La prova
di
Luigi Pirandello
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Vi parrà strano che io ora stia per fare entrare un orso in chiesa. Vi prego di lasciarmi fare perché non sono propriamente io. Per quanto stravagante e spregiudicato mi possa riconoscere, so il rispetto che si deve portare a una chiesa e una simile idea non mi sarebbe mai venuta in mente. Ma è venuta a due giovani chierici del convento di Tovel, uno nativo di Tuenno e l’altro di Flavòn, andati in montagna a salutare i loro parenti prima di partire missionari in Cina.
Un orso, capirete, non entra in chiesa cosí, per entrarci; voglio dire, come se niente fosse. Vi entra per un vero e proprio miracolo, come l’immaginarono questi due giovani chierici. Certo, per crederci, bisognerebbe avere né piú né meno della loro facile fede. Ma convengo che niente è piú difficile ad avere che simili cose facili. Per cui, se voi non l’avete, potete anche non crederci; e potete anche ridere, volendo, di quest’orso che entra in chiesa perché Dio gli ha dato incarico di mettere alla prova il coraggio dei due novelli missionari prima della loro partenza per la Cina.
Ecco intanto l’orso davanti alla chiesa che solleva con la zampa il pesante coltrone di cuojo alla porta. E ora, un po’ sperduto, ecco che s’introduce nell’ombra e tra le panche in doppia fila della navata di mezzo si china a spiare, e poi domanda con grazia alla prima beghina:
— Scusi, la sagrestia?
È un orso che Dio ha voluto far degno di un Suo incarico, e non vuole sbagliare. Ma anche la beghina non vuole interrompere la sua preghiera, e, stizzita, piú col cenno della mano che con la voce indica di là, senza alzare la testa né levar gli occhi. Cosí non sa d’aver risposto a un orso. Altrimenti, chi sa che strilli.
L’orso non se n’ha a male; va di là e domanda al sagrestano:
— Scusi, Dio?
Il sagrestano trasecola:
— Come, Dio?
E l’orso, stupito, apre le braccia:
— Non sta qui di casa?
Quello non sa ancor credere ai suoi occhi, tanto che esclama quasi in tono di domanda:
— Ma tu sei orso!
— Orso, già, come mi vedi; non mi sto mica dando per altro.
— Appunto, orso vuoi parlar con Dio?
Allora l’orso non può fare a meno di guardarlo con compassione:
— Dovresti invece meravigliarti che sto parlando con te. Dio, per tua norma, parla con le bestie meglio che con gli uomini. Ma ora dimmi se conosci due giovani chierici che partono domani missionari in Cina.
— Li conosco. Uno è di Tuenno e l’altro di Flavòn.
— Appunto. Sai che sono andati in montagna a salutare i loro parenti e che debbono rientrare in convento prima di sera?
— Lo so.
— E chi vuoi che m’abbia dato tutte queste informazioni se non Dio? Ora sappi che Dio vuol sottometterli a una prova e ne ha dato incarico a me e a un orsacchiotto amico mio (potrei dir figlio, ma non lo dico perché noi bestie non riconosciamo piú per nostri figli i nostri nati pervenuti a una certa età). Non vorrei sbagliare. Desidererei una descrizione piú precisa dei due chierici per non fare ad altri chierici innocenti una immeritata paura.
La scena è qui rappresentata con una certa malizia che certo i due chierici, nell’immaginarla, non ci misero; ma che Dio parli con le bestie meglio che con gli uomini non mi pare che si possa mettere in dubbio, se si consideri che le bestie (quando però non siano in qualche rapporto con gli uomini) sono sempre sicure di quello che fanno, meglio che se lo sapessero; non perché sia bene, non perché sia male (ché queste son malinconie soltanto degli uomini) ma perché seguono obbedienti la loro natura, cioè il mezzo di cui Dio si serve per parlare con loro. Gli uomini all’incontro petulanti e presuntuosi, per voler troppo intendere pensando con la loro testa, alla fine non intendono piú nulla; di nulla sono mai certi; e a questi diretti e precisi rapporti di Dio con le bestie restano del tutto estranei; dico di piú, non li sospettano nemmeno.
Il fatto è che sul tramonto, tornandosene al convento, quando lasciarono il sentiero della montagna per prendere la via che conduce alla vallata, i due giovani chierici si videro questa via impedita da un orso e un orsacchiotto.
Era primavera avanzata; non piú dunque il tempo che orsi e lupi scendono affamati dai monti. I due giovani chierici avevano camminato finora lieti in mezzo ai lavorati già alti che promettevano un abbondante raccolto e con la vista rallegrata dalla freschezza di tutto quel verde nuovo che, indorato dal sole declinante, dilagava con delizia nell’aperta vallata.
Impauriti, si fermarono. Erano, come devono essere i chierici, disarmati. Solo quello di Tuenno aveva un rozzo bastone raccattato per strada, discendendo dalla montagna. Inutile affrontare con esso le due bestie.
D’istinto, per prima cosa, si voltarono a guardare indietro in cerca d’aiuto o di scampo. Ma avevano lasciato poco piú sú soltanto una ragazzina che con un frusto badava a tre porcellini.
La videro che s’era anch’essa voltata a guardare verso la vallata, ma senza il minimo segno di spavento cantava lassú, agitando mollemente quel suo frusto. Era chiaro che non vedeva i due orsi. I due orsi che pure erano lí bene in vista. Come non li vedeva?
Stupiti dell’indifferenza di quella ragazzina ebbero per un attimo il dubbio che, o quei due orsi fossero una loro allucinazione, o che lei già li conoscesse come orsi del luogo addomesticati e innocui; perché non era in alcun modo ammissibile che non li vedesse: quello piú grosso, ritto là e fermo a guardia della strada, enorme controluce e tutto nero, e l’altro piú piccolo che si veniva pian piano accostando dondolante su le corte zampe e che ora ecco si metteva a girare intorno al chierico di Flavòn e a mano a mano girando l’annusava da tutte le parti.
Il povero giovane aveva alzato le braccia come in segno di resa o per salvarsi le mani e, non sapendo che altro fare, se lo guardava girare attorno, con tutta l’anima sospesa. Poi, a un certo punto, lanciando uno sguardo di sfuggita al compagno, e vedendosi pallido in lui come in uno specchio, chi sa perché, si fece tutto rosso e gli sorrise. Fu il miracolo. Anche il compagno, senza saper perché, gli sorrise. E subito i due orsi, alla vista di quello scambio di sorrisi, come se a loro volta anch’essi si fossero scambiati un cenno, senz’altro tranquillamente se n’andarono verso il fondo della vallata.
La prova per essi era fatta e il loro còmpito assolto.
Ma i due chierici non avevano ancor capito nulla. Tanto vero che lí per lí, vedendo andar via cosí tranquillamente i due orsi, restarono per un buon tratto incerti a seguire con gli occhi quell’improvvisa e inattesa ritirata, e poiché essa per la naturale goffaggine delle due bestie non poteva non apparir loro ridicola, tornando a guardarsi tra loro, non trovarono da far di meglio che scaricare tutta la paura che s’erano presa in una lunga fragorosa risata. Cosa che certamente non avrebbero fatto, se avessero subito capito che quei due orsi erano mandati da Dio per mettere il loro coraggio alla prova e che perciò ridere di loro cosí sguajatamente era lo stesso che ridersi di Dio. Se mai una supposizione di questo genere fosse passata per la loro testa, piuttosto che a Dio per la paura che s’erano presa avrebbero pensato al diavolo che all’uno e all’altro aveva voluto farla mandando quei due orsi.
Capirono che invece era stato proprio Dio e non il diavolo allorché videro i due orsi voltarsi alla loro risata, fieramente irritati. Certo in quel momento i due orsi attesero che Dio, sdegnato da tanta incomprensione, comandasse loro di tornare indietro e punire i due sconsigliati, mangiandoseli.
Confesso che io, se fossi stato dio, un dio piccolo, avrei fatto cosí.
Ma Dio grande aveva già tutto compreso e perdonato. Quel primo sorriso, per quanto involontario, dei due giovani chierici, ma certo nato dalla vergogna di aver tanta paura, loro che, dovendo fare i missionari in Cina, s’erano imposti di non averne, quel primo sorriso era bastato a Dio, proprio perché nato cosí, inconsapevolmente, nella paura; e aveva perciò comandato ai due orsi di ritirarsi. Quanto alla seconda risata cosí sguajata era naturale che i due giovani credessero di rivolgerla al diavolo che aveva voluto far loro paura, e non a Lui che aveva voluto mettere il loro coraggio alla prova. E questo, perché nessuno meglio di Dio può sapere per continua esperienza che tante azioni, che agli uomini per il loro corto vedere pajono cattive, le fa proprio Lui, per i suoi alti fini segreti, e gli uomini invece credono scioccamente che sia il diavolo.
Fine.
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TITOLO: <La prova
AUTORE: Pirandello, Luigi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle per un anno / Luigi Pirandello ; prefazione di Corrado Alvaro. - Milano : Club degli editori, stampa 1987. - 2 v. (1383, 1251 p.) ; 23 cm.
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici