La peste scarlatta

di
Jack London

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CAPITOLO I.

La via tracciata da poco seguiva quella ch’era stata, un tempo, la massicciata d’una ferrovia che, da anni, i treni non percorrevano più. Ai due lati, la foresta aveva raggiunto e invaso i pendii inghiaiati involgendoli in un verde rigoglio di alberi e di cespugli. Non si trattava di una strada vera e propria ma, piuttosto, di un semplice viottolo, d’una larghezza appena sufficiente pel passaggio di due persone, e che aveva tutta l’apparenza di un sentiero d’animali selvatici.
Qua e là, alcuni pezzi di ferro arrugginito indicavano come sotto i cespugli esistessero ancora rotaie e traverse. A un certo punto si scorgeva un albero che, crescendo, aveva sollevato in aria tutta una rotaia alla quale era rimasta attaccata, per mezzo di un chiodo, una pesante traversa. La rotaia e la traversa così bizzarramente unite, s’ergevano fantasticamente contro il cielo.
Per quanto vecchia fosse la strada ferrata, si indovinava subito, data la sua strettezza, che doveva avere avuto un solo binario.
Un vecchio ed un ragazzo percorrevano il sentiero, e avanzavano lentamente, poichè il primo era carico d’anni. Un’incipiente paralisi, imprimeva al corpo e a tutti i gesti di lui un tremito convulso. Di sotto a un grossolano berretto di pelle di capra, che gli proteggeva il capo contro i raggi del sole, sfuggivano alcune ciocche di capelli bianchi, sporchi ed incolti; una specie di visiera, fatta ingegnosamente, con una grande foglia curvata, gli riparava la vista dalla luce troppo viva, pur permettendo al vecchio di seguire, di sotto, attentamente con lo sguardo l’avanzare dei piedi. La barba, incolta e aggrovigliata, che gli scendeva fino alla cintura, non solo non era come i capelli, d’un candore di neve, ma, com’essi, invece, era segno di grande trascuratezza e di una più grande miseria. Una pelle di capra intera, sdrucita, gli copriva le spalle e il petto; le braccia e le gambe nude erano rivestite da una pelle giallastra e risecchita, e testimoniavano l’età avanzata del vecchio. Le escoriazioni e le cicatrici di cui erano ricoperte quelle povere membra e il colore abbronzato dell’epidermide indicavano, inoltre, che l’uomo viveva da lungo tempo esposto alla sferza delle intemperie.
Il ragazzo gli camminava davanti, regolando sui passi lenti e strascicanti di lui il robusto vigore dei propri garretti. Anch’egli era ricoperto d’una semplice pelle d’animale: da un brano di pelle d’orso, tutta strappata agli orli e con un buco nel mezzo per introdurvi la testa. Poteva avere dodici anni, al massimo, e portava con una certa civetteria, dietro l’orecchio, una coda di porco tagliata di fresco.
In una mano aveva un arco di media grandezza, sul dorso la faretra piena di frecce, e, sporgente da un fodero attaccato al collo per mezzo d’una correggia, il manico nodoso di un coltello da caccia. Il ragazzo era nero come l’ebano e aveva l’andatura snella e flessuosa propria dei felini. Gli occhi azzurri, d’un azzurro profondo, erano vivacissimi e penetranti come due punte di spillo: il loro colore contrastava singolarmente con la pelle bruciata dal sole, che li incorniciava. Quegli occhi sembravano spiare continuamente intorno. Le narici dilatate palpitavano con irrequietezza, in una continua tensione verso il mondo esteriore, di cui aspiravano avidamente gli effluvî. Anche il suo udito sembrava molto sottile ed esercitato, e le sue percezioni erano automatiche e immediate, senza la più piccola tensione dell’orecchio. Senza sforzo alcuno, esso percepiva, nella calma apparente che regnava intorno, i suoni più leggeri, li divideva, li classificava, distinguendo il sussurro del vento tra le fronde, il ronzio di un’ape o d’un moscerino, il sordo brusio della risacca che giungeva appena come un mormorio debolissimo, o il rumore delle zampe d’un roditore che grattasse e togliesse la terra dall’ingresso della propria tana.
Ad un tratto il ragazzo s’arrestò: simultaneamente, l’udito, la vista e l’olfatto l’avevano avvertito di qualche cosa. Egli fece cenno con la mano al vecchio, e tutt’e due si ritrassero a un lato, fermandosi.
Davanti ad essi, sul pendio inghiaiato, avevano udito uno scricchiolio. Lo sguardo del giovane fissò il punto dal quale proveniva il rumore: un orso grigio, enorme, sorse bruscamente alla sommità, e s’arrestò alla vista dei due uomini.
Il bestione manifestò subito la sua sgradevole sorpresa con grugniti minacciosi e digrignar di denti.
Il giovane, pronto ad ogni evenienza, lentamente aggiustò una freccia sull’arco e tese la corda senza perdere di vista l’orso. Il vecchio, sotto la foglia che gli serviva di visiera, spiava il pericolo e, come il compagno, stava immobile.
Per qualche istante l’orso e i due uomini si fissarono in silenzio. Poi, siccome la bestia con i suoi grugniti manifestava una crescente irritazione, il giovane fe’ cenno al vecchio che conveniva abbandonare il sentiero e scendere dal pendio della ghiaiata.
E così fecero. Il vecchio scese per primo e il ragazzo lo seguì rinculando, con l’arco sempre teso, pronto a far scoccare la freccia.
Scesi abbasso, stettero ad aspettare, sinchè un gran fruscio di foglie e di rami calpestati non li avvertì che l’orso se n’era andato. Si arrampicarono di nuovo sulla sommità della ghiaiata, e il ragazzo disse, attenuando prudentemente la voce:
— Era molto grosso, caro nonno!
Il vecchio fece un segno affermativo. Scosse gravemente la testa e rispose, anch’egli sottovoce:
— Diventano sempre più numerosi. Chi avrebbe mai pensato che sarei vissuto in tempi nei quali si corre pericolo di vita a passeggiare sul territorio della stazione balneare di Cliff-House? Ai tempi dei quali ti parlo, Edwin, quando ero anch’io ragazzo come te, uomini, donne, ragazzi, ragazze e bambini, accorrevano qui a migliaia per passarvi l’estate. E non c’erano orsi di sorta, allora! te l’assicuro io! O, per lo meno, quelli che c’erano arrivavano chiusi in gabbie, e per vederli bisognava pagar denaro.
— Denaro? cos’è il denaro? – chiese Edwin; ma prima che il vecchio avesse potuto rispondere, ricordò: introdusse la mano in una specie di tasca che aveva praticata nella pelle d’orso, e ne tirò fuori trionfalmente un dollaro d’argento, sudicio e contorto.
Gli occhi del buon uomo s’illuminarono scorgendo la moneta.
— La mia vista è debole, – borbottò egli. – Prendi, Edwin, guarda se puoi decifrare la data che è scritta qui.
Il ragazzo diede in una risata, ed esclamò:
— Sei straordinario, nonno! Vuoi sempre farmi, credere che quei piccoli segni significhino qualche cosa.
Il vecchio emise un profondo sospiro e portò il piccolo disco di metallo a qualche pollice di distanza dagli occhi:
— 2012! – esclamò finalmente, e diede la stura a un curioso discorso: – 2012! l’anno in cui Morgan V fu eletto presidente degli Stati Uniti, dall’assemblea dei Magnati! Questa deve essere una delle ultime monete che furono coniate, perchè la morte scarlatta sopravvenne nel 2013. Dio mio! Dio mio! Quando ci penso! Sono passati da allora sessant’anni. Ed oggi io sono l’unico essere umano vissuto in quei tempi. Dove l’hai trovata questa moneta, Edwin?
Il ragazzo, che aveva ascoltato il nonno con la accondiscendenza benevola dovuta alle ciarle dei deboli di cervello, rispose subito:
— Me l’ha regalata Hou-Hou, la primavera scorsa. Hou-Hou m’ha detto che questo è argento… Ma, nonno, non hai fame? Vuoi che torniamo indietro?
Il vecchio rese il dollaro ad Edwin, strinse forte il bastone fra le mani e s’avviò lungo il sentiero, con gli occhi luccicanti di ghiottoneria.
— Speriamo – mormorò egli – che Muso di lepre abbia trovato uno o due granchi di mare. L’interno di quei granchi è gustosissimo. È un boccone squisito, specie quando non ci sono più denti e si hanno dei nipoti come voi che vogliono tanto bene al loro nonno e, conoscendo i suoi gusti, s’incaricano di accontentarlo. Quand’ero ragazzo…
Ma Edwin aveva visto qualche cosa; s’era fermato, e, portando l’indice alle labbra, aveva fatto segno al vecchio di tacere.
Mise una freccia sull’arco ed avanzò nascondendosi dietro una vecchia conduttura d’acqua, rotta a mezzo che, scoppiando, aveva spezzato una rotaia. Sotto le piante rampicanti che la ricoprivano, si scorgeva il grosso tubo rotondo.
Il giovane s’avvicinò, così, a un coniglio, che, accucciato pacificamente vicino a un cespuglio, lo guardava ora, incerto e tremante. Il ragazzo si fermò alla distanza di circa cinquanta piedi, e poco dopo la freccia filò diritta al bersaglio con la velocità del lampo: il coniglio,passato da parte a parte, mandò un grido di dolore, e cercò di trascinarsi faticosamente fino ai cespugli, per rifugiarvisi.
Ma il ragazzo era, come la sua freccia, un lampo. Un lampo di pelle bruna e dalla pelliccia fluttuante. Nello slancio verso la bestiola, i suoi muscoli scattarono come molle d’acciaio, forti e flessibili nelle giovani membra. S’impossessò dell’animale ferito, l’uccise sbattendogli la testa contro un tronco d’albero, e ritornò verso il vecchio al quale lo consegnò.
— È buono il coniglio, molto buono, – borbottò il vegliardo. – Però, come ghiottoneria, preferisco il granchio di mare. Quand’ero ragazzo…
Edwin, spazientito dalla vana loquacità del vecchio, l’interruppe:
— Perchè, – disse troncandogli le parole in bocca – parli sempre di tutto quello che vedi, con frasi che non significano nulla? Egli s’esprimeva poco correttamente, ma tale era il significato approssimativo delle sue parole. Il suo parlare era gutturale ed impetuoso, e il linguaggio ch’egli adoperava era molto simile a quella del vecchio, e cioè una derivazione, un po’ corrotta, dell’inglese.
Edwin riprese:
— Adoperi continuamente delle parole che non capisco. Perchè, per esempio, chiami il granchio di mare «ghiottoneria»? Un granchio è un granchio, e niente più. Cosa sono questi soprannomi?
Il vecchio sospirò, non rispose, e ambedue ripresero il cammino in silenzio. Il rumore della risacca si faceva sempre più distinto, e, appena usciti dalla foresta, il mare apparve improvvisamente al loro sguardo, di là delle grandi dune di sabbia.
Alcune capre, che brucavano la poca erba fra le dune, erano custodite da un altro ragazzo, coperto anch’egli di pelli d’animali, e da un cane che, veramente, non aveva che una debole rassomiglianza coi cani veri e propri e sembrava piuttosto un lupo.
Poco discosto, s’elevava il fumo d’un fuoco cui attendeva un altro ragazzo non meno irsuto degli altri due, e intorno a lui erano raggruppati parecchi cani lupi, simili a quello che custodiva le capre.
A un centinaio di yards dalla costa, si scorgeva un gruppo di rocce frastagliate e, al rumore delle onde che s’infrangevano contro di esse, si mescolava una specie di ululato profondo. Era il muggito degli enormi leoni marini che si trovavano colà, alcuni sdraiati al sole, altri scherzando o lottando fra loro.
Il vecchio s’incamminò verso il fuoco accelerando il passo e annusando l’aria avidamente.
— Datteri di mare! – esclamò egli estasiato, con la sua vocina tremolante.
— Datteri di mare! E questo se non erro, è un granchio di mare! Dio mio! Ma, ragazzi miei, quanto siete buoni verso vostro nonno!
Hou-Hou che, press’a poco, aveva la stessa età di Edwin, rispose con una smorfia che voleva essere un sorriso:
— Mangia quello che vuoi, nonno: i datteri o i granchi. Ce ne sono quattro.
L’entusiasmo del paralitico vegliardo faceva pena a vedersi. Egli sedette sulla sabbia, con tutta la sveltezza permessagli dalle povere membra e prese dai carboni ardenti un grosso dattero di roccia. Il calore aveva aperto le due conchiglie, e la carne del dattero apparve del colore del salmone e cotta a puntino.
Fra il pollice e l’indice, con ansia febbrile, il vecchio s’impossessò del boccone succulento e lo portò vivamente alla bocca. Ma il dattero scottava e, un istante dopo, egli lo risputò fuori violentemente, lanciando grida di dolore mentre gli occhi gli si gonfiavano di lagrime.
I ragazzi erano dei veri piccoli selvaggi, e selvaggia era la loro crudele gaiezza. Scoppiarono a ridere per la scottatura del vecchio e si divertirono un mondo della sua disgrazia. Hou-Hou cominciò a fare capriole su capriole mentre Edwin si rotolava per terra, ridendo come un pazzo.
Attratto dal rumore, il piccolo capraio accorse e prese parte anch’egli all’ilarità dei due.
— Fallo raffreddare, Edwin, fallo raffreddare, – supplicava il vecchio, sofferente, senza nemmeno curarsi d’asciugare le lagrime che continuavano a colargli giù per le gote. – Fa raffreddare anche un granchio, Edwin; tu sai quanto piacciono a tuo nonno i granchi di mare…
Un grande crepitio s’alzò dal fuoco, segno che s’erano aperte, esalando un vapore umidiccio, tutte le conchiglie dei datteri. Erano molluschi, in gran parte di grosso spessore e da tre a sei pollici di lunghezza. I monelli li tolsero dal fuoco per mezzo di piccoli bastoni e li allinearono su di un vecchio ceppo, per farli raffreddare.
Il vecchio gemeva:
— Ai miei tempi, non ci si burlava così dei vecchi… si rispettavano…
I ragazzi non badarono nemmeno alle lamentele e alle recriminazioni del vecchio. Questi, però, la seconda volta, fu più prudente e non si scottò la bocca. S’erano messi a mangiare tutti e quattro, facendo schioccare la lingua e le labbra con gran rumore.
Il terzo monello, che si chiamava «Muso di lepre» e aveva voglia di ridere ancora, pose destramente un pizzico di sabbia sopra un dattero che offrì poi al vecchio, il quale, appena messolo in bocca sentendosi pungere le gengive dalla sabbia fece un’orribile smorfia.
I ragazzi ripresero a ridere rumorosamente. Il vecchio non capì che si trattava di un cattivo scherzo del monello. Borbottava lamentosamente e sputava a più non posso, finchè Edwin, mosso a pietà, gli porse una zucca piena d’acqua fresca con la quale il nonno si sciacquò la bocca.
— Andiamo, Hou-Hou, dove sono i granchi di mare? – chiese Edwin. Il nonno oggi ha un appetito formidabile…
Udendo nominare i granchi di mare, il vecchio mostrò uno sguardo dove luceva la golosità. Hou-Hou gliene porse uno grossissimo, dal guscio era completo, con tutte le zampe attaccate, ma vuoto all’interno. Con mani tremanti ed emettendo piccole grida d’impazienza, il vecchio ruppe una zampa, ma la trovò vuota.
Egli allora supplicò:
—Un granchio, Hou-Hou! Dammi un granchio, ma buono, e pieno!…
— Ci siamo burlati di te, — rispose Hou-Hou. — Granchi di mare non ce ne sono, non ne ho trovato nemmeno uno!
La faccia del vecchio si atteggiò alla più desolata costernazione, e nuovamente egli si mise a piangere a calde lagrime mentre i monelli si tenevano la pancia dal ridere.
Hou-Hou sostituì furtivamente la carcassa vuota che il vecchio aveva posata per terra, con un granchio pieno, del quale aveva aperto il guscio e le zampe, sicchè la carne bianchissima esalava un vaporino delizioso.
Le narici del vecchio furono così stuzzicate istantaneamente, ed egli abbassò lo sguardo, sorpreso.
Il suo cattivo umore si mutò d’un tratto in una grande gioia, ansimò un poco, poi, con una specie di grugnito di beatitudine, cominciò a mangiare.
E biascicando con le gengive, mormorava una parola incomprensibile ai suoi ascoltatori:
— Maionese… maionese…
Fece schioccare la lingua e continuò:
— Ci vorrebbe la maionese… Come sarebbe buono con la maionese! E dire che sono più di sessant’anni che non ne mangio. Due generazioni sono cresciute, senza conoscerne nemmeno il profumo squisito. Una volta, nei ristoranti, la servivano sempre, coi granchi di mare!
Quando finalmente fu sazio, emise un profondo respiro e ristette per un certo tempo immobile, lo sguardo perduto sulla distesa del mare.
Poi, sentendosi lo stomaco ben pasciuto, cominciò a rivangare nei meandri della memoria.
— Sapete, ragazzi miei, ch’io ho veduto questa stessa spiaggia brulicare di gente? Uomini, donne, fanciulli, si recavano qui nei giorni di festa specialmente; non c’erano orsi che minacciassero di divorarli! Anzi, lassù, sopra quelle rocce, c’era un magnifico ristorante dove potevano trovare ogni ben di Dio. Quattro milioni d’uomini vivevano allora a San Francisco. E adesso, in tutta la contrada, non ce ne sono quaranta! Il mare era popolato di vapori che passavano e ripassavano la Porta d’oro, e il cielo solcato da velivoli d’ogni specie, che percorrevano persino duecento miglia l’ora! Era questa la velocità minima stabilita dai contratti della Società aerea che faceva il servizio postale fra New York e San Francisco. Ci fu un uomo, un francese, che promise di raggiungere la velocità di trecento miglia. Ciò parve un rischio pazzesco ed un’esagerazione, alla gente retrograda. Ma il francese sostenne sempre il proprio punto senza curarsi delle chiacchiere, e sarebbe giunto a realizzare tale velocità se non fosse sopraggiunta la peste scarlatta. Quand’ero ragazzo, c’erano ancora di quelli che ricordavano d’aver visto i primi aeroplani io ho veduto gli ultimi. Sono passati sessant’anni…
I monelli ascoltavano il suo monologare con aria distratta. Non riuscivano ad afferrare la quarta parte di ciò ch’egli diceva, e questo li annoiava quanto mai. Tanto più che, nel rievocare ad alta voce i tempi passati, il vecchio adoperava un inglese che aveva pochissima affinità col gergo grossolano che parlavano i ragazzi e ch’egli stesso usava parlando con loro.
Egli continuò:
— I granchi di mare, invece, erano piuttosto rari, in quel tempo, perchè tutti ne pescavano; e costituivano una pietanza squisita e ricercata. La pesca dei granchi era permessa soltanto un mese all’anno. Oggi, invece, si possono pescare quando si vuole. Ciò, una volta, sarebbe sembrato straordinario.
A questo punto, una viva agitazione si produsse fra le capre, e i tre ragazzi balzarono in piedi. I cani raggruppati intorno al fuoco corsero a raggiungere il loro compagno ch’era rimasto a guardare le capre e ringhiava furiosamente.
Il gregge ripiegò in fretta verso i protettori.
Una mezza dozzina di forme grige e scheletrite scivolavano furtivamente sulla sabbia e tenevano testa ai cani il cui pelo cominciava a rizzarsi minacciosamente.
Edwin lanciò verso gli invasori una freccia che mancò il bersaglio. Ma «Muso di lepre», armato d’una fionda simile a quella che deve aver servito a Davide per abbattere il gigante Golia, fece volare una pietra che partì sibilando nell’aria. Il proiettile cadde in pieno fra i lupi, che sparirono immediatamente nel cuore della foresta.
La fuga fece ridere i tre monelli.
Soddisfatti, si sdraiarono di nuovo sulla sabbia vicino al vecchio che, avendo mangiato troppo, ansava forte, a causa della difficile digestione. Con le mani intrecciate sul ventre egli continuava le sue lamentazioni:
— «Il lavoro dell’uomo è effimero e svanisce come la schiuma delle onde…» Proprio così. Su questo pianeta l’uomo ha addomesticato gli animali utili e distrutto quelli nocivi. Egli ha dissodato la terra e l’ha liberata dalla vegetazione parassitaria. Poi, un giorno egli è scomparso, e la vita primitiva ha ripreso il sopravvento distruggendo tutta l’opera dell’uomo. Le piante selvatiche e le foreste hanno invaso i campi coltivati; gli animali da preda si sono riuniti di nuovo, tanto che adesso siamo minacciati dai lupi nientemeno che sulla spiaggia di Cliff -House.
Questo pensiero parve spaventare il vecchio, che s’arrestò; poi riprese:
— Se sono scomparsi quattro milioni di uomini in una sola città, se i lupi feroci arrivano fin qui, nelle loro scorrerie, e se, finalmente, voialtri, barbara progenie di una razza di geni ormai estinta siete costretti a difendervi con le armi preistoriche dalle zanne degli invasori a quattro zampe, tutto ciò si deve alla peste scarlatta!
— Scarlatta, scarlatta… – mormorò «Muso di lepre» all’orecchio di Edwin… – Il nonno ripete sempre questa parola. Sai dirmi che cosa significa?
Il vecchio, che aveva udito la domanda, declamò con voce tremula:
— «Lo scarlatto dell’acero in autunno, mi fa sussultare come il rumore d’una banda musicale che passi…» ha detto un poeta.
Edwin spiegò a « Muso di lepre »
— Lo scarlatto è rosso… Tu non lo sai perchè sei stato allevato nella tribù dello chauffeur. Tutti i suoi membri sono ignoranti… Lo scarlatto, io lo so di certo, è il rosso…
«Muso di lepre» protestò:
— Se lo scarlatto è rosso, perchè non dire rosso addirittura? A che scopo complicare le cose con parole incomprensibili? Il rosso è rosso, e basta.
— Rosso non è il vero termine, – disse il vecchio. – La peste non era rossa, ma scarlatta. Il corpo e la faccia del colpito, diventavano scarlatti al massimo, in un’ora. Io lo so perchè l’ho veduto. Bisogna proprio dire scarlatto.
«Muso di lepre» non volle convincersi e s’ostinò:
— Per conto mio basta dire rosso. Il papà non adopera altre parole. Egli dice che gli uomini sono morti in seguito alla peste rossa.
Il vecchio, irritato, ribattè:
— Tuo padre, come ha detto Edwin, è un povero uomo qualunque, nato da un altro uomo qualunque; non ha mai avuto un’educazione. Tuo nonno era uno chauffeur, un servitore. Tua nonna, lei, sì, era di buona razza: era una lady; ma nè i suoi figli nè i nipoti le assomigliano. Prima della morte scarlatta, ella era moglie di Van Warden, uno dei dodici Magnati dell’industria che governavano l’America. Egli possedeva più di un miliardo di dollari, capisci, Edwin?, più d’un miliardo di monete simili a quella che hai in tasca. Poi venne la morte scarlatta, e quella donna divenne la moglie di Bill lo chauffeur. Egli la batteva sempre, l’ho veduto con i miei occhi. Questa, «Muso di lepre», era la tua nonna.
Hou-Hou durante la discussione, se ne stava pigramente disteso, divertendosi a scavare la sabbia con i piedi. Ad un tratto gettò un grido: il pollice d’un piede, avendo urtato contro un corpo contundente, s’era escoriato. Hou-Hou si rizzò in piedi e si mise ad esaminare la buca scavata. Gli altri due ragazzi si unirono a lui, e tutti e tre continuarono a scavare con tutta lena levando la sabbia con le mani, sinchè non apparvero tre scheletri. Due erano scheletri di adulti, il terzo d’adolescente. Il vecchio s’avvicinò ginocchioni alla buca.
— Queste, – disse, – sono tre vittime della peste scarlatta. Ecco, vedete?, morivano per ogni dove! Questa fu senza dubbio una famiglia fuggita dal contagio e morta qui, sulla spiaggia di Cliff-House. Essi… ma, cosa fai, Edwin?
Questi, con la punta del coltello da caccia, aveva cominciato a strappare i denti dalle mascelle degli scheletri.
— Signore Iddio! Cosa fai! – strillò il vecchio, esterefatto.
— Voglio farmene una collana, – rispose il ragazzo.
Gli altri due imitarono il compagno aiutandosi con i coltelli.
Il vecchio gemette
— Siete proprio selvaggi, dei veri e propri selvaggi. La moda ha già introdotto le collane di denti umani. La prossima generazione si forerà il naso e gli orecchi, e s’adornerà il corpo d’ossa di animali e di conchiglie. Non c’è dubbio! La razza umana è condannata ad affondare sempre più nelle tenebre della vita primitiva, prima di poter riprendere la sua ascensione verso la civiltà. La terra, oggi, è troppo vasta per i pochi uomini viventi. Ma essi cresceranno e si moltiplicheranno, e verrà giorno in cui il mondo sarà troppo angusto per le nuove generazioni, e gli uomini cominceranno ad uccidersi fra loro. È fatale che così avvenga. Allora si adorneranno con le ossa dei propri nemici, come fai tu, Edwin, che sei il più buono e più gentile d’animo dei miei nipotini, e cominci già a portare all’orecchio quella orribile coda di porco! Ascolta tuo nonno, buttala via, buttala lontano!
— Che sciocchezze! – borbottò «Muso di lepre».
Terminata l’estrazione dei denti, i tre ragazzi cominciarono la divisione del bottino.
Essi erano vivaci e bruschi nelle parole e nei gesti, così che la discussione si accalorò ben presto con monosillabi e frasi brevi e tronche. Infine, soddisfatti del proprio lavoro, sedettero intorno al nonno; e, trastullandosi con quei piccoli pezzi di avorio, «Muso di lepre» domandò:
— Nonno, vuoi parlarci della morte rossa? — Della morte scarlatta, – corresse Edwin.

CAPITOLO II.

Il buon uomo parve sorpreso della domanda. Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, e cominciò:
— Venti o trent’anni fa, mi si chiedeva spesso di raccontare la mia storia. Ma oggi, i giovani si disinteressano del passato…
— Cerca soltanto di parlar chiaro, – disse «Muso di lepre» – se vuoi farti capire, e non adoperare parolone difficili, nè frasi complicate.
Edwin gli diede una gomitata:
— Ma via, – disse, – sta zitto! Altrimenti il nonno andrà in collera e non ci racconterà nulla. È forse colpa sua se si esprime poco chiaramente?
Il vecchio stava effettivamente per irritarsi e cominciare un lungo sermone sulla mancanza di rispetto della gioventù moderna e sulla sorte tristissima dell’umanità ritornata allo stato di barbarie in cui viveva al principio del mondo.
— Suvvia, nonno, comincia, – disse Hou-Hou, con tono conciliante.
Il vecchio, calmato, si decise:

— In quel tempo, – diss’egli, – il mondo era popolato quanto mai. San Francisco soltanto contava quattro milioni d’abitanti!
— Cos’è un milione? – l’interruppe Edwin.
Il vecchio lo guardò e spiegò bonariamente:
— So benissimo che non sai contare oltre a dieci.

Perciò, ti spiegherò. Alza le mani. Fra tutt’e due, esse hanno dieci dita. Bene: io raccolgo un granello di sabbia: stendi una mano….
Il vecchio lasciò cadere il grano di sabbia nella palma della mano del ragazzo, e continuò:
— Questo granello di sabbia rappresenta le dieci dita di Edwin. Ne aggiungo un altro: ecco altre dieci dita in più. Ne aggiungo un terzo, un quarto, un quinto, e così di seguito fino a dieci. Così ho dieci volte dieci dita di Edwin. Questo si chiama «un centinaio». Ricordate bene tutti e tre questa parola: «centinaio».
Ora, prendo un sassolino, e lo metto in mano a «Muso di lepre». Esso rappresenta dieci grani di sabbia ovvero dieci decine di dita. Vi metto dieci sassi… Ed ecco mille dita. Continuo, e prendo una conchiglia che rappresenta dieci sassolini, cioè cento grani di sabbia, ovvero mille dita.
E il vecchio, con successive spiegazioni del genere, riuscì a dare ai ragazzi un’idea abbastanza chiara dei numeri. A misura che le cifre aumentavano, egli metteva nelle mani dei ragazzi oggetti diversi per rappresentarle. Quando arrivò ai milioni, li rappresentò con i denti tolti agli scheletri. Infine moltiplicò i denti con dei gusci di granchi, per indicare i miliardi, e si fermò, perchè gli ascoltatori davano segni di stanchezza.
Poi riprese
— C’erano dunque quattro milioni d’uomini a San Francisco… cioè quattro denti… Lo sguardo dai ragazzi corse ai denti, ai sassolini, poi ai granelli di sabbia, e da questi alle dita di Edwin. Dopo, essi rifecero in senso inverso la serie ascendente dei simboli cercando così di formarsi un’idea delle somme inaudite che rappresentavano.
— Quattro milioni d’uomini è un numero considerevole, – arrischiò infine Edwin.
— Ci sei, ragazzo mio! – approvò il vecchio. – Puoi fare qualche altra comparazione coi granelli di sabbia che ci sono sulla spiaggia. Supponi che ognuno di quei granelli rappresenti un uomo, una donna o un fanciullo! Questi quattro milioni dunque, vivevano a San Francisco, una grande città che sorgeva sulla baia dove ci troviamo noi. E gli abitanti vivevano anche oltre la città stessa, intorno alla baia, in riva al mare e sui terreni circostanti, fra pianure e colline. Essi formavano un totale di sette milioni di abitanti. Sette denti!!
Lo sguardo dei ragazzi corse nuovamente ai denti, ai sassi, ai grani di sabbia, e alle dita sempre alzate di Edwin.
— Tutto il mondo formicolava di esseri. Il risultato del grande censimento del 2010 aveva calcolata a otto miliardi la popolazione dell’universo. Otto miliardi… cioè otto gusci di granchi! Quel tempo non assomigliava per nulla a quello in cui viviamo ora. L’umanità era abilissima nel procacciarsi i mezzi per vivere. Io ero un giovanotto, al tempo della peste scarlatta. Avevo ventisette anni e abitavo a Berkeley, che si trovava sulla baia di San Francisco. Vi ricordate delle grandi case di pietra che abbiamo viste un giorno in questa direzione?… da quella parte? Io abitavo appunto in una di quelle case. Ero professore di letteratura inglese.
Questo discorso era, per la maggior parte, di troppo superiore alla capacità di comprensione dei ragazzi. Ma essi facevano ogni sforzo per capire, alla meno peggio, la descrizione del passato.
— Che facevi in quella casa? – interrogò «Muso di lepre».
— Tuo padre, ricordi?, un giorno t’ha insegnato a nuotare… – «Muso di lepre » fece un cenno affermativo.
— Ebbene, all’Università di California (così chiamavasi quella casa) si insegnava ai giovani e alle ragazze ogni sorta di cose. A pensare, a educare lo spirito. Come ho insegnato poco fa a voialtri, per mezzo delle dita, delle conchiglie e dei denti, a calcolare il numero degli abitanti che vivevano sulla terra allora. E c’erano molte cose da insegnare! I giovani si chiamavano «studenti». C’erano vaste sale dove io e gli altri professori tenevamo le lezioni. Si parlava sempre davanti a cinquanta o sessanta ascoltatori, nello stesso modo come parlo ora a voialtri. Parlavo di certi libri scritti da uomini vissuti prima di noi ed anche di uomini contemporanei a noi.
— Ed è tutto qui quello che facevi? – chiese HouHou. – Parlare, parlare, parlare, e nient’altro? Chi, allora, andava a caccia per procurarti la carne? chi mungeva il latte delle capre? chi andava alla pesca?
— Bravo Hou-Hou! La tua domanda è ragionevolissima. Ebbene, sappi che, con tutto ciò, la nutrizione era abbondantissima; a quel tempo gli uomini erano molto saggi. Mentre taluni si occupavano esclusivamente della nutrizione, altri, in pari tempo, erano addetti ad altre occupazioni. Io parlavo, parlavo sempre, e, in cambio, mi davano da mangiare: un vitto copioso e delicato… Sono sessant’anni che non ne gusto di simili, ed ho perduto ogni speranza al riguardo. Ho sempre pensato che l’opera più bella e più proficua della nostra civiltà fosse l’abbondanza e la varietà infinita di questa nutrizione e la sua squisita raffinatezza. Oh, ragazzi miei, quando c’erano delle cose tanto buone da mangiare, la vita valeva la pena di essere vissuta!
I ragazzi continuavano ad ascoltare attentamente. E tutto ciò che non capivano lo consideravano come effetto della decadenza senile del nonno.
— In teoria, coloro che ci procuravano gli alimenti necessarî per vivere, si chiamavano uomini liberi. Ma tale definizione non aveva alcun significato, in realtà: la libertà di quegli uomini non era che una parola. La classe dirigente possedeva le terre e le macchine. Era per essa che i produttori faticavano, e del frutto del loro lavoro non restava ad essi che lo stretto necessario per poter vivere e continuare a produrre.
— Se quando vado nella foresta per procurarmi della selvaggina qualcuno volesse togliermela e appropriarsene, lo ucciderei! – interruppe «Muso di lepre».
Il vecchio diede in uno scroscio di risa e continuò:
— Ma poichè le terre, le foreste e le macchine appartenevano a noi che formavamo la classe dirigente, come potevano i lavoratori rifiutarsi di produrre per nostro conto? Sarebbero morti di fame anch’essi! Ecco perchè preferivano lavorare, procurarci gli alimenti, tessere i nostri vestiti, e fornirci tutte le mille altre cose necessarie! Oh, Hou-Hou, mille cose deliziose e mille piacevoli soddisfazioni! Ah! ah! ah! In quel tempo, io mi chiamavo il professor Smith. Il mio corso era frequentatissimo: il che significa che a molte ragazze e a molti giovanotti piaceva ascoltarmi parlare dei libri scritti da altri uomini. Ero felicissimo: la mia nutrizione era eccellente; avevo le mani dalla pelle fine e delicata, perchè non avevo mai faticato nell’eseguire lavori manuali. Il mio corpo era pulito e ben tenuto, e coperto da vestiti belli, eleganti e piacevoli a portarsi.
A questo punto, il vecchio lasciò cadere sulla vecchia e sdrucita pelle di capra che lo ricopriva, uno sguardo disgustoso.
— I nostri vestiti non erano certo così… Perfino i lavoratori-schiavi ne indossavano di migliori. E il nostro corpo era curato meticolosamente. Il viso e le mani erano lavati parecchie volte al giorno… Ciò desterà una certa meraviglia in voi che non vi lavate se non quando cascate in acqua o vi esercitate al nuoto.
— Ma nemmeno tu ti lavi mai! – rispose Hou-Hou.
— Lo so, lo so, sono diventato un vecchio sudicione! Mah! I tempi sono cambiati: ora non si usa più lavarsi.
Mancano i mezzi per farlo. Da sessant’anni non vedo un pezzo di sapone. Non istarò a spiegarvi che cosa fosse il sapone, perchè, altrimenti, non finirei più di raccontarvi la storia della peste scarlatta, che vi ho promesso. Voi sapete che cos’è una malattia. Una volta, si chiamava «infezione». Era stato stabilito che le malattie provenivano da germi infettivi. Ho detto germi: ricordate bene questa parola. Un germe è una cosa piccolissima, più piccola delle zecche che si annidano, in primavera, tra la pelle e il pelo dei cani, quando corrono per la foresta. Un germe è molto più piccolo, così piccolo, che non si vede nemmeno.
Hou-Hou esclamò:
— Sei curioso, nonno! Ci parli di cose che non si possono vedere. Ma, allora, come si fa a sapere che esistono? È una cosa che manca di senso comune.
— Giustissimo, Hou-Hou; la tua è una osservazione logica. Sappi, dunque, che per vedere queste cose, e molte altre del genere, possedevamo degli strumenti chiamati microscopî – microscopî – capisci? ed ultramicroscopi. Per mezzo di questi strumenti che si avvicinavano agli occhi, gli oggetti ci parevano molto più grandi che non fossero in realtà. Per mezzo di questi strumenti, appunto, potemmo conoscere molte cose delle quali ignoravamo l’esistenza. I più forti strumenti ingrandivano un germe quarantamila volte, quarantamila! cioè, per quaranta gusci di granchio, che rappresentano, a loro volta, mille dita… Poi, per mezzo di un altro strumento che si chiamava cinematografo, ci-ne-ma-to-grafo, questi germi, già ingrossati quarantamila volte, ci apparivano ingranditi di parecchie altre migliaia e migliaia di volte. Prendete un granello di sabbia, e dividetelo in dieci. Una di queste dieci parti, dividetela ancora per dieci. Poi, una di queste ultime, ancora per dieci, e così via, e può darsi che, verso il tramonto, siate riusciti ad ottenere la piccolezza d’uno di questi germi.
I ragazzi sembravano increduli. «Muso di lepre» soffiava in tono di motteggio, ed Hou-Hou ghignava di sottecchi.
Edwin li fece tacere, e il vecchio continuò:
— La zecca dei boschi succhia il sangue dei cani. Ma il germe, ch’è di un’estrema piccolezza, penetra nel sangue e si moltiplica all’infinito. Nel corpo di un solo uomo, allora, c’era un miliardo di questi germi. Un guscio di granchio, capite? Questi germi si chiamavano microbi. E quando un uomo ne aveva un miliardo nel sangue, si diceva ch’era «infettato» o, se preferite, ch’era ammalato. Questi microbi erano di specie diverse, innumerevoli come i granelli di sabbia di questa spiaggia. Non li conoscevamo tutti, naturalmente. Anzi, conoscevamo pochissimo di quel mondo invisibile. Conoscevamo il bacillus antracis, e i micrococcus, il bacterium termo e il bacterium lactis. Questo, sia detto per incidenza, è quello che produce nelle capre il latte che serve per fare il formaggio. Che dirò poi degli schizzomiceti, la cui famiglia è infinita?
E qui il vecchio si dilungò in una interminabile dissertazione sui germi e sulla loro natura. Egli adoperava parole così strane e frasi tanto complicate, che i ragazzi l’abbandonarono completamente alla sua perorazione.
Quand’egli si fu sfogato ben bene, Edwin lo tirò per la giacca:
— E la morte scarlatta, nonno?
Il vecchio sussultò e, dalla cattedra dell’università di Berkeley dove la fantasia l’aveva trasportato dinanzi a ben altro uditorio, tornò bruscamente alla triste realtà della propria condizione.
— Sì, sì, Edwin, – diss’egli – avevo dimenticato… A volte, il ricordo del passato ritorna così forte alla mia mente, da farmi dimenticare perfino che sono un vecchio sudicio ricoperto d’una misera pelle di capra, errante coi miei figlioletti selvaggi in un mondo primitivo e leggendario. «Il lavoro dell’uomo è effimero e svanisce come la schiuma delle onde del mare». Così è svanita la nostra grandiosa superba civiltà. Ed oggi io sono l’antenato, sono un vecchio stanco e sfinito, appartenente alla tribù di Santa Rosa. È in questa tribù che mi sono ammogliato. I miei figli e le mie figliole si sono ammogliate a lor volta nelle tribù degli Chauffeurs, in quella dei Sacramentos e dei Palo-Altos. Tu, «Muso di lepre», appartieni agli Chauffeurs, Hou-Hou ai Palo Altos, Edwin ai Sacramentos. E siete tutti e tre miei nipoti. Ma, dov’ero rimasto col mio racconto?
— Ci parlavi dei germi, – rispose prontamente Edwin, – di tutte quelle piccole cose che non si vedono e fanno ammalare gli uomini.
— Appunto. Nelle prime età del mondo, quand’esso era popolato di pochi uomini, questi germi non esistevano che in quantità insignificanti e in conseguenza, le malattie erano pochissime. Ma, a mano a mano che il numero degli uomini aumentava, popolando le grandi città dove vivevano riuniti, nuove specie di germi penetravano nei loro corpi, e si manifestavano malattie sconosciute, l’una più terribile dell’altra. Così fu che, molto prima ch’io venissi al mondo, nell’epoca detta «medio evo», scoppiò la peste nera che infierì terribilmente sull’Europa. Poi venne la tubercolosi e infine la peste bubbonica. In Africa, ci fu la malattia del sonno. I batteriologi studiarono questa malattia, e ne distrussero i germi. Come voi, ragazzi, allontanate i lupi dalle vostre capre o rompete il grugno a chi vi aggredisce per farvi del male, così i batteriologi…
— Come hai detto, nonno? – interruppe Edwin.
— Bat-te-rio-lo-gi… La tua occupazione, Edwin, non è quella di sorvegliare le capre? Le sorvegli tutto il giorno e conosci molte cose a loro riguardo. Il batteriologo è colui che conosce i germi, li sorveglia, li studia, e, quando occorra, li combatte e li uccide, come fai tu coi lupi. Ma, come te, non sempre ci riesce.
Un tempo, scoppiò un male chiamato «lebbra». Un secolo – cent’anni – prima ch’io nascessi, i batteriologi scoprirono il germe della lebbra. E lo studiarono a fondo, riuscendo persino a disegnarlo. Ma non hanno trovato il mezzo di ucciderlo. Nel 1894, in un paese chiamato Brasile, scoppiò la peste Pantoblast. Essa fece migliaia e migliaia di vittime. I batteriologi ne scoprirono il germe e riuscirono a distruggerla. E la peste Pantoblast non si manifestò più.
