La regina Bella. Fiaba.

di
Enrico Castelnuovo

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I.

In un tempo molto lontano da noi fioriva il regno di Valfelice, e se non l’avete mai sentito nominare, v’assicuro, miei cari fanciulli, che non è colpa mia. Quando successe il fatto che m’accingo a raccontarvi, sedevano sul trono due giovani sposi, il re Troilo e la regina Bella. Guerriero valoroso, legislatore sapiente, il re Troilo aveva la disgrazia di ceder troppo spesso all’ira e al sospetto, e l’ira e il sospetto gli facevano commetter delle ingiustizie che il suo smisurato orgoglio gl’impediva poi di riconoscere e di riparare.

In quanto alla regina Bella, bisogna dire prima di tutto che il suo nome era proprio indovinato. Se l’aveste veduta co’ suoi capelli d’oro che quand’eran sciolti le arrivavano fino ai piedi, se l’aveste veduta co’ suoi occhi azzurri e profondi, con la sua carnagione di latte e di rosa, con la sua persona alta, snella, pieghevole ed elastica come un giunco, ah miei piccoli amici, non dubito che sareste rimasti estatici ad ammirarla. Essa aveva poi un’altra qualità singolare; possedeva una voce divinamente armoniosa e una fantasia inesauribile. Nessuno raccontava una storia con la grazia con cui la raccontava lei, nessuno sapeva meglio incatenar l’attenzione degli uditori, specialmente quando ne’ punti più commoventi ella s’accompagnava sopra una cetra e la sua voce, ora si alzava superba come un trillo d’allodola, ora mormorava flebile come un gemito di colomba. Perché convien notare che, in que’ tempi remoti, la poesia, il canto, la musica si confondevano spesso insieme.

Non occorre di soggiungervi che la regina Bella adorava il suo unico figlio Sirio, un amor di bambino, il quale era gracile ed eccessivamente nervoso, e negli accessi a cui andava soggetto voleva sempre la mamma al suo capezzale e non s’acquetava che sentendo i racconti della mamma, il canto della mamma.

Può darsi che insieme con tante buone qualità la regina avesse anche i suoi difettucci, ma chi di noi è senza difetti?

Ora volle la sfortuna che la regina Bella destasse da un dì all’altro la collera del re Troilo, per ragioni che a noi non importa d’investigare. E poiché allora s’andava per le spicce, egli con giudizio definitivo ed inappellabile condannò a morte la sposa.

Diede quindi ordine di condur la regina in alto mare e di gettarla nei flutti chiusa in un sacco. L’esecuzione della crudele sentenza venne affidata ad un vecchio cortigiano che la regina aveva offeso in un istante di leggerezza e che s’era lasciato scappar dei propositi di vendetta.

— Oggi — gli disse il re — tu hai la buona ventura di poter sfogare gli antichi rancori e di rendere un servigio al tuo sovrano. Guai a te se non rispondi degnamente a questa prova di fiducia. Il giorno in cui io potessi supporre che la regina si fosse salvata, ti farei strozzare come un cane.

Voi vedete, miei cari amici, che il re Troilo aveva almeno il merito di spiegarsi chiaro.

Convien però dire che anche i re qualche volta manchino di chiaroveggenza; perché Narciso (il vecchio cortigiano si chiamava così) era la persona meno acconcia a un ufficio tanto spietato. Impetuoso e violento nonostante i suoi settant’anni, Narciso aveva molta generosità d’animo, e se era pronto a sfidare un nemico potente, non era uomo da calcar il piede sul collo d’un nemico caduto. Egli dimenticò quindi in quel momento l’ingiuria fattagli dalla regina e solo avvisò ai mezzi di sottrarla alla morte. Sapendo però che coll’opporsi apertamente al re egli non avrebbe fatto che sacrificar sé stesso senza salvar lei, s’appigliò al partito di dissimulare e ringraziò il sovrano del delicato incarico che gli affidava. Non dubitasse, sarebbe servito a dovere.

Alla povera regina non fu nemmeno lasciato il tempo di baciar il suo bambino. Mentre, sull’imbrunire, ella passeggiava senza sospetto in un viale poco lungi dalla spiaggia del mare, tre uomini s’impadronirono di lei, le fasciarono la bocca, le bendarono gli occhi e la trasportarono di peso in una barca che prese il largo appena che essa vi fu deposta.

Lo spavento aveva fatto svenire la povera donna e voi potete immaginarvi ciò ch’essa provasse quando si risentì e si trovò in alto mare a faccia a faccia con Narciso e coi rematori sconosciuti.

Con un profondo inchino, Narciso le presentò il fatale decreto portante il regio sigillo.

La regina Bella era donna, era giovine, era madre, e aveva quindi mille ragioni per temere la morte. E se avesse creduto di poter con le sue preghiere e le sue lagrime stornar da sé il crudele destino, io tengo per fermo che si sarebbe abbassata a piangere e a pregare.

Ma essa conosceva il carattere irremovibile del suo sposo, vedeva d’essere in mano a un nemico e stimava indegno di sé il perdersi in vane querele.

Onde, alquanto pallida in viso e con un leggiero tremito nella voce soave — Sta bene — ella disse. — Sia fatta la volontà del mio principe che mi condanna senza ascoltarmi. E tu, Narciso, esulta pure della mia morte. Sei nel tuo diritto; potevi però esser più generoso… Ma basta di ciò, — soggiunse. — Che cosa aspetti per eseguir la sentenza?

— Aspetto — egli rispose — che la notte sia scura, che la terra sia lontana.

— Temi forse — domandò la regina con un triste sorriso — temi ch’io possa salvarmi?

In quel momento il sole si nascondeva nell’occidente. — Ah! — esclamò la regina bevendone cogli occhi gli ultimi raggi. — Non lo vedrò più.

Non c’era una nuvola in cielo, il mare non faceva una grinza; non si udiva altro rumore che quello dei remi che s’immergevano tutti in un colpo nell’acqua. Quando le prime stelle cominciarono a tremolare nel firmamento — Ebbene — disse la regina Bella — non è ancor tempo?

— Non ancora — replicò Narciso.

Essa si tolse di dosso le cose preziose che aveva, e le consegnò a Narciso con queste parole. — Sono doni del re e li riporterai al re. Portagli anche questo anello — e si levò dal dito una splendida gemma — pregandolo in mio nome che lo dia un giorno a nostro figlio come ricordo della sua mamma — Oh Sirio, Sirio, la tua mamma non cullerà più i tuoi sonni, non calmerà più co’ suoi racconti e col suo canto i tuoi nervi ammalati.

A un cenno di Narciso, i rematori cessarono di vogare e ritirarono i remi entro la barca.

— Devo entrar da me in quel lurido sacco? — chiese la regina Bella credendo che quello fosse il segnale.

— No, regina; conviene che prima i rematori si ristorino.

Alcuni vasi di vino furono tolti dalla stiva e distribuiti fra la ciurma.

— Mi tocca anche l’umiliazione d’assistere all’orgia di costoro — disse sdegnosamente la regina.

Ma ben presto ella vide una cosa che la empì di maraviglia. A uno a uno tutti gli uomini chiusero gli occhi, chinarono la testa sul petto e si addormentarono profondamente.

Allora Narciso esclamò trionfante: — Regina, sei salva.

— Come mai ? — disse la regina non credendo a sé stessa.

— Nel vino bevuto da que’ marinai — egli rispose — io avevo sciolto una droga d’effetto infallibile. Essi non si desteranno che di qui a sei ore. Questo tempo è più che bastevole per metterti al sicuro.

— Oh Narciso — proruppe commossa la regina Bella — come ti avevo mal giudicato!

— Le apparenze mi condannavano; ma non ci conviene perderci in chiacchiere… Mentre, consultando le stelle, io dirigo la barca a un’isola ove avrai un asilo, tu devi spogliarti de’ tuoi abiti, sciogliere i tuoi calzari, rimanere con un semplice guarnellino, tantoché quelli che ti accoglieranno non possano mai suppor chi tu sia.

La regina ubbidì. La ciurma seguitava a dormire russando; Narciso con vigore ammirabile faceva da timoniere e da rematore.

Voga, voga; aguzzando l’occhio, al pallido chiarore delle stelle cominciò a scorgersi un punto nero sull’orizzonte.

Voga, voga; quel punto nero si fece più grande e prese una forma distinta; era un’isoletta.

