica, massiccia, barocca, d’epoca pessima, il suo lustro sbiadito, ai fianchi due colonnine pretensiose dai cui fastigi pendevano dei grappoli d’uva. Io non l’avevo mai visto così ed essendo un oggetto che avevo avuto accanto dalla mia prima infanzia fui stupito di scorgerlo sorprendentemente strano. Per la prima volta vidi in esso lo sforzo di linee fatto dal poco destro artista la cui arte barocca era stata resa meno ridicola dall’antichità. Io non ho natura di pittore, tutt’altro, e fui sorpreso dalla delicatezza e finezza del mio occhio. Come tutti gli oggetti sono belli se visti con una forza che superi almeno quella di chi li guarda per moversi fra di loro! Per quanto fosse la prima volta ch’io ricordassi d’aver guardato con tale occhio quell’armadio pure nella visione attuale s’addensarono tutte le visioni ch’io di quell’armadio avevo avuto dalla mia prima giovinezza. E lo rividi sempre fosco e oscuro quando abitava una stanza mai rischiarata nella nostra prima abitazione a Venezia; una sola finestra cui il sole non arrivava mai causa la stretta Calle su cui guardava. Mastodontico armadio che ricettava allora serio, serio i miei primi vestitini corti. Dentro c’era un forte odore di lavanda che mamma amava molto. Più di una volta lo vidi all’aperto su una grande peatta, dall’aspetto più malandato del solito, varie uve spezzate nei suoi grappoli. Ci mancavano ancora quelle uve ma le ferite di legno giallo apparivano allora in confronto al resto dell’armadio quasi sanguinanti. Non s’erano chiuse ma il tempo aveva intonato il colore anche su di esse. Riposai di nuovo dello sforzo mentre il pensiero non cercava riposo. Tutto quello ch’io avevo sospettato s’avverava: La vita diminuita era capace di concentrarsi meglio in certe direzioni. I fisiologi di un secolo fa dicevano: Metà e più del corpo umano è morta. Io forse aumentavo la parte morta ma intensificavo la vita della parte viva. Persino le mie gambe divenivano più vive se io volevo. La sensibilità mia laggiù era tanto diminuita ch’io non sentivo di avere i piedi nudi né percepivo se poggiassero sulla lana della coperta o sul lino delle lenzuola. Rivolgendo la mia attenzione colà, la sensibilità improvvisamente aumentò e senza guardare, dalla sola sensazione sentii chiaramente la dolcezza della soffice lana. Intanto venne l’alba. La finestra ch’era posta alla parete più lontana da me si fece viva, dapprima discreta, discreta, come se bussasse per poter entrare. Presto divenne la cosa più importante della stanza. Com’era bella, svegliatasi così sotto le tendine rosee. Stanco, cercai il riposo e l’ultima mia impressione visiva fu di nuovo l’armadio che aveva viste tante albe senza essere stato mai osservato tanto intensamente. Subiva ora una luce antipatica, corrotta dal giallo della fiamma a gas. Poi a me parve di non arrivare ad addormentarmi. Il mio cervello continuava a lavorare e non ripeteva soltanto le immagini ch’io avevo avute nella veglia ma creava. Mi trovai così di aver pensati i futuri esperimenti ch’io dovevo fare. Dapprima dovevo vedere se l’Annina nel nostro organismo si sommasse e se fosse stato possibile d’intraprendere delle cure a dosi minime giornaliere nelle quali la dosatura sarebbe risultata da sé con la più semplice osservazione. Poi dovevo indagare se usando il nostro organismo all’Annina risultasse un’abitudine e se quest’abitudine eliminasse la crisi o addirittura ogni effetto. Nello stesso tempo il pensiero a tanto lavoro che dovevo compiere mi faceva soffrire. Eppure dormivo. Non appena il mio pensiero s’animava io mi trovavo del tutto desto tanto era piccolo il passaggio; poi ricadevo in un torpore che non era altro che il sonno ma il sonno lungo, lungo, una mezza veglia; il sonno dell’animale cui avevo tratto l’Annina. Ed io che lo conoscevo, sentivo il desiderio del sonno più profondo, ristoratore e mi pareva che come mi vi avvicinavo qualche cosa o qualcuno me ne allontanasse. A quest’ora, seduto qui al tavolo io so che il tempo fa diminuire l’effetto dell’Annina. In undici ore constatai in me tre stadii. Il primo di cui non so la durata era stato contrassegnato dalla perdita totale dei sensi. Nel secondo ebbi la mente lucidissima ma i movimenti lenti e penosi; anzi lo caratterizzerò così: Niente percezione senza volere. Nel terzo, non ristorato dal sonno perché ad esso non arrivai mi ritrovai capace di un lavoro seguito quale è quest’annotazione. Nella notte intera deve aver persistito in me un offuscamento di coscienza. Tant’è vero che non m’ero fatto un rimorso di aver trascurato le annotazioni per le quali avevo corso tanto rischio. Forse da ciò mi risultò un disagio sordo un malcontento che mi guastò la notte meravigliosa tanto che guardando dietro di me mi appare sgradevole quale la notte di un infermo. Concludo: Per godere del riposo che dà l’Annina, bisogna non averla inventata.
