Ambientato, come la maggior parte dell’opera di Fontane, nella Berlino della seconda metà dell’Ottocento, L’adultera è uno dei grandi “romanzi al femminile” di questo autore. Fu pubblicato la prima volta a Berlino nel 1882.

Melanie de Capparoux, discendente di una nobile famiglia svizzera, è sposata – apparentemente in modo felice –, dall’età di diciassette anni, con il ricco consigliere d’affari Ezekiel Van der Straaten, di un quarto di secolo più vecchio di lei. Il matrimonio ha prodotto due figlie. La più grande, Lydia, è considerata l’effigie di sua madre, bruna, snella e bella, ma a differenza di lei è sempre seria. Heth, bambina viziata, invece, somiglia a suo padre, ma ha ereditato le risate e la sveltezza di sua madre. Quando Van der Straaten decide di ospitare il giovane Ebenezer Rubehn – figlio di un vecchio amico, arrivato a Berlino per lavoro –, Melanie non può fare a meno di confrontare i suoi modi raffinati e la sua cultura con quelli del suo rude marito, gli atteggiamenti del quale sono spesso per lei fonte di imbarazzo in società e del quale soffre anche la previsione della sua inevitabile infedeltà. Lentamente, la sua crescente inclinazione verso Rubehn la spinge al divorzio, che in quel momento comporta il rifiuto della società e contraddittoriamente delle stesse figlie.

Partendo dalla storia apparentemente banale di un triangolo amoroso, Fontane disegna il ritratto di una donna dai lineamenti sorprendentemente moderni, che è capace di scoprire la grande trappola della vita nella sua comoda e convenzionale esistenza borghese e che decide di fare il passo che la porterà lontano da quella società “per ricostruire se stessa” e quindi sbarazzarsi del “senso meschino che è associato a tutte le bugie”.

Il titolo del romanzo si riferisce a un dipinto del Tintoretto realmente esistente e infatti il titolo originale è in italiano. Il tema non è secondario e pervade l’immagine di apertura della narrazione e, in altra veste, chiude anche il racconto. Quello che divenne oggetto di analisi scientifica per Sigmund Freud nel XX secolo era già formulato da Theodor Fontane nei suoi romanzi come un problema psicologico, estetico e sociale allo stesso tempo: la dipendenza dell’uomo dall’arte come guida in una realtà fin troppo complessa. Opere d’arte, quadri delle più diverse tipologie e provenienze giocano spesso nei romanzi di Fontane un ruolo importante come punti di riferimento per i suoi personaggi e divengono ponte di collegamento tra l’incontro diretto con la realtà e la ‘conoscenza’ della realtà. In questo caso il motivo è introdotto, come detto, proprio all’inizio della storia. Ezekiel Van der Straaten fa fare una copia del dipinto di Jacopo Tintoretto intitolato “L’Adultera” e quando viene consegnata, Melanie mostra pietà per la peccatrice ritratta e il dolore che prova fino alle lacrime non è connesso alla “colpa”, ma all’atteggiamento malevolo di chi la circonda. Ezekiel spiega quindi di aver fatto eseguire la copia come mezzo per abituarsi al pensiero del suo destino futuro, che certamente non può essere evitato, nemmeno se facesse murare la moglie. Sotto questa chiave di lettura L’adultera appare il più “hegeliano” dei romanzi di Fontane, capace di cogliere in maniera sottile e coinvolgente la “triade” religione-filosofia-arte (tesi-antitesi-sintesi) ponendo l’arte come manifestazione sensibile dell’assoluto. La schermaglia tra i due coniugi diventa quindi emblematica delle forme e funzioni estetiche che forgiano il corso dell’azione del romanzo, durante il quale i ‘modelli’ provenienti da vari ambiti dell’arte tratteggiano l’ambiente per mezzo di una strategia testuale dove le percezioni sono utilizzate per strutturare il processo narrativo e per sviluppare un rapporto dialettico, in senso hegeliano, tra narratore e lettore. Su questo rapporto si basa l’intendimento di rappresentazione narrativa dell’autore e i riferimenti alle opere dell’arte sono quindi componenti della struttura del romanzo stesso finalizzati a orientare chi legge; durante la lettura infatti, il contesto estetico di riferimento appare continuo e conduce alla formazione della sintesi. Per approfondire queste riflessioni si può leggere il bel libro di Winfried Jung Bildergespräche : Zur funktion von Kunst un Kultur in Theodor Fontanes “L’Adultera” (Stuttgart, 1991) e quello di Wolfgang Iser Der Akt des Lesens (München 1976).

La ‘sintesi’ si realizza quindi nella fuga con Rubehn, nonostante van der Straaten si offra persino di riconoscere come suo il figlio che Melanie porta in grembo; nella nascita, a Venezia, della terza figlia; e nell’umiliazione suprema che subisce Melanie quando cerca di riavvicinare le prime due figlie. Solo il taglio onesto e completo può consentire a Melanie di riprendere la propria esistenza, anche attraverso l’ostracismo delle vecchie conoscenze e i rovesci finanziari.

Naturalmente il parallelo con il successivo, e più noto, romanzo Effi Briest viene quasi spontaneo. Giovani donne che divengono mogli di un marito molto più anziano quando, ancora giovanissime, non hanno potuto sviluppare pienamente la propria personalità. In entrambi i romanzi assistiamo alla drammatica scena del fallimentare incontro con le figlie abbandonate. Ma le similitudini non vanno molto oltre perché Melanie riesce a impadronirsi della propria sorte e, contrariamente a Effi, ribalta tutte le ipocrisie che sente come limitanti. Sembra quasi che Melanie rappresenti per l’autore la ventata propositiva dell’indipendenza femminile, che al momento di scrivere Effi Briest si è mutata in pacata rassegnazione. Parallelamente, mentre sentiamo simpatia per Ezekiel, Instetten, il marito di Effi, risulta invece odioso nella sua implacabile durezza. Il divergente finale dei due romanzi sembra andare in diretta conseguenza di questa differente impostazione narrativa.

Traduzione del 1935 – la prima italiana di un romanzo di Fontane – ad opera di Angelo Treves, germanista di valore che produce infatti una traduzione di qualità indiscutibile e niente affatto datata. Lo stesso traduttore è noto per essere l’“ebreo” che tradusse per la prima volta in italiano Mein Kampf di Hitler. Morto nel 1937, non fece in tempo a vedere il concretizzarsi compiutamente delle idee che il dittatore nazista aveva già lucidamente espresse nella sua opera. Ma la sua attività di traduzione fu ampia e importante; basti citare, tra tutte, le traduzioni di alcuni romanzi di Sholem Asch, senza dimenticare le traduzioni di Nietzsche, Pierre Louÿs e diversi altri. Nella biblioteca Manuzio sono presenti alcune sue traduzioni, gli Scritti Minori di Stirner e La torre dei popoli di Ryner.

L’unica trasposizione cinematografica è del 1982 con il titolo Melanie van der Straaten, diretto da Thomas Langhoff, film che mi pare non abbia mai goduto di un’edizione italiana.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Il Consigliere di commercio, Van der Straaten, abitante nella Grosse Petristrasse, 4, era uno dei più cospicui finanzieri della capitale. Questo fatto era poco alterato dalla circostanza che la considerazione di cui godeva era piuttosto commerciale che personale. In Borsa era apprezzato in modo assoluto, in società in modo relativo. A quanto si diceva, il motivo principale di ciò era questo, ch’egli era stato troppo poco «all’estero» e aveva trascurato l’occasione di acquistarsi un’educazione mondana di valore generale o anche solo di appropriarsi i modi convenienti alla sua posizione sociale. Certi viaggi a Londra e a Parigi, intrapresi di recente e che non erano durati mai più d’un paio di settimane, non avevano notevolmente mutato questo stato di cose. In ogni caso, non gli avevano tolto la sua specifica impronta berlinese né la sua predilezione per i modi di dire un po’ crudi e per le sentenze grossolane. Egli (per presentarlo con una delle sue espressioni favorite) «non voleva fare del suo cuore una spelonca di assassini»; figlio di ricchi genitori, sin dalla giovinezza s’era avvezzato a fare e dire tutto ciò che aveva voglia di dire e di fare.

Scarica gratis: L’adultera di Theodor Fontane.