— Quell’isoletta, chiamata per la sua piccolezza l’isola Minima, mi fu donata dal padre del re — disse Narciso. — Non vi abita che una famiglia di pescatori la quale mi è interamente devota.

— E mio figlio quando lo rivedrò?

— Per ora non lo vedrai… Un giorno, chi sa? Il re potrebbe pentirsi di quel che ha fatto, e allora io gli rivelerei il segreto.

— Oh — sospirò la regina — il re non si pente mai di quello che fa… Non vedrò più mio figlio, mai più.

— Silenzio, Maestà, siamo arrivati.

La barca entrò in un seno buio ed angusto, cinto tutto all’intorno da rupi scoscese.

La regina, vestita del semplice guarnello che mal la copriva, sedeva rannicchiata sulla prora tenendosi le mani intrecciate sul petto.

— Maestà — disse Narciso avvicinandosele rispettosamente — i tuoi piedi scalzi e delicati non possono calcar queste rupi. Permettimi di portarti fra le mie braccia.

E poiché essa esitava, egli soggiunse: — Regina, io ebbi una figlia bella quasi come tu sei… Quando morì aveva la tua età… Fa’ conto in questo momento d’esser mia figlia.

Essa si lasciò prendere in collo dal vecchio, i cui capelli bianchi si confondevano co’ suoi capelli biondi.

— E se questi uomini si svegliassero? — disse la regina volgendo lo sguardo ai dormienti.

— Sii tranquilla, regina, essi non si sveglieranno per ora.

Così Narciso e la regina Bella scesero dalla barca e per un sentiero irto di sassi e di pruni giunsero davanti a una casipola al cui muricciuolo erano appese alcune reti.

Narciso picchiò più volte all’uscio.

— Chi è? chi è? — dissero due voci ad un tempo.

— Sono io, sono Narciso, aprite.

Un uomo e una donna s’affacciarono sulla soglia. La donna, tutta tremante, teneva in mano un lume.

— Accogliete — ordinò loro Narciso — la giovine che vi consegno. Non domandatele mai chi essa sia, né donde venga. Non dite a nessuno dei vostri figli in qual modo sia capitata. E se mai usciste dall’isola o altri approdasse qui, badate bene di non lasciarvi sfuggire una parola circa a quanto è accaduto questa notte. Il vostro silenzio sarà forse un giorno largamente ricompensato, la vostra indiscrezione vi attirerebbe cento castighi terribili.

— Noi siam cosa tua — risposero Cimone e Neera (ché così si chiamavano i due coniugi, — disponi di noi a tuo talento. Non la speranza di un premio, non il timore di un castigo c’indurrà a eseguir puntualmente i tuoi ordini; sì la riverenza che ti dobbiamo come a nostro padrone e signore. Noi non mancheremo all’obbligo nostro di proteggere, di custodire la persona che tu ci affidi in questa notte.

Rassicurato così, Narciso si accommiatò dalla regina, la quale reprimendo a stento i singhiozzi gli stringeva la mano e gli sussurrava all’orecchio: — Fa’ ch’io possa rivedere presto mio figlio.

In pochi minuti egli fu di nuovo nella barca ove i dodici marinai erano sempre immersi nel sonno. Prese le vesti smesse appena dalla sua sovrana e le accomodò dentro al sacco che riempì di zavorra e di sassi tanto da dargli una forma conveniente.

Ciò fatto, Narciso pose mano ai remi e si allontanò rapidamente dall’isola. Era giunto appena in alto mare quando i dormenti diedero, quasi tutti ad un tempo, segno di risvegliarsi. Stirarono le mani, le gambe, si fregarono gli occhi e si guardarono intorno con aria di smemorati. Il mare era sempre placidissimo, il cielo sereno; ma le stelle cominciavano a scolorarsi e un leggiero incarnato all’estremo oriente annunziava l’alba vicina.

— Su, su poltronacci — gridò Narciso accennando una torcia a vento; avete dormito anche troppo. Ho voluto aspettare che vi risvegliaste per eseguire i comandi del re.

I marinai videro che il sacco era già pronto e si alzarono per aiutar Narciso a gettarlo nell’acqua.

— No — egli disse — io solo ho il diritto di toccar la sovrana.