Gli scienziati fabbricarono un «siero» – un liquido, cioè, che introdotto nel corpo umano, uccideva il germe del pantoblast, salvando così la vita dell’uomo. Nel 1947 scoppiò una malattia strana che paralizzava ogni movimento ai bambini che avessero meno di dieci mesi, impedendo loro persino di mangiare. I batteriologi impiegarono undici anni nella scoperta di questo germe bizzarro: lo uccisero e salvarono un numero incalcolabile di bambini. A dispetto di tante malattie, la popolazione del mondo era in continuo aumento, e, specie nelle grandi città, gli uomini continuavano ad ammassarsi, ed erano sempre più numerosi. Nel 1929 uno scienziato, un certo Soldervetzsky, aveva annunciato che una terribile malattia, cento volte più mortale delle altre apparse fino allora, sarebbe scoppiata uccidendo gli uomini a milioni. Poichè la fecondità delle unioni, egli diceva, è senza fine…
A questo punto, «Muso di lepre» balzò in piedi e, con tono annoiato, esclamò:
— Ma tu vaneggi, nonno! Vuoi parlarci, sì o no, della peste scarlatta? Se non vuoi, non hai che a dircelo, e noi torniamo all’accampamento!…

Il vecchio, dolorosamente colpito nel sentirsi apostrofato in quella maniera da un ragazzo, cominciò a piangere in silenzio: grosse lagrime gli rigarono le gote e l’espressione dolorante di quel volto rivelò tutto lo sfacelo morale e fisico dei suoi ottant’anni.
— Andiamo, «Muso di lepre», rimettiti a sedere! – disse Edwin. – Il nonno parla saggiamente. Sta appunto per raccontarci della peste scarlatta… Non è vero, nonno, che ci accontenterai? Un po’ di pazienza, che diamine!

CAPITOLO III.

Il vecchio s’asciugò le lagrime col dorso d’una mano, e quindi riprese il racconto, con voce tremante, che però andava facendosi sempre più ferma e sicura, a mano a mano ch’egli s’animava nel corso della narrazione.
— Fu nel 2013 che scoppiò la peste scarlatta.
«Muso di lepre» battè le mani in segno di gioia.
— Avevo ventisette anni, – proseguì il vecchio. – Alcuni telegrammi…
«Muso di lepre» aggrottò le sopracciglia.
— Alcuni… che cosa? Ancora delle parole incomprensibili…
Edwin lo fece tacere, e il vecchio continuò:
— In quei tempi, gli uomini parlavano e comunicavano tra loro attraverso lo spazio, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Fu così che arrivò a San Francisco la notizia che a New York s’era manifestato un male fino allora sconosciuto. In quella città, la più bella e la più grande di tutta l’America, vivevano diciassette milioni di abitanti. In sul principio, non ci si fece gran caso: non c’era stato che qualche morto. Però fu osservato che nei colpiti, il decesso era quasi immediato. Uno dei segni di questa nuova malattia, era l’arrossarsi del viso e di tutto il corpo del malato. Nelle ventiquattr’ore che seguirono, si seppe che s’era avverato un caso della nuova malattia a Chicago, altra grande città. E lo stesso giorno si sparse la notizia che Londra, la più grande città del mondo dopo New York e Chicago, da due settimane lottava segretamente contro questo male. La notizia era stata censurata… voglio dire che non era stato permesso di comunicarla al resto del mondo.
La cosa parve naturalmente alquanto grave. Ma da noi, in California come in altri paesi, non s’erano verificati che pochi casi, e in tutti era la certezza che i batteriologi avrebbero trovato il mezzo di distruggere il germe della nuova malattia, come avevano fatto contro altre, nel passato. Dava da pensare, però, la rapidità spaventosa con la quale il nuovo germe distruggeva gli esseri, e il fatto che chiunque ne era colpito moriva inesorabilmente.
Non vi fu un solo caso di guarigione.
Avevamo già conosciuto la febbre gialla, una vecchia malattia terribile quanto mai: vi basti questo: la sera, per esempio, eravate assieme a un amico in piena salute, e il giorno dopo vedevate passare sotto le vostre finestre i becchini che se lo portavano al cimitero. Ma la nuova peste era anche più terribile: essa mieteva un numero molto maggiore di vittime. Spesso, fra il primo manifestarsi della malattia e la morte, non passava un’ora. A volte si trascinava per parecchie ore, ma di solito, in dieci o quindici minuti al massimo, il colpito era spacciato.
Prima di tutto, il cuore accelerava i battiti, e sopraggiungeva la febbre. Poi, un’eruzione d’un rosso violento, scarlatto, copriva, come resipola, la pelle della faccia e di tutto il corpo. Parecchi non sapevano rendersi conto nè dell’accelerarsi delle pulsazioni nè dell’aumento della temperatura; ma capivano subito di che si trattava non appena si manifestava l’eruzione scarlatta. Di solito, durante la prima fase della malattia si manifestavano le convulsioni; ma non sembravano cosa grave e non appena esse erano cessate, l’ammalato riacquistava la calma e il benessere. Ma per poco, chè, dopo qualche attimo, sopraggiungeva una specie di paralisi: essa cominciava dai piedi, poi saliva alle gambe, alle ginocchia, alle cosce, all’addome… e quando arrivava al cuore, era la morte!
Nessun malessere, di nessun genere, accompagnava questa paralisi: finchè il cuore non era raggiunto, la coscienza rimaneva limpidissima. Ciò che sorprendeva maggiormente era la rapidità della decomposizione dei cadaveri. La loro carne pareva dissolversi a vista d’occhio. E fu questa una delle cause della rapidità con cui si propagò il contagio: i miliardi di germi dei cadaveri si trovavano istantaneamente liberi. In simili condizioni, la scienza lottava inutilmente. I batteriologi morivano nei loro laboratori nel momento stesso in cui si accingevano a studiare il nuovo germe. Appena essi morivano, altri accorrevano a prendere loro posto: quegli scienziati erano altrettanti eroi! Un inglese, a Londra, riuscì per primo ad isolare il bacillo. La notizia fu telegrafata in tutto il mondo, e rinacque la speranza. Mais Trake, così si chiamava lo scienziato, morì nelle ventiquattr’ore che seguirono. Però il terribile germe era stato scoperto, e tutti i laboratori si misero all’opera per scoprire il germe contrario capace di distruggere quello della peste scarlatta. Ma tutti gli sforzi purtroppo fallirono!
«Muso di lepre», a questo punto, l’interruppe:
— Caro nonno, gli uomini del vostro tempo erano dei pazzi! Avete detto che questo germe era invisibile: ed essi pretendevano di combatterlo con germi anch’essi invisibili… Ma è per questo che sono morti! Lottare contro ciò che non si vede, aiutati da ciò che si ignora! Ma è da sciocchi…!
Il vecchio diede nuovamente la stura alle sue lagrime. Edwin si mise a consolarlo rimproverando «Muso di lepre»
— Ascolta un po’ – gli disse – tu credi all’esistenza di cose che non puoi vedere…
E siccome «Muso di lepre» scuoteva la testa:
— Sicuro, – proseguì – tu credi ai morti che camminano. E non ne hai visti andare a passeggio…
«Muso di lepre» protestò:
— Sì, sì, ne ho visti: l’inverno scorso, quando fui col babbo a caccia dei lupi…
— L’ammetto, – concesse Edwin. – Ma non è forse vero che sputi nell’acqua, ogni qualvolta attraversi un fiume od un torrente?
— Sicuro! Per allontanare la mala sorte. — Tu credi dunque alla mala sorte?
— Certamente.
Edwin concluse vittoriosamente
— Sai tu dirmi dove l’hai vista, la mala sorte? In nessun luogo, nevvero? Dunque sei allo stesso livello del nonno coi suoi germi. Anche tu credi a cose che non vedi… Continua, continua, nonno…
«Muso di lepre», molto mortificato dal topico ragionamento, rimase seduto, senza aprir bocca.
Il vecchio riprese a parlare, interrotto ogni tanto dalle domande e dalle osservazioni dei ragazzi che si scambiavano dubbi e obbiezioni sforzandosi di seguire il vecchio in quel mondo svanito e ad essi sconosciuto.
Ma allo scopo di rendere meno pesante il racconto, non faremo come quei ragazzi, nè vi intercaleremo più oltre le loro osservazioni.
— La morte scarlatta, – seguitò l’avo, – un brutto giorno fece la sua apparizione in San Francisco. Il primo decesso avvenne, lo ricordo ancora, la mattina di lunedì. Il giorno dopo, di martedì, a San Francisco e ad Oakland, gli uomini morivano come mosche.
E morivano dappertutto: sul letto, al lavoro, per la strada. Il giovedì seguente, per la prima volta, fui testimone d’una di queste morti terrorizzanti. Miss Collbram, una studentessa mia allieva, era seduta davanti a me, nell’aula.
Mentre stavo insegnando, m’accorsi a un tratto che il suo volto diventava scarlatto.
Smisi di parlare, continuando a fissarla. Tutti gli allievi seguirono il mio esempio. Proprio in quei giorni avevamo saputo che il terribile morbo s’era introdotto fra noi.
Le ragazze, spaventate, fuggirono dalla sala, lanciando grida disperate. I maschi, ad eccezione di due, scapparono anch’essi. Miss Collbram fu presa dalle convulsioni, che non durarono più di un minuto. Uno dei due studenti rimasti le porse un bicchiere d’acqua; ella lo prese ma ne bevve appena qualche goccia e si mise a gridare:
— I miei piedi! I miei piedi! Non li sento più! mi pare di non averli più… le mie ginocchia sono fredde… non le sento, non le sento più…!
Ella era stesa sul pavimento, con sotto la testa alcuni libri a mo’ di guanciale. Non potevamo far nulla per lei. La paralisi e con essa il freddo mortale raggiunsero l’addome, poi il cuore. E quando arrivarono al cuore la poveretta spirò. Io avevo seguito la sua agonia coll’orologio in mano: in quindici minuti, era morta! Là, nella mia aula! Morta! E fino a pochi momenti prima, era una bella ragazzona, piena di vita e di salute. Quindici minuti erano bastati per distruggere quel fiore di gioventù e di bellezza.
Mentre io stavo vicino alla moribonda, fu dato l’allarme in tutta l’Università. Ovunque, gli studenti, un migliaio circa, avevano disertato le aule e i gabinetti scientifici. Quando uscii per recarmi a presentare il mio rapporto al presidente della facoltà, trovai il deserto dinanzi a me!
Solo qualche ritardatario attraversava ancora le aule per scapparsene a casa. Taluni correvano come pazzi fuggiti di manicomio.