Qui anche queste annotazioni tanto imperfette sono interrotte. Si picchiava con forza al mio uscio ed una voce profonda d’uomo echeggiava: — Ma, insomma, dormi o sei morto?
Aprii la porta ed entrò il dottor Clementi dalla cui faccia niente trapelava che avesse potuto far sospettare la gravità della notizia ch’egli mi apportava. Era affannato e irato perché, come poscia appresi, mi chiamava così da oltre mezz’ora. Io sono stato sempre un po’ distratto ma non tanto da non udire a pochi passi di distanza la voce stentorea nel dottor Clementi.
Visto che quando il pubblico conoscerà questa mia memoria io sarò morto, è da ritenersi che il dottor Clementi sarà allora da lungo tempo dimenticato. Non dico ciò perché egli sia più vecchio di me ma perché egli è un individuo ch’io chiamo un morituro. L’esuberanza sua di vita deve fargli percorrere ben presto la via che per altri, dotati di organi moderatori più potenti, è più lunga. Egli si scalda anzi si scalmana per tutto e per tutti. S’occupa anche di politica – a quanto mi dicono – e vi spreca un’attività enorme. Io lo conosco per aver lavorato per due anni quale suo secondario all’ospedale. Mi parve d’aver passato quei due anni interi sotto un ponte ferroviario su cui fossero corsi pazzamente, su e giù, dei treni sterminati. Com’è rumoroso quell’uomo! Intanto per lui ogni suo malato è una sua propria, strana avventura che tocca solo a lui, e ne parla, ne parla, ne parla. Ammetto che sia capacissimo quale medico (ed è perciò che gli affidai mia madre) ma solo per troppa esuberanza di vita, egli prende, veh!, dei granchi. Quando vede l’ammalato il primo giorno, comincia subito a diagnosticare e diagnostica il secondo, il terzo e il quarto giorno finché l’ammalato guarisce o muore. E anche dopo egli diagnostica e studia e almanacca e assiste alle sezioni cadaveriche. Se la sua diagnosi era giusta egli ne parla tanto che pare ne sia più sorpreso di tutti. Se era fallata la racconta tuttavia ad amici e nemici che lo deridono per questi suoi difetti e più ancora per la sua precipitazione di parola per cui è sempre costretto ad usare di frasi che si ripetono: — Faccio un passo indietro… — e poi: — Riassumendo… ma devo prima spiegarvi… — e così via. Si può dire di lui che non è un fanfarone solo perché è uno scienziato. Quando entra in una casa quale consulente, il medico di casa trema. Il dottor Clementi non intende certo di far del male a nessuno ma visto che ogni malato per lui ha tre malattie almeno, è difficile che il medico di casa abbia parlato di tutt’e tre.