Consegnò la torcia a quello tra i rematori che gli era più vicino, si chinò a prendere il sacco e con le sue braccia nerborute lo sollevò fin sopra la testa. Al lume della fiaccola, nei punti ove la tessitura era più rada, apparivano scintillando le pagliuzze d’oro dell’abito della regina.

— Così perano tutti i nemici di Sua Maestà — soggiunse Narciso slanciando il suo fardello nei flutti.

L’acqua si commosse un istante; poi ripigliò la sua quiete maestosa.

— E adesso, vogate con lena — disse Narciso — tantoché ci sia dato afferrar la riva prima che il sole sia alto.

Giunto al cospetto del re Troilo, Narciso si prosternò fino a terra e pronunziò queste poche parole: — La tua volontà è compiuta.

In pari tempo egli depose ai piedi del monarca le gemme consegnategli dalla regina e gli ripeté la preghiera di far avere un giorno l’anello al principe Sirio come ricordo della madre.

Il re, senza manifestare la minima commozione, rispose:

— Dammi pure l’anello e deciderò io quello che convenga farne. In quanto alle altre gemme tienle per te come premio de’ tuoi servigi. Né basta; io ti nomino duca e mio primo ministro.

E poiché Narciso tentava schermirsi, il re, non avvezzo a esser contraddetto, disse in tuono imperioso: — Lo voglio.

II.

Tutti sapevano la sorte ch’era toccata alla regina Bella; ma nessuno osava parlarne perché era pubblicato un decreto con cui si proibiva, sotto pena di aver mozza la lingua, di nominare la defunta principessa. La reggia di Valfelice non pareva più quella d’un tempo. Nelle udienze, nelle feste, nei ricevimenti solenni, ognuno rammentava l’affascinante sovrana con que’ suoi grandi occhi azzurri, con que’ suoi lunghi capelli d’oro, con quella sua voce incantevole. E nessuno, in cuor suo, perdonava al re d’averla immolata barbaramente a un impeto d’ira, e nessuno perdonava a Narciso d’essersi reso ministro della crudele sentenza.

Colmo di ricchezze e d’onori, Narciso era l’uomo più aborrito di tutto lo Stato e potete immaginarvi s’egli ne soffrisse sapendosi innocente e dovendo pur riconoscere che gli altri non avevano torto a ritenerlo colpevole. Onde alla lunga gli fu impossibile rimanere alla Corte, e il re, sebben riluttante, finì coll’accordargli la sua licenza. Il vecchio si ridusse a vivere in una magnifica villa lontana dalla capitale, coltivando i suoi fiori e spiando il momento in cui gli fosse concesso di giovare alla regina Bella.

Voi che volete tanto bene alle vostre mamme, intenderete senza difficoltà, o fanciulli miei, quale dovesse essere il dolore di Sirio allorché egli non vide più la sua genitrice. Tentarono prima di dargli ad intendere che essa era partita per un gran viaggio, ma poiché egli ne domandava conto ogni giorno, si decisero a dirgli ch’era morta e che il re desiderava ch’egli la dimenticasse. All’età di Sirio, il quale aveva appena cinque anni, la morte è qualche cosa d’incomprensibile; si capisce soltanto che i morti sono andati in un luogo da cui non si ritorna più. E quest’idea aumentò fuor di misura l’afflizione del nostro povero bambino, che, come sappiamo, era di fibra delicata e nervosa. Mangiava appena quel poco ch’era necessario per non morire di fame, non c’era nulla che lo divertisse, nulla che lo facesse sorridere. Gli accessi a cui egli andava soggetto dalla nascita eran diventati più acuti, più frequenti, più minacciosi, e sebbene i racconti, la musica, la poesia riuscissero sempre a calmarlo alquanto, il rimedio era ben lungi dall’aver l’antica efficacia. Questo stato di cose s’aggravò singolarmente, prima che passasse l’anno e i medici non nascosero al re le loro inquietudini, confessando da uomini leali, ch’essi non sapevano più che farmachi ordinare.

