L’anellino d’argento
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 5 minuti
In Sardegna esistono ancora le case delle fate. Solo che queste fate erano piccolissime; piccole come bambine di due anni, e non sempre buone, anzi spesso cattive: in dialetto si chiamavano Janas e ancora è in uso una maledizione contro chi può averci fatto qualche dispetto: – Mala Jana ti jucat – mala fata ti porti; vale a dire, ti perseguiti.
Il mio sogno, da bambina, era di visitare queste domos de Janas e poterci penetrare: ma essendo esse lontane dall’abitato, per lo più in luoghi deserti e rocciosi, la cosa non era facile.
Le storielle che un servetto d’ovile raccontava ogni volta che veniva in paese per cambiarsi la camicia e per andare a messa, aumentavano il mio desiderio.
Questo servetto raccontava dunque di aver più volte visitato le domos de Janas, e abbassava la voce nel descriverne i particolari. – La porta è bassa e stretta, fatta con lastre di pietra; e bisogna entrare carponi: sulle prime non si vede che una piccola stanza, un antro tutto di sassi, dove si rifugiano le bisce e le lucertole; ma se tu hai la pazienza e l’avvertenza di cercare, troverai una pietra mobile che gira come un uscio, ed è la vera entrata alla casa delle Janas. Ancora bisogna penetrare carponi, ma subito ti trovi in una stanza alta più di sette metri, tutta dorata come un pulpito, con la vôlta dipinta di stelle; tu vedi di fronte a te, per migliaia di usci spalancati, una fila di stanze, una più bella dell’altra, che finiscono in una loggia sul mare.
Questo era il particolare che più affascinava: questo sboccar della misteriosa casa sotterranea nell’infinito respiro del mare.
Ma poco c’era da credere a quanto raccontava il servetto. Era un ragazzo visionario, sempre malato di febbri malariche, e quello che sognava nei suoi delirî lo dava per vero, credendoci lui per il primo. Così, conosceva tutta una folla di rispettabili personaggi, dal diavolo grande al folletto “Surtòre”, che sta nelle case ma nessuno lo vede, e nasconde gli oggetti, aizza le donne a far pettegolezzi, apre la porta ai vampiri che succhiano il sangue ai bambini.
Raccontava di aver veduto nella solitudine dei monti una torma di cervi guidati da un pastore che aveva pure lui le corna ramate come quelle del suo agile gregge: ebbene, questo pastore era il diavolo e i cervi anime dannate di ladri.
Raccontava di aver veduto in riva al mare un bellissimo bambino coi capelli d’oro e gli occhi celesti, che con una conchiglia prendeva l’acqua marina e la spandeva intorno: e sull’arida sabbia spuntavano il grano e la vigna: e questo bambino era Gesù!
Giganti e nani lo andavano a trovare, quando era solo nell’ovile a guardare le pecore, specialmente nei giorni di nebbia quando è più facile dileguarsi e nascondersi.
Infine egli possedeva un anellino di argento con una piccola perla ch’era poi un pezzettino di cristallo entro il quale si riflettevano i sette colori dell’iride: ebbene, egli affermava di essere un giorno, dopo una tempesta, riuscito a trovare il punto preciso dove comincia l’arcobaleno: lì aveva scavato e trovato l’anello che a chi lo possiede permette d’inventare cento e una storiella in una sola sera.
Quest’anellino era l’unica prova concreta di quanto egli raccontava: perché ad inventare storielle meravigliose, davvero bisognava lasciarlo solo.
Ed ecco che cosa avvenne. Un anno, in un settembre tiepido e verdiccio come un principio di primavera, ci si trovava a Valverde, che è una bellissima vallata tutta roccie e macchie, in una cui falda solitaria sorge una chiesetta che si dice costrutta anticamente da un bandito per penitenza ed espiazione dei propri peccati.
Bel posto, bei giorni che erano tutti una poesia: ogni ora un verso, ogni giorno una strofa armoniosa.
Ed ecco una domenica capita il nostro ragazzo che portava un cero alla Madonna della chiesetta, per parte della sua nonna paralitica. Dopo aver con grande devozione pregato e deposto il cero, venne fuori e propose a me e ad alcune mie amiche di andare con lui a vedere le domos de Janas che egli diceva essere lì a due passi.
E si andò. I due passi però si raddoppiavano per sé stessi, come i famosi granellini di miglio della leggenda: due, quattro, otto, sedici, trentadue, sessantaquattro, ecc. Si saliva e si scendeva per un sentieruolo scosceso: ecco, le case delle fate sono lì, in quella collinetta tutta di pietre dove svolazzano certi uccellacci che stridono e fischiano come il vento. A dire la verità qualcuno ha paura: se quei grandi uccelli neri fossero uomini malvagi tramutati così dalle fate?
Il ragazzo ci fa coraggio.
— Macché, non vedete che sono corvi e cornacchie? Ci deve essere lassù qualche carogna di bestia o magari qualche uomo morto, e se lo pappano.
Una bambina cade e si mette a piangere.
— Ben ti sta, – dice lui, – perché sei venuta senza il permesso dei tuoi genitori!
E chi ce l’ha questo permesso? Si dovrebbe ruzzolare tutte in fondo alla valle.
— Coraggio, coraggio, ci siamo: ecco la porta, la vedete? Quella tra quattro pietre sotto una macchia di lentischio.
Si vede infatti un buco nero, ma è in alto, fra un cumulo di roccie, e solo gli uccelli ci possono arrivare.
E se ci fosse qualche uomo nascosto, qualche malfattore che ci volesse far del male? Infatti si sente d’improvviso un fischio acutissimo che pare ci voglia spazzar via; e tutta la combriccola, compresa la nostra brava guida, si ferma esterrefatta.
Per darci prova del suo coraggio, il ragazzo si avanza e risponde al fischio con un fischio provocante che pare dica al nemico nascosto: – Se hai del fegato vieni fuori.
Il fischio non si ripete, ma dall’alto delle roccie comincia a venir giù una pioggia di sassi che colpiscono qualcuno della compagnia. Gli uccellacci stridono:
— Ben vi sta, ben vi sta, ragazzine: poiché siete in cerca di avventure, senza il permesso dei genitori.
Il ragazzo comincia ad urlare, con la mano sulla bocca, insultando e chiamando fuori il nemico nascosto: poi grida:
— Ferme tutte – e si slancia all’assalto della rocca.
Ma arrivato al buco che secondo lui era la porta delle fate, una mano lo spinge giù a tradimento, ed egli rotola come un gomitolo, senza, fortunatamente, farsi gran male, lasciando brandelli di vesti fra i cespugli e perdendo di tasca le sue cose.
Due infernali teste di monelli s’affacciano allora alla buca, sghignazzando: ed anche noi della compagnia, ingrate, ci beffiamo della nostra povera guida. Si ride e si scappa; anche il ragazzo è costretto a battere in ritirata perché ricomincia una terribile scarica di sassi; e nel suo sdegno minacciante vendetta egli non si accorge che ha perduto l’anellino d’argento. E l’anellino d’argento me l’ho preso io, e lo tengo ancora.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: L’anellino d’argento
AUTORE: Grazia Deledda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: "Novelle", di Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina ; Volume 5; Bibliotheca Sarda n. 11; Ilisso Edizioni; Nuoro, 1996
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)