L’intruso
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 12 minuti
I.
Il mio compagno di cella faceva tortuosi discorsi in un borbottio che non usciva dalle quattro pareti. Nulla ci avrebbe impedito di altercare magari o, con qualche cautela, di cantare; e, giovane com’ero, io cacciavo ogni tanto sospiri di pena che finivano in un gemito; ma il mio compagno non lo sentii mai altro se non borbottare. Si buttava sulla branda e fissava il soffitto. Gli stillavano le frasi dalla bocca storta, come un’acqua sommessa e inesauribile. Sovente immaginavo d’esser solo e mi portavo lo sgabello all’uscio: di là fissavo la mia branda vuota, appoggiando la schiena allo spigolo, e mi accorgevo che la voce soffocata di Lorenzo mi aveva accompagnato in tutti i gesti, suggerendomi quello stesso che nell’istante pensavo.
Lorenzo era un vecchio alto e grosso e la sua voce pareva schiacciata dai suoi muscoli. Malgrado se la pigliasse a quel modo con l’aria, era un uomo taciturno; se gli chiedevo qualcosa restava ogni volta un poco immobile, esitando pareva, a formar la risposta. Che poi veniva brusca e sottovoce. Certamente, al mattino eravamo tutti e due svegli e attivi e lavavamo, pulivamo ogni cosa con alacrità, fra i tintinnii, le voci e i tonfi. Poi si andava al passeggio, si mangiava, si vedeva insomma qualche faccia. I miei sospiri cominciavano nel lungo pomeriggio e nel crepuscolo; e Lorenzo a borbottare. E nemmeno, come io facevo, Lorenzo trasaliva e si agitava, se qualche novità accadeva all’uscio, o un trepestio o una guardia allo sportello a disturbarci. Restava disteso sulla branda o in piedi dov’era, e non fiatava.
Talvolta leggevo non so che libro del carcere e Lorenzo, che leggere non sapeva, traballava avanti e indietro con quel suo corpo pesante e finiva poi, slacciandosi la cintola, per sfasciarsi sulla branda.
— Si è mai veduto, – cominciava, – si è mai veduto leggere un libro come fosse un giornale? È una triste compagnia che non vale un bastone da camminar soli. È roba del governo: li vengono a offrire nel carcere perché servono a loro. Uno che legge, sta tranquillo e tratta bene il superiore: gli fanno fare quel che vogliono. La legge scritta è la forza del carcere. Disgusta vedere un giovanotto qui dentro leccare quei fogli come fosse pagato. Nel carcere non si deve far niente, e lasciar che il tempo passi. Un uomo dritto basta lui a finir la giornata: se ha bisogno di leggere per tenersi compagnia, allora è come le donne che han sempre voglia di qualcuno intorno e, se non hanno nessuno, prendono un gatto.
— Se dite a me, Lorenzo, – feci una volta, scattando, – dovete sapere che non c’è nulla come un libro per ammazzare il tempo. Occupa meglio che giocare alle carte.
— Paragone d’avvocato, – continuava l’altro senza muoversi. – Per giocare alle carte si sta in compagnia e qualcuno poi paga. E si vede chi è in gamba e chi no. C’è la gara d’astuzia e ci sono le regole. Solamente i pitocchi giocano per risparmiare quella lira: ma è una soddisfazione d’uomo guadagnarsi il bicchiere per forza di scienza. Permettono forse le carte nel carcere? Qui si vede che altro sono le carte, altro i libri.
Aveva forse cinquantanni e la sua bigia corona di capelli gli stava sempre ben liscia sul cranio, indisturbata dai pensieri testardi. Quando taceva masticava come un bue la cicca. Né mai pareva preso da quell’affanno del domani, che a me dava tanta stretta ogni crepuscolo: nel sospiro di sollievo alla fine del tedio, la disperata certezza che il giorno dopo sarebbe stato un tedio uguale, e un’uguale speranza, e l’identico affanno. Quando mi avevano introdotto, la prima sera, nella celletta; e rimase una guardia a porta spalancata sorvegliandomi, mentre fuori andavano e venivano con stoviglie e coperte; Lorenzo, ch’era disteso sulla branda, mi aveva buttato un’occhiata senza vivacità. Una volta soli, io, con lo slancio dell’inesperto che il sopraffiato attanaglia, gli parlai baldanzoso, chiedendogli se aspettava il processo. Ma il mio grosso compagno aveva mosso una mano, borbottando infastidito che né io né lui eravamo della giustizia cui spetta fare simili domande. Saremmo andati d’accordo se ciascuno di noi avesse atteso alla sua parte, se ci fossimo trattati con cautela, se avessimo insomma coabitato come due galantuomini sorpresi dalla pioggia nella stessa baracca. Altro non occorreva, se non di compatirlo caso mai russasse la notte.
Cadeva in quei giorni sulle carceri, sui tetti, nei cortili, una pioggia insistente che infradiciava ogni cosa e illividiva anche l’aria della nostra inferriata. Si toccavano a malincuore con le mani torpide le coperte ruvide; ogni oggetto al mattino ci aspettava umido e tetro; solo, all’ora del rancio la gavetta scottante, stretta fra le ginocchia, era una presenza cordiale. Alla gavetta Lorenzo faceva lunghe chiacchierate, sporgendosi sul fumo che tutto l’accarezzava, passandovi sopra la mano, senza badare a me, come fosse quello il suo focolare.
Diversamente, stava sempre sulla branda steso ai suoi soliloqui. Io pensavo in quei giorni che ciò fosse l’effetto del tempo cattivo, che invogliava anche me a rannicchiarmi, a cercare il sopore e ignorare le pareti squallide. Ma finí la pioggia e vennero groppi strepitosi di vento che seccarono e rasserenarono: nel nostro cielo altissimo, squadrato di sbarre, passarono nuvole bianche; e sempre Lorenzo trascorreva il piú delle ore scontrosamente vaneggiando al soffitto. Adattai ben presto le mie gambe all’angustia del passeggio in cella; e allo stesso modo finii per avvezzarmi a quel borbottio interminabile, dove mai Lorenzo trattava di sé, ma, inconsistente qualche volta come un ubriaco, ravvolgeva in parole miei gesti o domande o lasciava affiorare spezzati pensieri, tutti sul carcere e sull’astuzia e la stupidità e l’osteria. Non potendo far altro, m’ero provato anch’io a dir forte qualcosa, come parlando ai muri, ma non trovai ben presto alcun costrutto in quello sfogo che non mi sfogava e mi lasciava invece, orecchie tese, inquieto.
Verso sera riuscivo a scordarmi che c’era Lorenzo, soltanto addormentando intontito quell’altro affanno del domani e lasciando che il crepuscolo m’intorpidisse come un gelo. Assaporavo in questo modo la mia unica solitudine. Quanto a Lorenzo, dal crepuscolo in cui gorgogliava, non pareva volere uscir piú. Una mattina, mentre afferrato alle sbarre, spaziavo alla finestra respirando, lo sentii borbottare nel fresco silenzio non so che imprecazione.
II.
— Che succede, Lorenzo? – gli feci volgendomi. Lorenzo, seduto sulla branda, levò il capo da un paio di calze che stava infilando, e rimase a guardarmi.
— Che vi accade, Lorenzo?
Neanche questa volta rispose, ma richinato il capo, prese a biascicare in silenzio, segno abituale d’un discorso che andava innanzi tutto solo. Mi diedi allora a camminare per la cella, aggrappato alla mia inquietudine, travedendo in un attimo di lucido orrore, frequente in quei mattini, quant’era irreparabile il mio stato.
— Se non sapete dominarvi da solo, – si chiarí a un tratto il borbottio, – come farete alla casa di pena, o poi, quando vi avranno liberato? Sembrate un malato che si studia la febbre. Leggete il vostro libro, piuttosto; ma se non v’insegna nemmeno a stare in carcere, allora vuol dire che siete davvero ammattito, e in questura hanno sbagliato le bollette. S’io fossi voi, farei ricorso, un bel ricorso per quel posto.
— Non mi conviene, – l’interruppi rianimato. – Ci starei come qui.
— Sentite, Lorenzo, – ripresi dopo un poco, – perché prima stavate a lagnarvi? Io non vi ho fatto nulla e vorrei che tutte queste storie finissero. Siamo già in prigione: se ancora litighiamo, questo diventa il purgatorio.
Il mio grosso compagno sorse in piedi. Con una di quelle manacce che potevano scaraventarmi al soffitto, si forbí il naso. – Avete sognato anche voi? – chiese dubbioso.
— Che sognato?
— Va bene: non avete sognato. E allora perché fate il ragazzo?
— Io non faccio nulla.
— Voi non sapete ancora che cos’è stare al mondo. E venite in carcere. Mettetevi a fumare fin che ve ne danno, perché vi occorre un calmante, e voi da solo non ce la farete. Chi avete fuori? L’innamorata che non vi viene a trovare?
— Sono sposato, – balbettai.
— Vostra moglie allora sarà finalmente tranquilla che non vi schiacceranno gli autocarri. Le avete dato fuoco al letto, giocando coi fiammiferi?
— Lorenzo, voi potreste essere mio padre e vi lascio dire. È vero che sono io nella vostra cella e non voi nella mia, ma di ciò non ho colpa. Né vi ho chiesto perché siete qui. Ci siamo e basta.
Di nuovo il vecchio mi guardò dubbioso. – Ricordatevene allora, che ci siete. E capite che voglia dire. Non mordetevi i pugni e non fate sospiri. Non correte alla porta, quando passa qualcuno. Distendetevi sopra la branda e imparate a star solo. Un ragazzo che va dal dentista, ne sa piú di voi.
Anche quella mattina trascorse. Passò la ronda, portarono il pane. Lorenzo uscí all’aria. L’attesi solo nella cella, nel brusio del silenzio, guardandomi intorno. Rifiutavo talvolta di uscire, per variare, per fare qualcosa di mia volontà. Ma non ero tranquillo quel giorno. Passeggiai straccamente in lungo e in largo, pensandomi solo davvero; e compresi che ormai quest’idea mi atterriva.
Mi aveva scritto mia moglie che se davvero quell’indegnità dell’accusa mi restava nella schiena al processo, dalla vergogna avrebbe chiesto lo scioglimento e ringraziava Dio che in quei tre anni non avevamo fatto figli. Questa notizia mi era passata sul capo come un’onda a chi nuota: mi dibattevo prima e mi dibattei dopo, sott’acqua come sull’acqua. E dovevo ben presto imparare che una simile lettera non manca mai a nessun carcerato: chiara e spietata o diluita in molto inchiostro, viene sempre quel giorno che per lo stretto sportello ve la caccian tra le dita. Quel mattino vedevo me stesso come chiuso nel vetro, non piú prigioniero di muri o di sbarre, ma isolato nel vuoto, un vuoto freddo, che il mondo ignorava. Quest’era la pena vera: che il mondo escludesse il recluso. Non tanto di uscire anelavo, quanto che entrasse il mondo nel mio vuoto e lo colorasse, lo scaldasse con gesti o parole. Leggere non bastava, diceva giusto il mio compagno; occorreva che almeno, nel mondo, pensassero a me, me ne dessero i segni, e non tutto svanisse in quell’atroce, innaturale immobilità.
Quando tornò, Lorenzo si ricordava ancora che me l’ero supposto padre. Ridacchiando senza voce, bofonchiò un pezzo su quest’idea e io, stufo di leggere, lo stetti a sentire.
— Nel carcere, – cominciò poco dopo, – non bisogna farsi illusioni. Solamente gli stupidi si fanno illusioni. Il governo ci mette qui per castigarci: sta in noi farlo fesso e uscir fuori piú dritti di prima. Qui si vede ogni cosa com’è: chi è che si fa il sangue cattivo in carcere? I detenuti, forse? Nossignore, se lo fanno i superiori, che corrono, sgobbano, gridano, come i facchini alla stazione. Noi ci lasciano tranquilli. Ed è per questo che, se trovo un cristiano mangiarsi l’anima qui dentro, mi viene voglia di batterlo. Non muore nessuno nel carcere.
— Non lo diranno, ma ne muoiono.
— È una gran cosa fare a meno della gente, – riprese Lorenzo, ormai assorto in soliloquio. – Che cos’è questo mondo? Tante parole inutili si dicono, si fan piú versi che la scimmia. Uno che gira a piede libero, non ha mai pace. Vede una donna e la vuole; vede un terreno e ci mette le mani. Viene la guardia e gli chiede: «Perché hai toccato quella donna? Perché hai rubato quella terra?» «Ma ne aveva bisogno», dicon tutti gli stupidi. «Se ne aveva bisogno, venga con me, non ne avrà piú bisogno».
— Ha ragione la guardia. Ma ci sono di quelli che sono piú furbi di tutte le guardie. «Non è il caso di alzare la voce, non siamo stati a balia insieme». Se anche il carcere è pieno, c’è sempre una cella. «Dovrete star solo». L’uomo furbo gli scappa da ridere. Non è mai stato solo. «Volevo provare».
— E d’or innanzi sa. Non gli fa piú paura la cella e lascia correre le guardie. Si vede tutto il mondo, come a salire sulla luna. Là c’è un morto, là c’è un ubriaco; là una donna che ammazza un bambino. «Arrestateli. Sotterrate quel tale. Correte».
— Invece chi è furbo, non corre, perché il carcere ha posto per tutti. Tante celle ci sono e ciascuno ha la sua. Ha il diritto di starsene solo. Qui si vede com’è fatta la gente, che s’infuria se la mettono sola.
III.
Nottetempo sotto la spettrale lampadina, ascoltavo inquieto il respiro della branda accanto. La mia stanchezza era tutta di testa, non avevo mai sonno. Mi chiedevo se anch’io sonnecchiando emettessi quei rauchi sospiri. Stavo cheto, per addormentarmi, per non sommuovere le angosce, e mi pareva di sentirle accovacciate al mio capo, pronte a balzare e farmi strazio. Con furtiva cautela accostavo l’oblio. Ma cigolando e borbottando, la montagna di Lorenzo dava volta: riaprivo gli occhi alla sudicia luce. La ronda entrava con fracasso di chiavistelli. Tornavo a chiuderli.
A notte fonda mi assopivo e facevo sogni incoerenti, dove ogni cosa era quella di un tempo e la mia mente, conscia del suo disordine, non vi trovava alcuna pace. Stupidamente mi rivedevo ancor ragazzo e fuggivo nei campi, o discorrevo con mia moglie e le facevo sciocche tenerezze.
Sotto l’alba, nella penombra, ero già desto e presentivo lo scoppio sbatacchiante della campana, cogliendone la vibrazione soffocata all’urto di chi l’afferrava.
Lorenzo si sedeva sulla branda, solamente quando giungevano i primi tintinnii estrosi del controllo alle inferriate. E aveva finito di vestirsi quando, di cella in cella, il martello squillante era giunto alla nostra.
Si spalancava, e il capo entrava salutando. Una guardia correva alla finestra, levando la sbarra.
— Dico a tutti… – si sentí gridare un mattino.
— Va’ avanti, tu, – fece il capo alla guardia. – Che volete?
Nel frastuono assordante Lorenzo venne avanti eccitato e barbugliava qualcosa.
— Che c’è? – vociò il capo. La guardia riattendeva già alla porta.
Il mio gigante abbassò nel silenzio echeggiante una faccia molle sporgendo le labbra. Guardò l’altro, imbambolato.
— Che volete?
— Nulla, – disse Lorenzo.
Il capo si toccò la nuca, dubbioso. – Avete un reclamo? – chiese, fermandosi alla porta.
Lorenzo, volto a me, ripetè sollecito: – Avete un reclamo? – Il capo uscí fuori e sbatterono l’uscio.
Imperturbabile Lorenzo attese alle cose consuete. Vennero a togliere il pattume e toccava a lui scoparlo fuori. Poi rammendò una calza e masticò la cicca. Andammo insieme al passeggio e Lorenzo seduto su un mio giornale illustrato, s’appoggiò al muro del cortiletto, con le tempie tra le mani. Non si lasciava dir nulla e rugliò come un cane le due volte che tentai. Io mi distesi allora al cielo, studiando il volo dei colombi.
Quando rifummo in cella, si piantò sullo sgabello e balbettò a testa bassa:
— Avevate un reclamo?
— Lorenzo, non si fanno queste cose, – gli dissi nervosamente. – Imparate a stare in prigione.
— Se avete un reclamo, – continuò quello testardo, – io voglio avvertirvi. Voi non sapete che cos’è un reclamo. Bisogna farlo a voce, e non scrivere sulla domanda, perché le carte le conservano e le leggono al processo. Bisogna esser furbi nel carcere. Vi tengono qui apposta per sapere e farvi fesso. Vi fanno leggere, vi fanno scrivere, cosí state tranquillo e firmate ogni cosa che occorre. Non vi siete ancora accorto perché vengono a battere i ferri? Non è sorveglianza: nessuno ha mai rotto le sbarre. Ma picchiando, facendo fracasso, il mattino e la sera, sperano di confondere la testa al carcerato, di farlo gridare, parlare, e gli dicono allora: si vedrà, si vedrà, ma adesso scrivete, mettete la firma. Poi avvertono il giudice.
Non sapendo che rispondere, staccai un pezzo di pane dalla pagnotta fresca e a bocca piena ruminai quel che ascoltavo.
— Lorenzo, – interruppi, – a questo punto vi hanno ridotto?
Lorenzo mi sbirciò sospettoso. – No, – disse adagio. – Ma provano con tutti. Bisogna essere furbi.
Quella sera, nell’ora che ricominciava distante il martellio alle inferriate, mi tornò in mente la scena del mattino. E venni alla branda di Lorenzo che stava disteso con gli occhi morti al soffitto. Lo vidi scuotersi.
— Sentite, Lorenzo, – gli feci brusco, – che volevate insomma dal capo?
Lorenzo chiuse gli occhi, come assopito.
— Lorenzo, – ripetei, – non fate lo sciocco. Cos’è quella bugia di stamattina?
Senza aprir gli occhi, levò su la grossa mano, facendo segno di passare oltre. S’avvicinava nel frattempo a brevi pause il martellio vivace. Irritato e stimolato dal frastuono, ripetei la domanda e gli presi il polso. Con un guizzo rabbioso il gigante rovesciò il braccio e me lo piombò sul petto, balzando in piedi e inginocchiandomi. Tanto convulsivamente mi artigliò camicia e pelle dello sterno, che oltre l’urto non sentii il dolore. E mi giunsero addosso in un ansito caldo due occhi stravolti.
— Niente a te, – mugolò con la voce dell’odio, – né con te né con gli altri, non parlo a nessuno. Non ti voglio vedere, nemmeno di notte. Questa branda è la mia, questa cella è la mia.
Io dibattendomi ansimavo e non pensavo che a una cosa: dovevamo staccarci prima che entrasse il gruppo. Mi squillavano nel capo i martellii sempre piú acuti. Mi rombavano le orecchie. E sempre Lorenzo, con la bocca sformata, mi sbruffava addosso, mi sbatacchiava avanti a sé, mi piombava ceffoni con la mano enorme.
Poi mi sentii strappare da qualcuno e vidi guardie e caddi a terra fracassato. Tre uomini addosso a Lorenzo gli menavano alle gambe per farlo cadere. Nella lotta uno mi pestò una mano. Si rovesciarono tutti finalmente sulla branda e vi inchiodarono Lorenzo che sputava e muggiva.
— Portatelo sotto, – disse il capo, avanzandosi. Tutto il gruppo si mosse. – Voi restate –. Una guardia si staccò e levando la sbarra diede i suoi colpi assordanti. Poi se ne andarono serrando l’uscio.
Un istante dopo s’aprí lo sportello. – Vi ha fatto del male quel pazzo? Tenetevi pronto per il verbale, – e richiusero.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: L’intruso
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)