Ora io vi dirò che ne’ due punti estremi del regno di Valfelice c’erano due templi, celebri pei loro oracoli. I ministri di quei templi si vantavano di potere, in determinati casi, metter in comunicazione gli uomini con le Divinità, per avere da quelle, a viva voce, suggerimenti e consigli. Da uomini furbi quei ministri dei templi, stando nascosti rispondevano essi stessi per solito in modo incomprensibile e non s’arrischiavano a usare un linguaggio più preciso se non nelle poche volte in cui credevano di vederci chiaro. Così mantenevano la loro riputazione e intascavano quattrini a josa.

Al re Troilo non dispiaceva che il suo popolo avesse fede negli oracoli, ma egli non li pigliava punto sul serio: come quei dottori i quali prescrivono ai loro clienti delle medicine che si guarderebbero bene dall’usar per sé stessi.

Nondimeno, in questa occasione, visto riuscir vano ogni altro mezzo, il re s’indusse, anche per considerazioni politiche, a interrogare i due oracoli dello Stato, ed ecco qual fu il responso del primo.

Non entrerà per la bocca, ma per gli orecchi; non dalla mano di un uomo, ma dal labbro di una donna verrà la salute del principe Sirio.

Il secondo disse su per giù le medesime cose.

Chiamati gl’interessati essi furono d’accordo nel significato da dare alle parole degli oracoli. Solo una femmina esperta nel canto e nella poesia poteva scuotere il principe dal suo torpore e produrre nel suo stato una crisi benefica.

Allora, nel regno e fuori del regno, fu bandita una specie di gara. Quante, zitelle o maritate, si credevano in grado di cimentarsi alla prova venissero alla reggia. Ricchi doni sarebbero stati distribuiti fra quelle che avessero, anche temporaneamente alleviato le sofferenze del principe; quella poi che lo avesse guarito fidasse nella larga munificenza del sovrano. E se essa era di nobil prosapia e di aspetto piacente, il re Troilo le lasciava balenar la speranza di farla salire al suo fianco sul trono di Valfelice.

Il duca Narciso il quale, nella sua solitudine, era informato di ciò che succedeva alla Corte, e da quanto si seppe più tardi aveva suggerito la risposta degli oracoli, il duca Narciso comprese ch’era giunto il momento di tentare un gran colpo in favore della regina Bella e partì in silenzio per l’Isola Minima.

La regina Bella sedeva ogni giorno per molte ore vicino al parapetto di una terrazza che guardava sul mare. Essa pensava al passato, pensava alla sua casa, pensava al suo Sirio di cui nessuno veniva a darle notizie. O che faceva Narciso? S’era dimenticato di lei!

Quando, dopo sì lunga attesa, ella vide una barchetta approdare all’isola Minima, e Narciso, ritto sulla prora, farle cenno con la mano, le fuggì un grido dal petto e corse a precipizio sulla spiaggia.

— Sirio… come sta il mio Sirio?

Narciso, che aveva appena messo il piede a terra domandò: — Siamo soli?

— Sì — rispose la regina — Cimone e Neera coi figli sono all’altra estremità dell’isola a pescare… Ma tu dimmi subito, che ti conduce qui?… Sirio… mio figlio?… Parla dunque.

— Regina Bella — rispose Narciso — tu sola puoi salvarlo.

— Ah! il cuore me lo diceva… Mio figlio è infermo, mio figlio sta per morire… E io, disgraziata che sono, che cosa posso fare per lui.

— Hai coraggio d’affrontare un pericolo?

— Un pericolo, tu dici?… Mille, se occorre… Io darei la vita pel mio Sirio.

— Ebbene; può trattarsi anche della vita.

— Che importa?… Parla.

Non ci volle molto ad intendersi, e fu convenuto che la regina sarebbe partita immediatamente in compagnia di Narciso, e nelle sue umili vesti e nascondendo il sembiante si sarebbe presentata con lui alla Corte per prendere parte alla giostra singolare che era stata bandita.

— Pensa però — le fece riflettere il duca ancora una volta — pensa che se tu potrai conservare l’incognito prima della prova, difficilmente potrai conservarlo dopo. Sia che tu fallisca, sia che tu trionfi, il re vorrà vedere il tuo volto. E allora…

— Allora se il re sarà inesorabile, mi farà troncare il capo — essa disse. — Nulla può accadermi di peggio… Morrò contenta se avrò salvato mio figlio, morrò rassegnata se mi sarò persuasa che neppure io valgo a salvarlo… Ma di te — ripigliò dopo una breve pausa — di te, mio buon Narciso, che cosa avverrà?

— Regina — egli rispose — all’età mia la vita non ha più lusinghe. Felici quelli cui la sorte concede di morir bene.

Essa gli prese con forza ambo le mani e gliele baciò intenerita.

Allorché Cimone e Neera seppero che la loro ospite partiva, essi ruppero in lagrime. Essa non ci ha mai detto e noi non le abbiamo mai chiesto il suo nome, esclamò Neera — ma noi la chiamavamo Provvidenza. Dacché essa è qui, tutto ci va a seconda… Guarda, padrone — soggiunse la buona femmina rivolgendosi a Narciso — guarda intorno a te… Non ti sembra che l’aspetto dell’isola sia interamente cambiato.

— Si… infatti…

— Vedi, davanti alla nostra casa questa spalliera di rose, questo cespo di gelsomini; è la donna gentile che li ha coltivati; questa macchia di lauri fu piantata da lei, e, cosa più mirabile ancora, questo boschetto di tigli si è per merito suo popolato di rosignuoli che rispondono coi loro gorgheggi al suo canto soave e malinconico.

— Non basta, non basta — disse Cimone. — Essa è l’angelo tutelare de’ nostri figli i quali pendono dalle sue labbra e ascoltano estatici le sue dolci canzoni… Oh perché ce la porti via?

— Amici miei — interruppe Narciso — è vano il querelarsi; noi dobbiamo partire… Forse torneremo un giorno…

— Quando!

— L’avvenire è in mano dei Numi. La regina Bella gettò le braccia al collo di Neera, poi strinse la mano a Cimone e baciò a uno a uno i fanciulli che non sapevano darsi pace della sua partenza e gridavano singhiozzando: — Provvidenza, Provvidenza, perché te ne vai?

Il duca Narciso voleva persuadere Cimone ad accettare una borsa piena d’oro, ma non vi riuscì.

— Che cosa ne faremmo? — disse il semplice pescatore. — Noi siam vissuti felici nella povertà, chi ci assicura che il dolore non verrebbe compagno alla ricchezza?

Tre giorni dopo, Narciso si presentava al re Troilo.

Il re era immerso in profonda tristezza, perché i tentativi fatti sinora per iscuotere il principe dal suo letargo eran rimasti infruttuosi.

Sire — disse Narciso — tu non sei ricorso in quest’occasione al tuo vecchio servo, ma il tuo vecchio servo non rinunzia alla speranza di esser utile un’altra volta a te ed allo stato, Forse l’umile figlia di pescatori ch’io condussi meco riuscirà nell’impresa, in cui fallirono le figlie dei conti e dei duchi.

— Chi è costei! — chiese il re stupito.

— Lo udisti già. Una figlia di pescatori alla quale i Numi concessero estri di poeta e canto di rosignuolo.

— E tal donna meravigliosa si contenta di tender le reti? E dove viveva sinora? E qual è il suo nome?

— Sire, s’essa ti salva tuo figlio che t’importa di saper chi sia? E che t’importa saper chi sia se è inetta a salvarlo?

— Il tuo linguaggio è singolare. A ogni modo, ov’è adesso la donna misteriosa? Bisogna pur ch’io la veda.

— La vedrai, ma nella stanza del principe; la vedrai ma cinta d’un fitto velo. Avvezza alla solitudine, ella non troverebbe né la voce, né l’ispirazione, se dovesse mostrarsi davanti a una Corte.

— È strano, è strano — disse il re. — A ogni modo darò ordine che sia fatto come tu vuoi. Io rimarrò con la mia Corte nell’anticamera… Però credilo, Narciso, anche questo esperimento sarà vano… La sventura entra facilmente nelle case, ma è ben difficile farnela uscire.

Il principe Sirio giaceva su morbidi guanciali di velluto cremisi sotto un bel padiglione dalle frange d’oro. Il suo visetto pallido era quasi interamente nascosto dai ricci biondi che gli scendevano lungo le tempie, le sue bianche manine erano intrecciate sul petto affannoso, i suoi occhi languidi mal sopportavano la luce, la sua bocca non s’apriva che per lamentarsi.

Tutt’al più egli diceva: – Raccontatemi qualche storia. Cantatemi qualche nuova canzone.

Oh, gliene avevano raccontate delle storie, gliene avevano cantate delle canzoni! E donne e giovinette bellissime, sedute ai piedi del suo letto, traendo dall’arpa dolci concenti, modulando con arte squisita la nitida voce, avevano tentato con leggiadre fantasie di rasserenare l’animo del povero infermo.

Egli, per sentirle, si sollevava con mezza la persona, appoggiava al braccio esile la delicata testina, e i suoi occhi brillavano, e un lieve rossore si diffondeva sulle sue gote scarne, ma ben presto ricadeva spossato sui guanciali e mormorava tristamente:

— No, non è questo ch’io voglio.

Quando la regina Bella, accompagnata dal duca Narciso e tutta avvolta in un velo, attraversò l’anticamera del principe, i cortigiani ivi raccolti si misero a bisbigliar sommessamente fra loro. E se non li avesse rattenuti la presenza del re che stava ritto in un angolo con la fronte corrugata e gli occhi fissi al suolo, certo essi non si sarebbero peritati ad esprimere ad alta voce il loro disdegno pel folle orgoglio dell’ignobile pescatrice. E qualcheduno avrebbe senza dubbio manifestato un pensiero ch’era nel cuore di tutti: — La presenza del Duca reca sfortuna. Il principe Sirio morrà prima di sera.

All’apparire di quella figura velata, il fanciullo ebbe un’impressione di sgomento e mise un piccolo grido. Ma la regina, avvicinatasi con passo presto e leggero, si curvò sopra di lui e depose un bacio sulle sue manine del color della cera.

— Oh! — egli mormorò dolcemente — Chi sei?

— Non posso dirtelo, bambino mio.

— Bambino mio! Lo chiamavano Principe, lo chiamavano Altezza. Era tanto tempo che nessuno lo chiamava bambino mio. E poi quella voce! Quando l’aveva egli sentita quella voce?

Aiutato dalla sconosciuta, Sirio si levò a sedere e disse: — Raccontami qualche storia.

La regina sedette sopra uno scanno e principiò:

«C’erano una volta una mamma e un bambino che si volevano un bene dell’anima. La mamma morì…

— O perché — interruppe Sirio con gli occhi molli di lagrime — perché morì?

Ma la regina gli fece segno di tacere, e continuò:

«La mamma morì e il bambino non poté consolarsene, e la cercava in ogni angolo della casa, e la cercava nel giardino ov’essa era avvezza a correr con lui, e la chiamava sempre ch’era uno strazio a sentirlo: — Mamma! Mamma! Mamma!

«E una notte, mentr’egli si agitava nel suo letto senza poter prender sonno, ecco la sua cameretta empirsi d’una luce fantastica, come chiarore di luna, e in quella luce comparirgli davanti la mamma. Era bianca e diafana come l’alabastro, una lunga e candida veste le avvolgeva la persona, i suoi piedi non toccavano terra.»

A questo punto la regina Bella fece una breve pausa e si volse verso Narciso che le diede una cetra d’oro.

Nell’anticamera, il re Troilo, immobile dietro la portiera, sentiva dentro di sé uno strano tumulto d’affetti. Più volte egli avrebbe voluto entrare nella stanza del figlio, strappare il velo all’incognita, o per lo meno ordinarle di troncar la narrazione imprudente che pareva fatta apposta per esacerbare i dolori del principe; ma una forza sovrumana gli annodava la lingua, lo inchiodava al suo posto. Quella voce, oh quella voce!

I cortigiani intanto, trattenendo il respiro, s’erano avvicinati in punta di piedi e si guardavano trasognati. Quella voce, oh quella voce!

La regina Bella trasse dalla cetra alcuni patetici accordi; poi ripigliò:

«— O figlio mio — disse la madre — credi che i tuoi lamenti non giungano sino a me, laggiù nella fossa profonda; credi che se potessi venir di nuovo al tuo fianco non ci verrei?… Ma i morti, bambino, non tornano…

«— Oh mamma, mamma — rispose il fanciullo — se tu non puoi tornare, chi dunque mi parla in questo momento, chi riveste le tue sembianze?

«— Bambino mio — soggiunse la madre — io ho spezzato per un’ora la pietra del mio sepolcro, ma prima che il gallo canti, prima che le stelle impallidiscano, prima che i vivi sorgano dalla loro coltrice, quella pietra deve richiudersi sul mio capo.

«— No, mamma, no, non lasciarmi — gridò sbigottito il figliuolo; — io non posso vivere diviso da te.

«La voce della madre si fece cupa e profonda. — I morti — essa disse in tuono di mistero — non possono tornare ad abitare coi vivi, ma i vivi, oh quelli sì possono andar a stare coi morti… Vuoi seguirmi, o bambino?

«Ed essa tendeva verso di lui le braccia sottili.

«Quelle braccia l’attiravano, oh come! ma lo prese un arcano, invincibile sgomento.

«— Seguirti dove? Laggiù? Oh mamma, mamma, ho paura. Io amo la fragranza dei fiori, amo il cinguettio delle rondini nei cieli azzurri, come la calda luce del sole, e laggiù tutto è tenebre e silenzio.

«— Hai ragione — disse la mamma tentennando tristamente il capo. — Allora addio, mio bambino… sento i brividi precorritori dell’alba… Addio per sempre.

«Ma il bambino ruppe in disperati singhiozzi. — Mamma, mamma… un bacio… almeno un bacio…

«— Non lo sai, anima mia, — esclamò la madre — che le mie labbra sono di gelo?

«— E le mie sono di fuoco — gridò con impeto il fanciullo — O mamma, non andartene senz’avermi baciato.

«Ella stava già per cedere al dolcissimo invito quando il canto del gallo risuonò nel cortile… Si arretrò spaventata.

«— No, non baciarmi. Dovrei portarti meco nella fossa scura e tu mi hai detto che ami la luce del sole, e la fragranza dei fiori, e il cinguettìo delle rondini… No, insensato, che fai?

«Era troppo tardi. Il bambino le si era avvinghiato al collo e faceva sforzi immensi per trattenerla. I suoi baci erano di fiamma, le sue lagrime erano ardenti come la lava dei vulcani. E a quel contatto essa sentiva, la povera madre, un’impressione di calore nelle sue membra assiderate. Ma il fanciullo invece sentiva raffreddarsi il suo corpicino e il cuore rallentare i suoi battiti.

«Fu una lotta lunga, terribile, una lotta fra la morte e vita. Alla fine il fanciullo vinse e trascinò la madre sul suo letticciuolo.»

La voce della regina Bella si spiegò in tutta la sua magnificenza:

«E al novo giorno, prodigio divino!
Sul letto istesso la madre e il bambino
Fur visti in un abbraccio addormentati
Fin che un raggio di sol li risvegliò.

«Oh — disse il bimbo — quanto t’aspettai!
Or non mi devi abbandonar più mai —
Ella il guardò con occhi innamorati
E rispose: — Mai più ti lascerò. —
»

Mentre vibravano ancora nell’aria le ultime note di questo canto, la regina Bella sollevò audacemente il velo che le copriva la faccia, e il piccolo Sirio, riconoscendola, gridò con gioia ineffabile. — Mamma, o mamma mia!

E adesso, miei cari fanciulli, che sugo ci sarebbe a tirare in lungo la storia? Voi potete immaginarvi quel che seguì. Passato il primo sbalordimento, Narciso mise in chiaro le cose. Il re Troilo, commosso, perdonò a lui la sua disubbidienza e alla regina l’errore ch’era stato causa della sua condanna; e la regina, poveretta, tutt’assorta nelle dolcezze dell’affetto materno, perdonò anch’essa al marito la sua spietata severità. Sirio, riscaldato dai baci e dalle carezze, cullato dal canto della sua mamma, ricuperò a poco a poco la salute e divenne un avvenente e robusto garzone.

E i poveri pescatori dell’isola Minima? I poveri pescatori ebbero titoli e ricchezze in quantità, ma non furono per questo né più né meno felici di prima. La loro gioia più grande fu quella di rivedere lieta e contenta la donna gentile a cui essi avevano dato il nome di Provvidenza.

style=”text-align: center;”>Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La regina Bella. Fiaba.
AUTORE: Enrico Castelnuovo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti