L’angelo
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 8 minuti
L’appuntamento era alle cinque, in cima al molo. Alle cinque, verso la fine di ottobre, il sole è già basso sull’orizzonte, sopra la pineta violacea e rossa di tramonto: ma c’era abbastanza tempo per fare appunto una passeggiata in pineta, o procurarsi qualche altro modo per stare assieme almeno un paio d’ore. Assieme, in un incontro alla superficie innocente e luminoso come quel mare calmo e già freddo dove le paranze uscite dal porto si riflettevano come in un vero specchio: alla superficie: ma sotto? Come il mare più celestiale copre gli abissi e i mostri più infernali, così è un amore che non ha uno sbocco se non nel peccato. E che altro sbocco poteva avere la relazione fra un’operaia e un ricco giovine signore? Ma lui era un sensuale, sciocco e momentaneamente innamorato, e lei aveva il dono della bellezza e la forza dell’ambizione.
Uscendo dalla piccola fabbrica di maglie, dove lavorava a cottimo, scese per il viale deserto che conduce al mare. Aveva una falsa volpe nera intorno al collo, sul vestito scuro succinto che lasciava vedere le belle gambe e indovinare le linee del corpo perfetto; e se la stringeva al viso quasi per tentare di nascondersi. E camminava rapida, come fingendo di tornare a casa, nell’umile borgo dei pescatori, dove viveva con la nonna, poiché il padre era morto in un naufragio, e la madre poco dopo, stroncata dal dolore; ma in realtà aveva detto alla vecchia che sarebbe rimasta fino a tardi nella fabbrica; e si diresse quindi alla spiaggia. Era più sicura la spiaggia, in quell’ora e in quel tempo assolutamente deserta.
Tutti i villeggianti erano andati via; le ville chiuse, tranne quella, in forma di castello, del giovane signore, che vi era rimasto solo, e in quei bei mattini d’ottobre – quando il mormorio di conchiglia della bassa marea accompagnava le cantilene dei vecchi raccoglitori di poverazze, e in lontananza, dalle vigne azzurre e dai campi arati arrivavano le voci dei contadini che aizzavano i buoi – si affacciava ancora al balcone, in pigiama di seta celeste, come il principe della leggenda.
La ragazza sapeva che era rimasto per lei, che la voleva, che l’aspettava quel giorno, per “concludere” qualche cosa. Che cosa si poteva concludere? Tutto e nulla. Forse dipendeva da lei, dalla sua volontà, ma anche dalla passione malsana in cui si sentiva travolta: poiché l’uomo non le piaceva molto, ma le piacevano i suoi milioni. E dopo tutto era libera: c’era la nonna, ispida e umiliata come una scopa vecchia, c’erano i pochi parenti, tutti uomini di mare, statue di stracci e di sale, sempre alle prese con la povertà e con la morte. Che potevano farle? Forse anche rallegrarsi della sua fortuna. Tuttavia procedeva guardinga, ricordando però molti esempi, viventi e vicini, di relazioni simili alla sua, se non peggio, oh, molto peggio anche; e il mondo camminava lo stesso: e lei era stanca della sua vita miserabile, e giacché s’era presentata l’occasione, dopo tante altre occasioni modeste o addirittura meschine, voleva profittarne.
La spiaggia era deserta, l’arenile duro come una strada battuta: fin là si vedeva nitida, sulla punta del molo, la figura nera di un uomo. Ella affrettò il passo, leggera e trepida. Le pareva di volare, sulla linea perlata del mare, come una rondine marina che insegue il suo compagno.
Ma d’improvviso si sentì inseguita, raggiunta, non sorpassata, più che da un passo da un soffio, come appunto di ali: e lievemente trasalì, quando alla sua destra, a poca distanza, vide una ragazza, quasi una bambina, coi capelli corti e lisci, di un biondo di rame, fasciati da un nastro azzurro. Anche il vestito, ancora estivo, era azzurro; e anche il profilo, le braccia esili e nude, le gambe nude, sottili come ceri, i sandali di pelle bianca, avevano una luminosità azzurra, come se tutta la figura di lei fosse balzata dal mare. Non doveva essere una villeggiante, una frequentatrice della spiaggia, perché sotto quella vaporosità incorporea, la sua pelle era bianca, quasi trasparente come l’alabastro. Gli occhi, l’altra non glieli vide, anche perché li sfuggì, nascondendosi di nuovo il viso con la sua volpe tenebrosa. Del resto la fanciulla, pur camminandole a poco più di due metri di distanza, pareva non la vedesse: a volte si piegava a raccogliere una conchiglia o un osso di seppia, che lasciava ricadere sulla sabbia: e allora sembrava proprio una bambina.
E l’altra cominciò a infastidirsi: ecco passata l’ultima villa, ecco la duna che precedeva i macigni di sostegno del molo: adesso si vedeva chiara, sul cielo d’argento azzurro, la figura del giovine, fanciullesca, in costume sportivo, e anche quella di un cane che egli teneva al guinzaglio. Come attirato dallo sguardo della ragazza, egli si mosse per venirle incontro, ma quando fu a metà della palizzata si fermò, incerto, e aspettò che salisse lei la duna e s’inoltrasse sul molo. Certo, vedeva la signorina dal vestito azzurro, che pareva si accompagnasse amichevolmente all’altra, e si fermava con prudenza. Poiché neppure lui voleva che la gente molto pettegola del paese chiacchierasse delle cose sue, e queste cose venissero poi riferite a papà e mamma. D’un balzo, indispettita, la ragazza della volpe salì la duna, fu sulle pietre del molo: sperava che l’importuna tornasse indietro; ma la vide che saliva anche lei, più leggera di lei, la piccola duna e si librava sull’orlo della palizzata, azzurra sull’azzurro del mare, quasi irreale.
Che fare? Non le si poteva certo impedire di fare il comodo suo: la passeggiata era di tutti, e anche un gruppo di ragazzi irruppe dalla strada erbosa che andava verso il borgo dei pescatori. Ma di essi la ragazza non aveva soggezione: erano troppo presi da loro stessi per badare a lei: quella invece, l’importuna, sempre alla sua destra, sull’orlo del molo, le sembrava una spia pericolosa, quasi una rivale gelosa che la seguisse per far magari, al momento opportuno, uno scandalo. Del resto il giovane sembrava più preoccupato dei ragazzi del borgo che della signorina in celeste: pareva non la vedesse neppure, un po’ chino come a guardare i pesciolini allegri che affioravano sull’acqua trasparente, in una rete d’oro che ondulava intorno ad essi senza volerli pescare. Anche il cane, piccolo e duro, li guardava: ma i suoi occhi, pur riflettendo il lucente gioco dell’acqua, sembravano, nella bautta marrone che li circondava, attoniti e tristi come quelli della volpe della ragazza.
Ella d’un tratto, impazientita, se la tolse, questa volpe, e la sbatté; poi sedette su uno dei ceppi levigati dei pali che circondavano l’estremità del molo, e sollevò il viso con aria di sfida, anzi con un po’ di sfrontatezza. L’altra sedette anche lei, due ceppi distante, e le voltò un po’ le spalle guardando il tramonto. Sullo sfondo ardente, dentellato dal profilo della pineta, ella parve disegnarsi su una lamina d’oro con l’estremità azzurra del vestito sciolta nell’azzurro del mare. E gli occhi non si vedevano mai, anche adesso che l’altra li cercava coi suoi, cupi e avidi di peccato, di dispetto, col riflesso del sole che pareva li iniettasse di sangue.
E perché quel badalucco rimaneva impalato là in mezzo alla palizzata, con la catenella del cagnolino da signora fra le dita intrecciate sulla martingala della sua giacca, anch’essa di un taglio femmineo? Ebbe voglia di avvicinarlo, di sollecitarlo lei: ma d’improvviso sentì vergogna e anche umiliazione: e forse anche un po’ di orgoglio. Le pareva che l’altra sapesse tutto, di lei e dei suoi cattivi propositi, e dentro di sé la irridesse: questo, più che l’ambiguo contegno del giovane, la irritava e l’umiliava. Ma questa stessa contrarietà le fece, per un momento, apparire il quadro grigio della casetta, ove la nonna, povera e irsuta come una vecchia bestia da fatica, puliva il pesce per la loro cena: povera e irsuta, sì, ma col peso degli anni e dei lunghi dolori, e della pazienza e dell’amore, gettato sulla schiena come il sacco del frumento sulla groppa dell’asino.
Il sole intanto andava giù, rosso infocato; anche il mare si faceva rosso, e il vestito azzurro risplendeva, ma come rischiarato dallo splendore interno del corpo della sconosciuta. E, ormai sicura ch’ella non se ne sarebbe andata, l’altra le volse anche lei le spalle e guardò le paranze che si libravano fra cielo e mare, sul tremulo fuoco dei loro riflessi. E là erano gli uomini della sua razza, le statue di stracci e di sale, sempre in lotta con la povertà e la morte: ma in questo momento anch’essi risplendevano come statue d’oro.
La prese una specie d’incantesimo; ricordò la notte in cui suo padre era stato divorato dal mare. Qualche cosa, però, la trasse subito dall’abisso spaventoso di questo ricordo; le parve di cadere, come si cade nei brutti sogni, e di svegliarsi di soprassalto col sollievo di aver solo sognato.
Allora si volse e vide che l’uomo se n’era andato e sentì un disgusto, un profondo disprezzo per lui; e nello stesso tempo un senso di gioia per constatarne in tempo la vigliaccheria.
Si alzò; guardò in viso la fanciulla che rimaneva al suo posto, ma aveva volto finalmente gli occhi verso di lei. E anche questi occhi erano azzurri, di quell’azzurro che si vede negli archi.
Anni dopo, in cima al molo, raccontò, a modo suo, l’avventura al rude e arguto marito, padrone di una bella coppia di paranze; egli sorrise e le disse:
— Era l’angelo custode.
Fine.
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TITOLO: L'angelo
AUTORE: Grazia Deleddda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)