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“La legge dice: è garantita la libertà di stampa. Ma di fatto questo non avviene” (Dario Biocca, storico)
Libertà di stampa: se ne parla al corso organizzato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, relatore lo storico Dario Biocca.
Anche nel 2020, secondo quanto emerso dall’indagine condotta dalla onlus francese Reporter senza frontiere l’Italia si trova nella terra di mezzo nella classifica di 180 Paesi per la libertà di stampa. Collocata al 41° posto, in salita di due posizioni rispetto allo scorso anno, significa che non rientra tra quelli con la maglia nera, come Corea del Nord, in fondo alla classifica (180), Turkmenistan (179) ed Eritrea (178) , ma neanche in cima alla classifica, come ci si aspetterebbe da uno Stato democratico europeo.
Chi si trova allora in cima alla classifica? Sul podio Norvegia, Finlandia e Danimarca e fin qui nessuna sorpresa. Ma nelle prime 10 troviamo anche Giamaica (6°), Costa Rica (7°) e Portogallo (10°). Buon livello anche per Irlanda (13°) e Canada (16°). Sorprendono invece, Uruguay al 19°, Namibia al 23°, Ghana al 30°, che si trovano davanti all’Italia, ma anche a Francia, al 34°, e Regno Unito al 35° , mentre gli Usa sono al 45°.
I criteri per stilare la classifica, come spiega lo storico Dario Biocca nel corso online organizzato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti intitolato Geopolitica della libertà di stampa, sono tre. Il quadro normativo sulla libertà di stampa, che di solito è sempre, sulla carta, favorevole alla libertà di stampa e di espressione. Poi si deve valutare in che modo la legge regola gli assetti proprietari dell’editoria. Infine, le misure di sicurezza garantite ai giornalisti sotto scorta impegnati nelle inchieste scottanti.
E’ importante non fermarsi alle leggi sulla libertà di stampa, sottolinea Biocca, perché formalmente, viene rispettata ovunque. Sono le pressioni economiche e politiche ad affossarla. Se il Messico è il Paese in cui è a più rischio la vita di giornalisti impegnati nelle indagini sul narcotraffico, nella Repubblica Popolare Cinese, chiunque contrasti le autorità viene di fatto ostacolato nella divulgazione di notizie di carattere politico, economico e tecnologico.
Ecco allora un approfondimento sul tema che Biocca illustra secondo una prospettiva storica che parte dalla diffusione dei primi giornali in Inghilterra per arrivare alla censura dei regimi totalitari, per provare a comprendere la questione e come si è evoluta nel nostro continente.
Il primo giornale ad essere stampato su larga scala, a partire dal 1837, in Gran Bretagna è la Stella del Nord, diretto da Feargus Edward O’Connor. Diffonde le idee del movimento cartista, che rivendica il diritto al voto che deve essere segreto e riconosciuto indipendentemente dal patrimonio posseduto. Soprattutto, si insiste che si voti una sola volta, cosa che allora non avveniva. Un giornale di partito, che divulga informazioni su iniziative e comizi e che chiede un abbattimento dei costi della testata perché sia accessibile anche ai ceti meno abbienti.
Nella società industriale che si sta evolvendo molto rapidamente, il giornale diventa presto uno strumento per diffondere informazioni e non solo idee politiche. Le persone, spiega ancora Biocca, sono più interessate a conoscere i fatti che non le idee politiche di questo o quel partito. Nasce così nel 1855 il Daily Telegraph che si propone di raccontare ciò che avviene nel mondo della cultura e della scienza. Il suo primo scoop, però, è politico. Si tratta dell’intervista all’imperatore tedesco Guglielmo II da parte del colonnello britannico Stewart Wortley.
L’imperatore si lascia andare a considerazioni poco gradevoli sugli inglesi, impegnati nella guerra anglo-boera in Sud Africa, per accaparrarsi i giacimenti di oro e preziosi nel Tranvaal e nell’Orange. La redazione invia copia dell’intervista all’imperatore per avere l’autorizzazione a pubblicare, ma lui non se ne occupa e delega un suo funzionario che a sua volta delega qualcun altro. Alla fine nessuno legge l’intervista che viene pubblicata integralmente e scatena un grave incidente diplomatico.
Da quel momento in poi, la stampa viene sottoposta dal governo a rigidi controlli, consapevoli di quanto sia elevato il suo potenziale destabilizzante. Durante la prima guerra mondiale, continua Biocca, si decide di non far accedere alcun giornalista al fronte per il pericolo che vengano diffusi dati su spostamenti di truppe e armi che devono rimanere top secret. Dopo la sconfitta di Caporetto, però, il generale Armando Diaz si accorge di quanto i giornali possano alimentare nella gente e nei soldati al fronte, il patriottismo.
Anche Benito Mussolini, giornalista e direttore dell‘Avanti! durante la militanza socialista, presta grande attenzione alla stampa, limitandone la libertà, una volta salito al potere con il partito fascista nel 1922. Per prima cosa minaccia di chiusura i direttori dei giornali non allineati e se questi insistono li estromette e li sostituisce con altri più compiacenti. Poi istituisce l’Ordine dei Giornalisti, al quale ci si può iscrivere solamente se non si sono riportate condanne penali. Quasi tutti gli antifascisti ne hanno. Infine, l’istituzione del Ministero della Cultura nel 1932, che stabilisce quali parole e immagini possono essere usate, quanto della cultura estera può essere diffusa in Italia etc..
La conseguenza è una stampa sempre più omologata, che di fatto, non permette nemmeno di svolgere sondaggi (ad esempio sul consenso popolare sull’alleanza con la Germania) proprio perché le opinioni si sono sono appiattite su un unico pensiero dominante.
Gli Usa, al contrario, grazie a Joseph Pulitzer, immigrato ungherese che nel 1883 con il New York World dà una svolta al giornalismo, sia nello stile che nei contenuti, conoscono una delle stagioni più brillanti. Il suo è un giornalismo fattuale perché basato su fatti e non su opinioni, e militante, perché solleva questioni sociali. Famosa la sua campagna per l’abolizione della tassa per attraversare il ponte di Brooklyn.
Così come è stato il primo ad accettare nella sua redazione anche le donne. Una di loro, Nelly Bly, porta allo scoperto le pessime e illegali condizioni in cui vengono tenute le pazienti della casa di cura per malattie mentali di New York. E’ la rima giornalista ad agire sotto copertura, fingendosi una paziente, per introdursi nell’istituto e verificare di persona cosa succede.
Questo filone di giornalismo, che vuole indagare sul campo, emerge anche durante la seconda guerra mondiale, raccontando al fronte la vita dei soldati. Harry Pile rimane uno dei corrispondenti più conosciuti del periodo.
La situazione cambia a partire dal 1948 e negli anni seguenti, con la guerra fredda e la creazione dei due blocchi Usa-Urss, che si irrigidiscono sulle proprie posizioni. La figura del corrispondente di guerra riprende vigore con la guerra del Vietnam (1955-1975) di cui vengono denunciate le inutili atrocità.
Non si può non ricordare il caso Watergate del 1972, con cui il presidente Richard Nixon, che sta per essere rieletto alla Casa Bianca, è costretto a dimettersi, in seguito alle indagini del Washington Post, che svela le attività di controllo illegale e di spionaggio in cui è coinvolto per mantenere il potere. Le indagini, condotte dai giornalisti Bob Woodword e Carl Bernstein, sono una dimostrazione dell’efficacia del giornalismo investigativo, in grado di far cadere un governo.
Perché allora i Paesi occidentali si trovano in posizioni così modeste in classifica? Lo scenario attuale, precisa Biocca, è molto più complesso e i nemici dell’informazione non sono sempre visibili. Si pensi alle lobby, ai gruppi finanziari e industriali. che si celano anche dietro ai colossi del web. Così come la concentrazione di tante testate nelle mani dello stesso editore non aiuta. Nell’Europa dell’Est, infine, non tutto è cambiato con il crollo del muro di Berlino nel 1989, soprattutto per quel che riguarda la libertà di stampa.
Anna Cavallo