Io trasalii vedendolo entrare in camera mia quella mattina a quell’ora. Il mio primo pensiero fu questo: La provvidenza m’invia la persona che più di tutti abbisogna di Annina. E pensai di raccontargli della mia scoperta e di pregarlo di farne una prova su lui. Contemporaneamente ebbi varie idee. Fra altre quella di provare l’Annina su un pazzo agitato, la prova sarebbe stata più concludente che sul dottor Clementi… ma di poco.
Il dottore non mi lasciò parlare. Con uno sforzo che dovette costargli parecchio, soppresse l’ira provata per non avergli io risposto più presto. Prese un’aria di commiserazione che non presagiva niente di buono. Pareva tentasse di consolarmi prima di darmi una cattiva nuova. La piccola figurina nervosa s’appoggiava quasi su di me. Aveva alzate le braccia e poggiate le mani sulle mie spalle per segnare un abbraccio che causa la differenza di statura non era possibile.
— Tu non sai nulla dunque? Hai un sonno tu! — e mi guardò con invidia.
Sorrisi ricordando ch’egli dormiva bensì intensamente ma non più di sei ore per notte e pensai: Troverò ben io il modo d’allungarti il sonno!
Come poté poi avvenire che restassi sempre alla mia idea apprendendo che circa un’ora prima mia madre era caduta per terra con un grido acuto di dolore e di spavento e che il dottor Clementi accorso parlava di aneurisma passivo dandomi delle speranze ch’egli evidentemente non divideva? Ma io non caddi svenuto io stesso né mi slanciai alla stanza di mia madre pieno di dolore e di speranza a porre il mio orecchio medico, reso più acuto dall’affetto filiale, sul petto materno a ricercare se l’orribile squarciatura fosse realmente avvenuta. No! Mia madre e il suo e il mio affetto erano dimenticati del tutto ed io non ricordavo altro che quel cuore colpito da esuberanza di vita.
Mi volsi alla cameriera che aveva accompagnato il dottore alla mia stanza e che s’era arrestata alla porta in attesa di ordini: — Mia madre s’è adirata con qualcuno questa mane?
La cameriera confermò: Il macellaio ubriaco già a quell’ora, a certi rimproveri di mia madre aveva risposto con impertinenza e mia madre s’era agitata fortemente. Mezz’ora più tardi era stata presa dall’attacco.
— A che serve — interloquì il dottor Clementi. — Tu sai bene che parlare di rottura spontanea del cuore è un modo di dire che manca di base scientifica. La rottura è sempre la conseguenza della degenerazione — Vedendomi impallidire aggiunse con una carezza paterna: — Non perdere il coraggio. Io piuttosto che fare una diagnosi ho sentito il pericolo — Poi ricordò che oltre che suo cliente ero suo collega. Non volle ammettere di poter sbagliarsi e si corresse con vivacità come se rispondesse a qualche oppositore anziché a se stesso: — Io dico che si tratta di una rottura di piccole dimensioni al ventricolo sinistro ma spero ancora di poter ingannarmi. E del resto parlerò al collega Walther. Si parla tanto in quest’epoca della possibilità di cucire il cuore…
Io conoscevo l’operazione orribile che non aveva avuto buon esito che una o due volte e non ammisi neppure per un momento la possibilità di permetterla. Quando entrai da mia madre il mio piano scientifico era fatto; la cura doveva consistere in iniezioni a dose lievissima di Annina ripetute giornalmente. Il mio contegno causa l’intima mia freddezza e l’idea che mi dominava tutto fu esitante tanto che mi meravigliai ch’essa non se ne accorgesse. Non piansi. Celai i miei aridi occhi con la mano e mi lasciai cadere ginocchioni accanto al letto.
Essa alzò lentamente il braccio e, restando supina, mi porse la mano che baciai. — Io muoio, figlio mio! — mormorò.
— No! No! Madre mia! — urlai e una specie di singhiozzo m’interruppe. Appariva quale un singhiozzo ma io sapevo perfettamente che il mio respiro non era intralciato da altro che dalla speranza di salvare una vita con l’Annina.
Il caso di mia madre era tipico. Un grido, un solo grido ed essa – se io non intervenivo – correva precipitosamente alla morte. Se anche avessi dubitato della diagnosi del dottor Clementi, mi sarebbe toccato di convincermi al solo vedere mia madre. L’Annina era stata inventata in tempo. Io sapevo quale efficacia potesse avere il ghiaccio ch’era stato posto sul petto di mia madre. Ci voleva altro per domare quel cuore! Sta bene! Prima di rompersi era degenerato, ma perché era degenerato? Evidentemente perché prima che la pressione fosse arrivata a spezzarlo, era riuscita a degenerarlo. Era escluso che si trattasse di una degenerazione grassa. L’organismo di mia madre era tanto povero di adipe! Era la prima volta ch’io mi scoprissi più complicato ancora dello stesso Clementi.
Singhiozzavo sempre! Se avessi avuto un dolore sincero a quell’ora, sentendo singhiozzare anche mia madre, nel timore di danneggiarla con un’emozione troppo viva, avrei saputo fingere e quietarmi. Così invece continuai a singhiozzare finché il dottor Clementi che m’aveva seguito non si chinò su me e non mormorò al mio orecchio: — Collega! Volete dunque uccidere vostra madre?
Allora mi fu facile di quietarmi; abbracciai mia madre dicendole sorridendo che m’ero commosso tanto al sentirla dichiararsi prossima a morire.
Non v’è dubbio! L’Annina oscurava nel mio organismo il sentimento e il dolore. Non era stato previsto ch’essa avrebbe diminuito l’attrito? La mia vita ridotta dal potente moderatore non bastava che a tener lucido il mio cervello e a mala pena il sentimento di me e per me. Essendo io un individuo sano ma non dei più forti, ebbi sempre marcato nel mio organismo il carattere della rapida combustione. Ebbi sempre, cioè, le mani calde ed un’esuberanza di sentimento che mi faceva soffrire al solo veder soffrire una bestia. Invece ora mi mancava il dolore persino assistendo alla rappresentazione di quello che, vicino o lontano, era pure il mio destino. La previsione della morte esisteva allora in me soltanto quale la conclusione di un sillogismo… forse errato anche quello.
Eppure questa freddezza non era scompagnata da un sentimento di decadenza non dissimile da quello che deve avere chi s’abbrutisce in un vizio avvilente. Guardavo al mio passato d’altruismo come ad un’altezza irraggiungibile oramai per me. E pensavo: Peccato che ho preso l’Annina precisamente poche ore prima che mia madre ammalasse! Ricordo che assursi a mio giudice. Guardavo la faccia di mia madre oramai né dolce né fiera ma abbattuta tanto che si vedeva pronta a ricevere la maschera ippocratica e mi dicevo: Se un altro figlio fosse al tuo posto e se io ne indovinassi i sentimenti, che cosa gli direi? Risposi schiettamente a me stesso che gli avrei dato del cane! Sempre così: Cervello lucido e sentimento annebbiato.
Non appena restato solo con mia madre l’assalii subito. Dovevo trovare un modo di suggerirle la cura dell’Annina senz’agitarla di troppo. Cominciai col dirle ch’io stavo benissimo ad onta che la sera prima mi fossi fatta un’iniezione di Annina. Poi le raccontai tutte le mie avventure della notte ed essa le ascoltò con grande piacere. Mi parve che per istanti dimenticasse persino la sua terribile posizione. In conclusione mi disse: — Tu sei un eroe, tu!
Poi le parlai con cautela del suo male. Le dissi che c’era nel suo cuore una minaccia di rottura e ch’essa doveva badare di non commuoversi, di non agitarsi e di non fare dei movimenti bruschi. La minaccia di aneurisma sussisteva solo causa l’eccesso di vita in lei.
Avendo parlato a mia madre delle osservazioni fatte su me stesso di quella calma torbida che m’aveva tolto il sonno ma anche ogni agitazione essa capì subito dove andavo a parare. Mi guardò e con un sorriso reso triste dalla pallidezza del suo volto, mi disse: — Vorresti provare su di me la tua Annina? Oh! Fa pure! Ringrazio il cielo che giacché ho da essere malata, la mia malattia t’offra l’occasione di un’esperienza tanto decisiva!
Mentre scrivo il rimorso mi spreme le lagrime più cocenti; devo cessare ad ogni tratto di scrivere per sollevarmi liberamente nel pianto. Io non uccisi mia madre ma fu il solo caso che mi salvò da tanto delitto. Oggi io so con sicurezza quasi matematica che mia madre era condannata a morire in brevi ore. Clementi stesso mi confermò ch’egli m’aveva parlato dell’operazione solo per poter dire una parola di speranza. Ma io giuocai in modo indegno con la vita di mia madre. Il mio rimorso è aumentato dal fatto che io per riuscire meglio nel mio intento di indurla a provare l’Annina, l’ingannai. Non le dissi cioè della crisi violenta da cui io ero stato colto la sera. Forse essa ne sarebbe stata spaventata e avrebbe rifiutato il mio farmaco.
Le feci l’iniezione con mano sicura.
Potei osservare in mia madre l’effetto dell’Annina anche prima che la dose iniettatale fosse stata interamente assorbita. Il tratto più saliente nella sua povera faccia era stato costituito fin qui dall’irrequietezza dell’occhio. Quell’occhio divenuto tanto mite aveva fissato Clementi e poi me inquieto e supplice. Essa si acquietò subito in un’immobilità che sembrava volesse preludere al sonno.
Mentre essa s’acquietava io m’agitavo sempre più. Per quanto avessi attenuata la dose d’Annina essa poteva produrre una crisi. Se questa avesse assunte delle forme violente, essa avrebbe preceduto di poco la morte e la mia esperienza sarebbe stata finita. Mi batteva il cuore! Ma non ancora per mia madre.
Qui la mia esposizione diviene anche più monca che non sia stata finora. Il caso volle che quando nell’organismo di mia madre l’effetto dell’Annina fu evidente, il mio organismo se ne liberò del tutto e con la stessa violenza con cui vi era soggiaciuto. Fui preso dagli stessi sintomi: Un’agitazione che mi toglieva il respiro e nell’orecchio degli scoppii che parevano dovessero infrangermi il timpano. Dovetti abbandonare mia madre temendo di perdere i sensi. Uscii sulle punte dei piedi. Prima di chiudere l’uscio dietro di me potei accertarmi che mia madre non s’era accorta ch’io m’ero mosso.
Corsi al mio letto. La mia agitazione arrivò a un punto che sono convinto si avrebbe potuto assaltarmi, uccidermi e non mi sarei ribellato. Tanto ero intento a studiare la cosa importante che in me avveniva. Ma non perdetti i sensi. Sentii di traspirare come dopo un bagno caldo e l’agitazione perdette un po’ della sua violenza. Subito dopo mi sentii pervaso da un dolce tepore e godetti di un benessere intenso, inaspettato. Fin qui non avevo mai detto a me stesso che lo stato in cui m’aveva gettato l’Annina equivalesse ad una malattia. Ora lo capivo dal fatto che io entravo in una convalescenza rapida quasi violenta. Sentivo nella mia testa un’azione forte, riparatrice che io pensai dovesse somigliare al processo di epurazione che succede a forme leggere di emorragia cerebrale. Così, dunque, io avevo iniettata a mia madre una nuova malattia? Ricordai mia madre e la sua fine vicina e l’Annina fu per un istante dimenticata. Mi misi a piangere e singhiozzare come un bambino; l’improvviso dolore fu tale che lo sfogo di lagrime e singhiozzi non fu sufficiente e mi dimenai su quel letto come un ossesso.
Mi fermai in seguito ad un vivo dolore al pollice della mano destra. Era causato dalla ferita che m’ero fatto la sera innanzi con le schegge del termometro spezzato. Andai alla finestra per veder meglio e capire come una tale piccola ferita potesse dolere tanto intensamente. Osservai subito che per essere stata fatta la sera innanzi, la ferita era arrossata pochissimo. Trovai ancora confitta in essa una piccola scheggia di vetro che levai. Potei verificare che dal momento in cui m’aveva doluto, doveva essere successa una metamorfosi nella ferita. Questa metamorfosi continuava ancora sotto i miei occhi. Era evidente! Fino a poco prima la ferita aveva avuto l’aspetto come se inferta ad un cadavere ed ora – passato l’effetto dell’Annina incominciava la sua reazione dolente e salutare. S’infiammava e le sue piccole labbra si gonfiavano.
Ne fui schiacciato! Guardai intorno a me non so se in cerca di un soccorso o di un’arme per uccidermi. Non c’era mai stata speranza che la ferita di mia madre guarisse, ma l’Annina aveva esclusa anche quella piccola possibilità – sia pure un miracolo – che ogni medico ammette per quanto la scienza lo escluda.
Quell’eccesso di vita ch’io volevo eliminare si dimostrava tutt’ad un tratto utile, necessario. Veniva bensì sprecato finché non c’era bisogno di un’opera straordinaria di riparazione ma quando di quest’opera v’era necessità, allora non minacciava che un pericolo: Che quell’eccesso di vita si dimostrasse insufficiente. Piansi come un bambino, piansi per la mia scoperta e per mia madre.
Ritornai a mia madre dopo di essermi ricomposto quanto potevo. Ero lievemente stordito come un ubriaco anzi come uno che fosse stato avvelenato dall’alcole Menghi. Il mio cervello era molto meno lucido che non quanto avevo subito l’intero effetto dell’alcole Menghi; tant’è vero che quando trovai mia madre sempre pallida ma tranquilla, in un riposo assoluto, rinacqui alla speranza. E pensai: La reazione di eccesso di vita ch’è ora in me e che deve verificarsi necessariamente anche in essa, non potrebbe per avventura riuscirle benefica?
Non v’era traccia di sofferenza nella sua faccia. Mi sedetti accanto il suo letto, presi una sua mano nelle mie e lungamente la baciai.
Con un piccolo movimento brusco e sdegnoso mia madre sottrae la sua mano ai miei baci. — Mi secchi! — disse brevemente con un filo di voce.
Trasalii ferito. Provai un avvilimento e un dolore che mi fecero gemere. E se fosse morta prima di poter liberarsi dal mio veleno e senza lasciarmi un’ultima parola dolce? Oh! Non volevo lasciarla partire così e nello stato di semi ebrietà in cui mi trovavo, credetti di poter vincere la sua indifferenza inondandole la faccia di baci e di lagrime. In risposta essa non ebbe che dei segni di fastidio. Da ultimo, per quanto debole fosse la sua voce, le bastò per manifestare una minaccia. Cessai temendo una violenza che l’avrebbe uccisa subito.
Le restai accanto fino alla sera. Il suo torpore non cessò mai. Apriva lentamente di tempo in tempo gli occhi, guardava nel vuoto o qualche canto della stanza e li rinchiudeva. Non pareva soffrisse. Solo una volta nella giornata si lamentò e sospirò: — Oh! mio Dio!
— Ti senti male, mamma?
Mi disse di no con un lieve cenno del capo. Ne fui accorato. E se l’Annina nello stato in cui si trovava le avesse date delle sofferenze?
— Già — dissi — se anche ti arreca qualche disturbo, di qui a poche ore ne sarai libera. Io ebbi una lieve crisi. Lieve, lieve — ripetei temendo d’averla spaventata. — E poi devi pensare mamma ch’io ho preso una dose tre volte più forte di quella data a te.
Essa non mi stava a sentire.
— Mi duole questo freddo che ho qui! — disse accennando alla vescica di ghiaccio sul suo petto.
Se essa m’avesse detto ciò quando le avevo praticata l’iniezione di Annina, senz’esitazione avrei allontanato quel ghiaccio perché il mio siero vi suppliva ad esuberanza. Ma ora che l’effetto dell’Annina stava per passare sarebbe stata un’imprudenza somma. La pregai di sopportare quel freddo almeno finché non fosse venuto il dottor Clementi. Essa non rispose e attendemmo in silenzio.
Quale pomeriggio fu quello! Lo passai interamente a studiare la sua faccia. Ogni suo movimento mi terrorizzava. Una volta ch’essa alzò una mano per portarla alla guancia ebbi uno spavento che mi morsi le labbra a sangue per non gridare.
Il dottor Clementi venne e andò. Essa non gli rivolse la parola. Non reagì neppure allorché egli ordinò di continuare gl’impacchi freddi.
Io l’accompagnai alla porta. Congedandosi mi disse: — Quella prostrazione mi dispiace. Se non ci fosse quella andrei via più tranquillo. Il polso è sorprendentemente lento e non si può dire neppure specialmente debole.
Ritornai a mia madre con una speranza nuova nel cuore. Risultava dalle parole stesse del dottore che la vita di mia madre si sarebbe prolungata almeno per giorni. Non le prodigai altre carezze e decisi di attendere. Mi sedetti su un sofà lontano dal letto. Vinto dalla stanchezza mi vi sdraiai. Poi il sonno mi prese imperioso e dopo breve lotta durante la quale tesi l’orecchio per sentire il respiro di mia madre, mi vi abbandonai con voluttà ritrovando subito il massimo riposo che l’uomo conosca e che l’Annina la notte precedente m’aveva conteso.
Due o tre ore dopo, riposato interamente ritornai in me. Balzai in piedi spaventato di aver lasciato sola mamma. Non sentendo subito il suo respiro temetti di trovarla morta. Portai la candela al suo letto.
Allibii. Essa era seduta sebbene riversa sul guanciale. Accostai la candela alla sua faccia. Questa non era più tanto pallida e mi parve anzi rosea. Ciò che mi spaventò anche di più fu di veder errare sulle sue labbra un sorriso che in quel momento mi parve di pazza.
Aperse gli occhi e vedendomi mi prese la mano con un gesto vivace che avrebbe spaventato anche Clementi. — Ah! Sei tu! — esclamò con gioia e certo con voce meno fievole di prima. — Sei tu! Oh! Come sono lieta di arrivare ancora a parlarti; non lo speravo più.
Io ricordo esattamente ogni singola parola ch’essa mi disse. Essa parlò ininterrottamente per lungo tempo ripetendo sempre con nuove parole la stessa cosa come se avesse temuto ch’io avrei potuta dimenticarla.
Disse: — Come hai potuto immaginare una cosa tanto orribile? M’hai sepolta viva, tu! Una volta hai detto che quell’orribile cosa cristallizzava il corpo umano… io volevo, io volevo movermi, gridare, e non potevo e tutto era morto in me fuori che il desiderio di vivere, gridare, movermi… sepolta viva… e ti vedevo e soffrivo che tu vivessi. Baciami ora! Fammi sentire anche il calore dell’affetto… tutto calore, tutta vita anche se sto morendo… Oh! Baciami e piangi pure con me. Tu hai pensato di fare il bene di tutti e invece la tua invenzione non è altro che un nuovo flagello. Oh! Poverino! Come potrai ora consolarti di perdere nello stesso tempo e tua madre e il tuo grande lavoro? Ma lo devi! Giurami che mai più metterai in un corpo umano una simile cosa… e neppure nel corpo di un povero animale creato dal Signore! Giuralo!
Io giurai! Poi piangemmo lungamente insieme. Parevano lagrime di consolazione mentre essa moriva.
Perché ripetere le sconnesse parole della povera moribonda quando io meglio che ogni altro so tradurle in parole più lucide e conscienti perché ne compresi tutto il senso e indovinai per l’analogia con quelle provate da me le sensazioni da cui erano uscite? La povera donna non animata dalla forza di volere che m’aveva diretto nella prova su me stesso, non aveva potuto trovare la vita neppure nella contemplazione di singoli oggetti. Nel suo povero corpo l’Annina aveva trionfato del tutto. Il solo cervello aveva continuato a lavorare ma solo per darle la conscienza della sua mancanza di vita.
Essa cessò di parlare e di bearsi della riacquistata libertà, soltanto per morire. L’eccesso di vita prodotto dalla reazione dell’Annina era stato troppo violento per il suo cuore già ferito.
E debbo dire ancora una parola. Fu anzi per poter pubblicare questa parola ch’io scrissi questa memoria.
Non è solo per il giuramento fatto a mia madre ch’io lascio seppellire con me la mia scoperta. Come posso io consegnare ai nostri contemporanei un simile filtro? Ma pensate! Ne bastarono poche gocce per fare di me un delinquente!
Quando sento i psichiatri disperarsi per non saper riscontrare nei delinquenti un sintomo specifico comune, io sorrido! Non hanno gl’instrumenti per riscontrarlo! Eppure il carattere del delinquente da me verificato nell’ordine fisico è confermato dall’aspetto morale del delinquente. Non vedete ch’esso ha una vita ristretta, piccola, che non passa la sua propria epidermide mentre l’altruista ha tanta esuberanza di vitalità da poterne far dono generoso a tutto il mondo. Non tutti i delinquenti tradiscono la loro miseria, ma osservate, osservate e troverete che in tutti esiste un’attenuazione di vita.
Restiamo perciò mortali e buoni. Ho distrutto l’Annina e l’umanità può essermene riconoscente. Accetterei persino di somigliare al dottor Clementi piuttosto che di calmarmi in una deficienza di vita.
— Grazie! — disse il presidente dottor Clementi che aveva finito di leggere. — E pensare ch’io sono stato l’amico di quell’uomo a tale punto che a forza di simulazione arrivai a celargli la vera natura del suo insuccesso con l’alcole Menghi. Debbo però dirvi prima che son io quell’avversario cui egli allude e che avrebbe creata la famosa teoria dell’abbreviazione dell’esistenza mentre io subito compresi che quel siero non aveva efficacia che quella dell’etere in cui era disciolto. Non mi vanto di tale bontà ch’è spiegabile col fatto ch’io ero medico di casa del dottor Menghi e che costui era uno di quelli che bisogna secondare.
— Ah!
— A proposito! Capisco ora perché ci siano tante insolenze al mio indirizzo in questa memoria: Anni or sono pubblicai uno studio: Lo scienziato paranoico e il dottor Menghi credette di ravvisarsi nel mio soggetto. Negai ma egli evidentemente non me la perdonò più.
— Ma la memoria? — domandò un medico vedendo che il dottor Clementi non sapeva dimenticare la propria personcina offesa.
— La memoria? — ribatté il presidente — Volete davvero che se ne parli?
— No! No! — urlarono tutti.
— Di tutta la memoria non m’interessa che un punto solo — continuò il dottor Clementi. — Visto che il dottor Menghi non era un mentitore, vorrei sapere per quale causa sia crepato quel povero cane cui era stata iniettata l’Annina nella sua forma più pura.
— Sarà stato un accidente! — urlò un giovine medico.
— Non scherziamo! — disse gravemente il dottor Clementi al quale gli scherzi altrui non piacevano. — Si può fare un’ipotesi. Forse il dottor Menghi ha impiegato per la confezione del suo siero l’albumina di qualche animale dal sangue freddo; quest’albumina ha un immediato effetto letale se iniettata nel sangue di un mammifero. Se poi non fosse così, bisognerebbe pensare che nella sua nervosità, per tener fermo il cane, il dottor Menghi senz’accorgersene l’abbia strangolato.
Tutti risero e il vecchio signore ringiovanito dall’applauso abbandonò la cattedra col suo passo piccolo e rapido.
Fine.
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TITOLO: Lo specifico del dottor Menghi
AUTORE: Svevo, Italo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: L' assassinio di via Belpoggio / Italo Svevo ; postfazione di Cristina Cattani. – Trento! : L'editore, 1991! - 103 p. ; 21 cm.
SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti