«La sera del 21 settembre 1945, io morii».
Con questa frase, Seita apre La tomba delle lucciole (Hotaru no haka), il film più devastante mai realizzato sull’infanzia e sulla guerra. Isao Takahata, adattando il racconto semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka, nel 1988 consegnò al mondo non un semplice lungometraggio animato, ma un requiem universale: per i bambini, per gli innocenti, per l’umanità stessa.
Due fratelli, Seita e Setsuko, soli tra le macerie di Kobe, cercano di sopravvivere mentre la guerra divora ogni legame. Non ci sono eroi né battaglie: soltanto fame, indifferenza e morte. Un realismo neorealista, dentro a un’animazione che non consola ma lacera. Le lucciole che illuminano per un attimo la grotta dei due orfani diventano simbolo di vite fragili e splendenti, destinate a spegnersi troppo presto.
Quelle stesse lucciole brillano oggi in altri cieli, prima di essere inghiottite dall’oscurità: in Ucraina, in Caucaso, nel Mar Nero.
L’imperialismo crepuscolare
Come ci ricordano le ultime vicende geopolitiche, l’avventurismo militare di Vladimir Putin non ha nulla della spinta prometeica che animava l’Unione Sovietica. Non c’è più la retorica della liberazione proletaria, non c’è nemmeno la ricerca di uno “spazio vitale” che, nel bene e nel male, animava altre potenze imperiali.
C’è piuttosto una logica disperata: mantenere in vita un mito di grandezza che il tempo e la demografia stanno smantellando. La Russia del XXI secolo è un gigante di materie prime, non di tecnologia; un Paese di rendita, incapace di competere lungo i confini dell’intelligenza artificiale o della rivoluzione digitale. Il Cremlino destina quasi metà del bilancio agli armamenti, ma dipende dai droni iraniani per il suo esercito.
Eppure, proprio perché prigioniera di questo declino, Mosca incendia i confini. Se il mondo ritrovasse la pace, la Russia verrebbe presto stritolata dalla pressione della Cina: 1,4 miliardi di abitanti contro 143 milioni, una potenza economica che guarda con cupidigia alla Siberia spopolata. In questa equazione geopolitica, l’unico modo per sopravvivere come potenza è destabilizzare: esportare guerra per ritardare l’inevitabile.
È un imperialismo crepuscolare, che non costruisce ma consuma, che non apre al futuro ma brucia il presente.
Bambini come vittime, popoli come ostaggi
Quando Takahata mostra Setsuko che muore di fame, non parla solo del Giappone del 1945. Parla di Mariupol, di Kharkiv, dei campi profughi lungo le frontiere europee. Parla di ogni popolo che ha visto sacrificata la propria infanzia sull’altare del potere adulto.
La politica estera di Putin, come la tragedia di La tomba delle lucciole, non è una vicenda di soldati ma di bambini. Sono loro le prime vittime, non soltanto delle bombe, ma della fame, della perdita della casa, della cancellazione dell’avvenire. È un crimine universale: la guerra come negazione stessa dell’infanzia.
Ecco il paradosso: la Russia cerca di affermarsi come potenza, ma nel farlo rivela di non avere futuro. Un Paese che consuma i propri figli – biologici e simbolici – non costruisce grandezza: semina solo fantasmi.
Il rebus irrisolto
«La Russia – diceva Churchill – è un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma». Oggi quel rebus appare ancora più tragico: una nazione troppo grande per sopravvivere senza conflitti, troppo fragile per reggere la pace.
E allora la scelta diventa la più crudele: incendiare l’Europa per mascherare la debolezza interna. Scatenare guerre, fomentare instabilità, usare “quinte colonne” politiche per minare l’Unione Europea. Tutto pur di non guardare in faccia l’incubo più temuto dal Cremlino: una Russia marginale, ridotta a serbatoio di risorse per la Cina.
Le lucciole e la memoria
Nel finale del film di Takahata, le lucciole si spengono una a una, come i respiri dei bambini sacrificati alle logiche degli adulti. La domanda di Setsuko rimane la più attuale e la più atroce:
«Perché le lucciole devono morire così presto?»
Oggi potremmo aggiungere:
«Perché i bambini devono morire per il potere degli imperi?»
La risposta non consola: perché il potere cieco non conosce pietà. Ma proprio in questo dolore, l’opera di Takahata ci consegna una missione: ricordare che nessuna vittoria vale quanto un solo respiro di un bambino.
Finché il mondo non lo comprenderà, continueremo a vivere tra tombe di lucciole e imperi senza futuro.