Trovai il presidente Hoag nella sua stanza, solo e pensieroso. Mi sembrò invecchiato e più pallido del solito. Le rughe gli solcavano la faccia, in modo impressionante.
Quando mi vide, parve scuotersi da un orribile sogno: si alzò e, indietreggiando con passo mal fermo verso la porta opposta a quella dalla quale ero entrato io, uscì; sbattè l’uscio dietro di sè chiudendolo a chiave.
Sapeva ch’ero stato esposto al contagio, e aveva paura. Attraverso alla porta mi gridò d’andarmene. E così feci.
Ah, non dimenticherò mai la terribile impressione di sgomento che provai attraversando le aule e i corridoi deserti! Non perchè avessi paura. Ero stato a contatto col morbo e mi consideravo bell’e spacciato. Ma perchè quello spegnersi così repentino e immediato della vita, di cui ero stato testimone, mi dava l’impressione di assistere alla fine del mondo. Quell’Università era stata la mia vita, la mia ragion d’essere. Mio padre era stato insegnante anche lui, là dentro, e prima di lui, mio nonno. La carriera, alla quale ero stato destinato fin dalla nascita, l’avevo percorsa tutta fra quelle pareti. Per un secolo e mezzo, quella grandiosa e superba istituzione aveva progredito sempre, senza mai subire il minimo arresto, come una macchina perfetta. E ora, così, d’un tratto, cessava di vivere. Ero annientato dall’orrore, da un tragico inesprimibile orrore.
Tornai a casa. La mia governante, appena entrai, scappò urlando come pazza. Suonai per chiamare la cameriera; non venne era scappata anch’essa. Feci il giro delle stanze e trovai, in cucina, la cuoca che preparava le sue valige. Appena mi vide, scappò urlando e lasciando cadere ogni cosa. Sento ancora nelle orecchie l’eco di quelle grida!
Dovete però sapere che in tempi normali, coi malati si agiva diversamente. Non si abbandonavano così alla loro sorte: si mandavano a chiamare i medici, gli infermieri, che, con tutta calma e ponderatezza esaminavano il malato e gli prescrivevano le cure necessarie. Ma stavolta il caso era diverso. Il male uccideva inesorabilmente: non c’era rimedio che potesse combatterlo. Non vi fu un solo caso di guarigione.
Rimasi dunque solo nella mia casa, ch’era vastissima. Aspettavo il ritorno di mio fratello, quando squillò il telefono. Come già vi dissi, in quei tempi gli uomini parlavano fra loro a distanza, per mezzo di fili stesi per aria, o sotto il suolo, ed anche senza fili.
Era mio fratello che chiamava. Mi disse che non sarebbe tornato a casa per paura del mio contatto, e che aveva accompagnato le nostre due sorelle a casa di un mio collega, il professor Bacon. Mi consigliò inoltre di starmene in casa tranquillo, finchè non mi fossi accertato d’essere o non contagioso.
Convenni che aveva ragione, e rimasi in casa. Siccome gli stimoli dell’appetito cominciavano a farsi sentire, cercai, per la prima volta in vita mia, di farmi da mangiare. La peste non venne. Per telefono potevo parlare con chi volevo e seguire ciò che succedeva di fuori. Potevo inoltre aver notizie del mondo intero per mezzo dei giornali. Avevo ordinato che mi fossero buttati al di qua del cancello d’ingresso della mia abitazione. Seppi, così, che Chicago e New York vivevano in pieno caos. E nelle stesse condizioni si trovavano tutte le altre grandi città. I poliziotti di New York erano morti, per un terzo. Il capo della polizia e il sindaco erano soggiaciuti anch’essi al morbo. Le leggi non esistevano più, gli ordini sociali erano sovvertiti, scomparsi.
I cadaveri rimanevano per le strade, sparsi qua e là, senza che nessuno si curasse della loro sepoltura. I treni e le navi che di solito trasportavano nelle grandi città i viveri e tutte le altre cose necessarie alla vita non viaggiavano più, e il popolo affamato saccheggiava botteghe e depositi.
Ovunque regnava la morte, il terrore.
Milioni di persone avevano già abbandonato New York e tutte le altre città. I ricchi erano fuggiti prima di tutti, sulle loro automobili, sugli aeroplani e sui dirigibili. Le masse avevano seguìto l’esempio, chi a piedi, chi a mezzo di veicoli di loro proprietà o rubati, portando e seminando così la peste attraverso le campagne, saccheggiando e affamando le cittadine, i villaggi e le fattorie che incontravano sul loro cammino.
L’uomo che lanciava le notizie attraverso l’America da New York, l’operatore del telegrafo senza fili, era solo col suo strumento, chiuso in una torre altissima. Egli annunciava che i pochi abitanti rimasti in città, un centinaio di migliaia circa, erano come pazzi di terrore e di spavento, e che, tutt’intorno a lui, vedeva elevarsi continuamente spaventevoli fiamme devastatrici. Quell’uomo, forse un oscuro giornalista, rimasto al proprio posto per un senso eroico del proprio dovere, fu, come gli scienziati caduti nei loro laboratori, un vero eroe. Dopo ventiquattr’ore, egli annunciava che neppure un areoplano nè un transatlantico erano arrivati dall’Europa; nemmeno un dispaccio! L’ultimo era venuto da Berlino, città capitale di una nazione chiamata Germania. Esso annunciava che uno scienziato, un certo Hoffmeyer, celebre batteriologo, aveva scoperto il siero contro la peste scarlatta.
Quella fu l’ultima notizia che arrivò dall’Europa. La scoperta, purtroppo, giunse in ritardo.
Era evidente che il flagello doveva aver compiuto uguale strage dell’umanità tanto nell’uno che nell’altro emisfero, e che sole poche decine di esseri umani erano sopravissuti. Il telegrafo senza fili di New York funzionò un altro giorno poi, improvvisamente, tacque. Il telegrafista chiuso nella torre era stato colpito anch’egli dalla peste scarlatta, o doveva essere perito in uno di quei terribili incendi da lui stesso descritti, e che tutt’intorno devastavano ogni cosa.
Ciò che era avvenuto a New York, succedeva, in forma identica, a San Francisco e nei dintorni. Dal martedì famoso, la gente aveva cominciato a morire con tale rapidità spaventosa, che i superstiti non facevano nemmeno a tempo a seppellire i cadaveri. Nella notte seguente, sopravvenne il panico, e cominciò l’esodo verso la campagna. Immaginate, ragazzi miei, moltitudini innumerevoli d’uomini, più numerosi delle frotte dei salmoni che avete veduto spesso risalire il fiume Sacramento… Erano moltitudini d’uomini che abbandonavano le città, e, come bande di forsennati, si riversavano nelle campagne, con la vana speranza di sfuggire alla morte che li seguiva, inesorabilmente, di pari passo. Poichè essi portavano con sè il germe, il germe invisibile del quale vi ho parlato poco fa. Persino gli aeroplani dei ricchi che fuggivano verso le montagne e i deserti, sperando di trovarvi sicuro asilo, portavano i germi inesorabili sulle loro ali.
Centinaia di questi aeroplani fuggirono verso Hawai; ma quando vi giunsero erano stati già preceduti dalla peste. Queste notizie le abbiamo apprese dal telegrafo senza fili, fino al momento in cui morì l’ultimo operatore.
Il mondo, attraverso a questo diminuire progressivo delle notizie, sembrava cessare a poco a poco di vivere, e spegnersi in una agonia impressionante.
Da sessant’anni ormai, esso ha cessato di esistere, per me. Io so che ci devono essere dei territori che furono un giorno New York, l’Europa, l’Asia, l’Africa, ma da sessant’anni non ne ho più sentito parlare.
Fu il crollo completo, assoluto!
Diecimila anni di cultura e di civiltà svanirono come bolle d’aria, in un batter d’occhio!

CAPITOLO IV.

Vi ho parlato finora degli areoplani dei ricchi, che portavano i germi della peste sulle ali, così che anche i ricchi stessi, come gli altri uomini, morivano. Uno solo, fra quelli che conoscevo, è sopravissuto: colui che sposò Maria, la mia figliola adorata. Egli arrivò alla tribù di S. Rosa otto anni dopo il disastro. Aveva allora diciannove anni e dovette aspettarne altri dodici prima di potersi ammogliare. Non c’erano donne libere: la maggior parte delle giovani e anche alcune di età piuttosto avanzata, erano fidanzate. Perciò egli dovette aspettare che mia figlia Maria compisse i sedici anni: «Corri-sempre», uno dei suoi figli, vostro cugino, è stato preso l’anno scorso dal leone sulla montagna, ricordate?…
L’uomo di cui vi parlo, e che divenne poi mio genero, al tempo della peste non aveva che undici anni. Si chiamava Maugerson. Suo padre era uno dei re dell’industria: un uomo ricco e potente. Sul suo grande aeroplano, il «Condor», egli aveva preso il volo con tutta la famiglia, verso le solitudini della Columbia inglese, che è molto lontana, verso il nord… Un guasto improvviso all’aeroplano lo fece precipitare sul monte Shasta. Avrete sentito certamente nominare questa montagna. La peste scarlatta scoppiò tra i componenti la famiglia, della quale non sopravvisse che quel ragazzo. Egli visse per otto anni, solo, su quella terra deserta sperando inutilmente d’incontrare qualche essere umano. Finalmente, dopo aver camminato per non so quanto tempo verso il sud, incontrò un giorno la tribù di S. Rosa e si unì con noi.
Ma mi accorgo che affretto troppo il mio racconto, e che precedo gli avvenimenti. Torniamo indietro d’un passo, cioè al periodo in cui cominciò il terribile esodo dalle grandi città e, quando io, isolato a mia volta, potevo ancora parlare per telefono con mio fratello. Gli dicevo che non mi sentivo alcun sintomo della peste, e che il meglio che si potesse fare era di riunirci e rifugiarci in un luogo sicuro.
Decidemmo finalmente di trovarci nel palazzo dell’Università destinato alla scuola di chimica. Là avremmo portato con noi una riserva di viveri: e, barricati solidamente, avremmo impedito l’accesso a chiunque si fosse presentato, ricorrendo magari alla forza delle armi. Ed avremmo atteso lo svolgersi degli avvenimenti. Concretato questo disegno, mio fratello mi pregò di rimanere altre ventiquattr’ore in casa, per avere la certezza d’essere immune dal terribile morbo. Stavamo ancora discutendo per telefono sul modo di procurarci i viveri, quando l’apparecchio cessò improvvisamente di funzionare. Alla sera venne meno la luce elettrica, e rimasi solo nella mia casa deserta e immersa nelle tenebre più fitte.
Siccome avevano cessato di stampare i giornali, ignoravo completamente tutto quanto avveniva al di fuori. Non mi giungeva che il frastuono prodotto dai tumulti e dai colpi di arma da fuoco; e dalla finestra scorgevo il bagliore di un immenso incendio in direzione di Oakland. Fu una notte d’angoscia durante la quale non potei chiudere occhio. E in quella notte stessa, un uomo, di non so quale condizione, fu ucciso sul marciapiede di fronte a casa mia. Egli si trascinò fino alla porta, ferito com’era, e suonò il campanello, gemendo e implorando soccorso. Presi due pistole automatiche e scesi incontro al ferito. Lo osservai alla luce di un fiammifero, attraverso la cancellata, e constatai che stava morendo a causa delle ferite ma che aveva anche, sulla faccia, i segni terribili della peste. Rientrai rapidamente in casa: per mezz’ora lo sentii lamentarsi e chiedere aiuto.
Il mattino dopo arrivò mio fratello. Avevo messi in una valigia i pochi oggetti di valore che desideravo portare con me. A un tratto, osservando il volto di mio fratello, m’accorsi con racapriccio che egli non avrebbe potuto seguirmi: sulla sua faccia apparivano i segni della peste. Mi stese la mano perchè gliela stringessi, ma io indietreggiai spaventato gridandogli:
— Guardati nello specchio!
Egli si guardò, infatti e, scorgendo la fiamma rossa che gli bruciava la faccia e che, a mano a mano ch’egli si guardava aumentava d’intensità, si lasciò cadere sopra una sedia, in preda a uno spasimo nervoso.
— Dio mio! – disse, – sono condannato! Non avvicinarti, fratello! Sono un uomo morto!
E fu subito preso dalle convulsioni.
Non morì che dopo due ore e, nonostante la paralisi che subito l’aveva preso salendogli poi al cuore, visse fino all’ultimo momento in piena conoscenza. Quando lo vidi cadavere, presi la mia valigia e m’incamminai verso la scuola di chimica.
Lo spettacolo che offrivano le strade era terrificante.
Ad ogni passo s’inciampava nei cadaveri; alcune vittime della peste agonizzavano ancora… Gli incendi prendevano proporzioni spaventose. A Berkeley essi non erano che pochi e isolati, ma San Francisco e Oakland erano tutti in fiamme.
Il fumo densissimo saliva oscurando il cielo e il pieno mezzogiorno rassomigliava a un nebuloso crepuscolo. Quando le colonne di fumo, sospinte dal vento si spostavano da una parte o dall’altra, il sole penetrava debolmente attraverso quel nebbione, e il suo globo appariva d’un colore rosso sbiadito e opaco.
In verità, ragazzi miei, sembrava di essere alla fine del mondo. Qua e là numerose automobili erano ferme per mancanza di benzina e rifornimenti. Ricordo d’aver veduto su una di quelle vetture due cadaveri, quelli di un uomo e di una donna, con la testa arrovesciata indietro sui seggiolini. Poco disotto, sulla strada, altre due donne con un bambino ciascuna per mano, stavano immobili, come impietrite dallo smarrimento. Ovunque si offrivano allo sguardo gli stessi spettacoli terrificanti di uomini che rasentavano furtivamente le case, silenziosi come fantasmi, di donne dalla faccia livida, con in braccio i loro bambini, di padri che conducevano per mano i più grandicelli… Soli o a gruppi, gli abitanti fuggivano dalla città della morte!, alcuni, carichi di provvigioni, altri di coperte, ma la maggior parte senza alcun carico, avendo i fuggitivi, nella fretta di scappare, abbandonato ogni cosa.
Passai davanti a una drogheria: La drogheria, ragazzi miei, era il luogo dove si vendeva roba da mangiare. Il proprietario del negozio, che io conoscevo molto bene, era un testardo, non cattivo ma ostinato quanto mai. Egli difendeva disperatamente l’ingresso del suo negozio. La porta e la vetrina erano state sfondate. Trincerato dietro il banco, l’uomo scaricava continuamente le sue rivoltelle sui predatori che tentavano di entrare per far bottino. Parecchi cadaveri erano già stesi per terra. Mentre osservavo a distanza la bottega, vidi uno dei predatori ch’era stato respinto dal droghiere, sfondare la vetrina di un negozio di calzature, e, dopo essersi servito di ciò che gli faceva comodo, appiccare il fuoco al negozio.
Non mossi un dito per soccorrere il negoziante di calzature o il droghiere. Non era più il tempo in cui ci si sacrificava pel prossimo. Ognuno lottava per difendere la propria vita.
Mentre scendevo in fretta una strada in declivio, dovetti assistere a un’altra tragedia. Due operai, due vagabondi, avevano aggredito un uomo e una donna dall’apparenza signorile, che fuggivano con i proprî bambini. Gli aggrediti non mi erano ignoti, sebbene non avessi mai avuto rapporto con loro. Lui era un poeta conosciutissimo, del quale avevo per tanto tempo ammirato le opere meravigliose. Ero incerto se accorrere o non in loro difesa, quando echeggiò un colpo di rivoltella e vidi il poeta abbattersi al suolo, esanime. La moglie lanciò urli strazianti. Uno dei due bruti atterrò anche lei con un terribile pugno. Io allora intervenni gridando delle minacce ai banditi; per tutta risposta quelli mi scaricarono addosso le loro rivoltelle. Presi a fuggire per sottrarmi alla loro malvagità, ma dovetti arrestarmi dinanzi all’incendio: dappertutto le case erano ridotte a immensi bracieri ardenti e le vie invase dal fumo e dalle fiamme.
Nelle tenebre rossicce, mi giunsero le grida di aiuto di una donna: non vi badai neppure. Dinanzi a quegli spettacoli terrificanti e fra tante grida e appelli disperati, il cuore dell’uomo più buono diventava duro come di pietra.
Tornando sui miei passi constatai con sollievo che i due assassini di poco prima erano spariti. Il poeta e la moglie giacevano per terra, cadaveri, i loro bambini erano scomparsi. Dov’erano andati? Non lo seppi mai.
Compresi allora perchè gli uomini fuggissero scivolando furtivamente come pallide ombre di spettri rasente le case. Nel cuore della civiltà, avevamo lasciato crescere, nei bassifondi e nei quartieri dei lavoratori, una razza di barbari che ora, nel momento del pericolo e della disperazione, si rivoltava contro di noi, con furore di animali selvaggi, cercando di distruggerci. Questi bruti, d’altra parte, si azzannavano anche fra di loro. Si bruciavano le viscere con bevande alcooliche fortissime abbandonandosi poi a mille atrocità inaudite, picchiando e ammazzando, come in preda alla più furiosa demenza.
Ripresi il cammino e incontrai un gruppo di operai dall’apparenza modesta ma, evidentemente, di buona condizione.
Essi, raggruppate le donne e i bambini nel mezzo, trasportavano i vecchi e i malati su alcune barelle, e s’avviavano verso la campagna, seguìti a poca distanza da un carro pieno di provviste, tirato da due cavalli.
Non potei far a meno di ammirare l’ordine col quale procedevano, sebbene essi, passandomi vicino, mi avessero scaricato addosso alcuni colpi di pistola. Uno di loro anzi mi gridò che avrebbero ammazzato tutti gli incendiarî e i ladri che avessero incontrati sul cammino: unico modo, del resto, per difendersi da essi. Mentre quello gridava, avvenne una scena che in seguito si ripetè varie volte al mio sguardo. Uno degli uomini del gruppo fu assalito improvvisamente dai sintomi della peste. Tutti quelli che si trovavano vicino a lui si scostarono subito. E il disgraziato, senza dir parola, uscì dalla carovana e li lasciò continuare per la loro strada. Una donna, probabilmente la moglie del disgraziato, con un bambino per mano, non voleva lasciare il marito. Ma questi le ingiunse di proseguire mentre gli altri, trattenendola, le impedivano di avvicinarglisi.
Vidi il marito, il cui volto fiammeggiava, nascondersi sotto l’atrio di un palazzo; dopo pochi istanti udii echeggiare un colpo di rivoltella, lo vidi cadere fulminato: l’uomo s’era ucciso.
Dopo di esser stato costretto dall’incendio a tornare indietro per ben due volte, riuscii finalmente a giungere all’Università. Entrando nel grande cortile, incontrai un gruppo di professori universitarii che si dirigevano, come me, verso la scuola di chimica: erano tutti capi di famiglia e accompagnavano le mogli, i bambini, perfino le nutrici e i domestici. Il professor Badminton mi salutò, ma stentai a riconoscerlo: era passato attraverso un incendio, e il fuoco gli aveva bruciacchiata la barba. Inoltre aveva la testa avvolta in una benda chiazzata di sangue e le vesti strappate e imbrattate anch’esse di sangue. Mi narrò d’essere stato aggredito e maltrattato selvaggiamente da alcuni malfattori, e che la notte precedente, mentre difendeva i suoi beni assieme al fratello, questi era stato assassinato.
Giunti nel mezzo del cortile, egli mi accennò improvvisamente con la mano Mistress Swinton sul cui volto apparivano i segni infallibili della peste. Istantaneamente, tutte le donne presenti si allontanarono dalla poveretta, urlando di spavento. I due bambini della signora Swinton furono trascinati via e salvati dalle loro nutrici: ma il marito, il professor Swinton, rimase accanto alla moglie.
— Continuate il vostro cammino, – mi disse egli: – abbiate soltanto cura dei bambini: io rimango con mia moglie. So benissimo ch’è già condannata inesorabilmente, ma non posso abbandonarla. Quando sarà spirata, se non sarò preso anch’io dal male, vi raggiungerò nella scuola di chimica. Vi prego di sorvegliare il mio arrivo e di farmi entrare.
Lo lasciai curvo sulla moglie alla quale cercava di rendere meno terribili le ultime sofferenze, e raggiunsi di corsa il mio gruppo. Fummo gli ultimi ad essere ammessi alla scuola. Le porte si chiusero dietro di noi, e con le carabine in pugno vegliammo per impedirne l’ingresso a chiunque. Nemmeno il professor Swinton fu fatto entrare, quando si presentò.
Nella scuola erano stati preparati posti per una settantina di persone: ma quelli ai quali erano stati assegnati tali posti, avevano condotto con loro i parenti, gli amici, persino intere famiglie. Così che ci trovammo ad essere in più di quattrocento. Fortunatamente, essendo i locali molto ampii, tutta quella gente trovò la maniera di allogarvisi comodamente. Inoltre, essendo la scuola completamente isolata dagli altri fabbricati, non c’era da temere l’incendio che faceva strage in città. Avevamo riunito forti quantità di cibarie che un comitato speciale fu incaricato di distribuire alle varie famiglie e ai gruppi ricoverati nella scuola. Sorsero altri comitati, con incarichi diversi. Io facevo parte del comitato di difesa. Il primo giorno, non s’avvicinò alcun malfattore nè vagabondo. In città questi erano numerosissimi, e dalle finestre dell’edificio si scorgevano i fuochi dei loro accampamenti, piantati a poca distanza dalla scuola. Udivamo quei banditi, sempre ubriachi, cantar canzoni oscene e urlare come pazzi. Mentre tutto il mondo crollava intorno, nell’asfissia d’un’atmosfera satura di fumo velenoso, quei bruti davano sfogo ai loro istinti bestiali, ubriacandosi e ammazzandosi fra di loro. In fondo, forse avevano ragione. Essi non facevano che anticipare la morte. Il buono e il cattivo, il forte e il debole, colui che amava la vita e quegli che la disprezzava, tutti morivano nella stessa maniera!
Passate ventiquattr’ore, constatammo con viva soddisfazione che, tra noi, non s’era manifestato alcun sintomo di peste. Per avere dell’acqua, fu deciso di scavare un pozzo. Voi tutti avete visto i rottami di quelle enormi condutture di ferro fuso che, in quei tempi, portavano l’acqua agli abitanti delle città. L’incendio aveva fatto scoppiare la maggior parte di quei tubi, e le vaste sorgenti che li alimentavano si erano prosciugate. Perciò, sfondammo il lastricato in cemento del grande cortile della scuola e scavammo il pozzo. Con noi c’erano molti giovanotti, studenti la maggior parte, e lavorammo giorno e notte. I nostri timori erano giustificatissimi: tre ore prima che il pozzo fosse terminato, l’acqua che ancora proveniva dalle condutture cominciò a scarseggiare.
Passarono altre ventiquattr’ore e la peste non fece alcuna apparizione.
Cominciammo a sperare d’esser salvi. Ignoravamo allora il numero dei giorni d’incubazione del male. Credevamo, data la rapidità con la quale la peste uccideva, dopo la manifestazione dei primi sintomi, che il suo sviluppo negli organismi non fosse meno rapido. Così, dopo quei due giorni, potevamo credere, in buona fede, che il contagio ci avesse risparmiati.
Ma il terzo giorno avvenne la terribile delusione! Durante la notte precedente, che non dimenticherò mai, ero di guardia dalle otto di sera alla mezzanotte. Dai tetti della scuola assistetti a uno spettacolo terrificante. San Francisco, invasa dalle fiamme e dal fumo, sembrava un vulcano in eruzione. L’incendio immane si propagava a vista d’occhio, avvolgendo terra e cielo in un bagliore sinistro. La quantità di faville era tale, che tutto il fumo ne era illuminato, e a quella luce si potevano leggere comodamente i più piccoli caratteri di stampa. Oakland, San Leonardo, Haywards, formavano un solo immenso braciere, e, verso il nord, fino al ponte di Richmond, sorgevano nuovi incendî. Il mondo sembrava inabissarsi in una spaventosa voragine di fiamme. Le polveriere della Punta Pinol saltarono in aria improvvisamente, con terribili successive esplosioni.
Benchè la scuola fosse solidamente costruita, tremò dalle fondamenta, come per una scossa di terremoto, e tutti i vetri furono infranti.
Scesi di corsa dai tetti e passai di camera in camera per rassicurare le donne spaventate, narrando loro quanto era successo.
Un’ora dopo sorse un fracasso indiavolato negli accampamenti dei vagabondi. Si udivano urli di protesta e di minaccia, misti con colpi di rivoltella. Là per là non ci passò nemmeno per la mente, e con ragione, l’idea che tutto quel fracasso fosse dovuto al fatto che quei vagabondi volevano scacciare alcuni loro compagni colpiti improvvisamente dal morbo.
Molti di quelli così scacciati si presentarono alle porte della scuola. Noi li avvertimmo che avremmo loro impedito l’accesso a costo di far uso delle armi. Per tutta risposta essi ci coprirono d’ingiurie e scaricarono contro di noi le loro pistole.
Il professor Merryweater, che si trovava a una delle finestre del pianterreno, ricevette una pallottola nel mezzo della fronte e rimase fulminato.
Rispondemmo allora con una nutrita scarica di fucili, e gli aggressori fuggirono, eccetto tre, fra i quali una donna. La peste li aveva già destinati alla morte, così che non avevano alcun timore di esporre la propria vita. Con quelle loro facce scarlatte che i riflessi del cielo arrossato facevano sembrare visi di demoni infuriati, seguitarono ad ingiuriarci, sparando su di noi. Allora io per primo, ne presi di mira uno e lo uccisi. Dopo di lui, anche l’altr’uomo e la donna furono stesi sul selciato, sotto le nostre finestre e ci toccò di assistere alla loro agonia.
Così la condizione dei ricoverati nella scuola divenne pericolosissima. Dalle finestre rimaste senza vetri, a causa delle esplosioni di poco prima, i germi della peste che emanavano i cadaveri entrarono liberamente. Il comitato sanitario fu invitato a prendere le precauzioni necessarie, ed esso rispose nobilmente al suo compito.
Due uomini furono designati perchè uscissero dalla scuola e trasportassero lontano i cadaveri. Era per essi il sacrificio quasi certo della vita. Tanto più che i due, compiuto il loro incarico, non avrebbero più potuto rientrare nel nostro rifugio. Si offrirono spontaneamente alla bisogna un professore celibe e uno studente. Ci lasciarono, dopo averci salutato…. furono due eroi. Diedero la loro vita per tentar di salvare quella di quattrocento loro simili.
Usciti, rimasero qualche istante vicino ai morti, volsero gli sguardi pensosi verso di noi, poi, agitando le mani in segno d’estremo addio, s’incamminarono verso la città, trascinando i cadaveri.
Ma, purtroppo, tutte queste precauzioni furono inutili. Il giorno dopo, la peste fece tra noi la prima vittima: una piccola nutrice della famiglia del professor Start. Non erano momenti in cui si potesse far del sentimentalismo. Sperando che fosse la sola colpita, le intimammo di andarsene e la spingemmo fuori. Ella obbedì, e s’allontanò lentamente, torcendosi le mani per la disperazione e singhiozzando lamentosamente. Avevamo la più chiara percezione della brutalità del nostro atto, ma che fare? Per salvare i più, bisognava assolutamente sacrificare il singolo.
Ma non era finita. In uno dei laboratori della scuola, tre famiglie avevano stabilito il loro domicilio. Nel pomeriggio, scoprimmo fra essi quattro cadaveri e sette casi di peste in stadî diversi. Da quel momento il terrore s’impadronì di noi… Abbandonammo i cadaveri dove si trovavano e costringemmo i superstiti ad isolarsi in un’altra stanza. Le tre famiglie erano contagiate e a mano a mano che i sintomi della peste apparivano, le vittime erano isolate in altre stanze appartate. E i colpiti dovevano andarvi da soli, senza che nessuno di noi li toccasse. Tutto questo ci straziava il cuore!
Ma la peste faceva strage, oramai… Tutte le stanze si empivano, l’una dopo l’altra, di agonizzanti e di morti. I pochi sani rimasti, si rifugiarono al secondo piano e poi al terzo, dinanzi a quella marea di morte che di camera in camera, di piano in piano, sommergeva tutto l’edificio. La scuola divenne presto un carnaio in putrefazione, così che nella notte seguente i superstiti l’abbandonarono definitivamente, portando con sè armi, munizioni, e una certa quantità di cibi in conserva.
Ci accampammo nel cortile: alcuni fecero la guardia ai viveri, altri uscirono ad esplorare la città in cerca di mezzi per trasportare i viveri stessi. Poi, come avevamo visto fare dalle comitive d’operai, tentammo di aprirci la strada verso la campagna. Io fui mandato in esplorazione, e il dottor Hoyle, ricordandosi che la sua automobile era rimasta nel garage, mi pregò di andarla a prendere.
Si usciva a due a due: il mio compagno era un certo Dombey, uno studente.
Dovemmo attraversare la città facendo un percorso di circa mezzo miglio, per arrivare all’abitazione del dottor Hoyle. In quel quartiere le case erano divise le une dalle altre da alberi, giardini, appezzamenti di terra coperti di erba foltissima che il fuoco, come per gioco, aveva bruciata.
Tutto un enorme caseggiato, invaso dalle faville trasportate dal vento, era stato distrutto dal fuoco. Poco lontano, invece, altre case erano ancora intatte. Anche là i vagabondi avevano iniziata la loro opera delittuosa. Dombey ed io, tenendo bene in vista le nostre pistole automatiche, avevamo un aspetto così risoluto e deciso, che nessuno dei malviventi che incontrammo osò attaccarci.
La casa del dottor Hoyle non era ancora stata toccata dall’incendio. Ma il fumo cominciava ad uscirne proprio nel momento in cui stavamo per penetrare nel giardino. Il bandito che aveva appiccato il fuoco, asportata una quantità di bottiglie i cui colli gli uscivano dalle tasche, scese le scale della casa, apparve all’ingresso. Il mio primo impulso fu di scaricare su di lui le mie pistole, ma mi trattenni: quanto ho dovuto pentirmi, poi, di non averlo fatto! Fischiettando e parlando come a se stesso, con occhi iniettati di sangue e due tagli ancora sanguinanti sulla faccia, tagli dovuti certamente a qualche vetro rotto sul quale era scivolato, quell’essere pareva il campione più ripugnante della degradazione umana.
Attraversando il giardino per arrivare sulla strada, si appoggiò contro un albero, fingendo di darci il passo. Ma appena gli fummo vicini, egli scaricò fulmineamente la sua pistola sul mio compagno.
Si trattava di un omicidio brutale, senza ragione, non provocato in alcun modo da noi: dopo un attimo, una pallottola della mia pistola aveva fatto giustizia del brigante: in ritardo, purtroppo! Dombey era morto sul colpo, senza aver avuto neppure il tempo di rendersi ragione dell’accaduto. Abbandonai i due cadaveri e corsi verso la casa in fiamme, appena in tempo per trascinare fuori dal garage l’automobile del dottor Hoyle. Il serbatoio era pieno di benzina, e non ebbi che da mettere in moto la vettura.
A tutta velocità, ritornai all’accampamento dei superstiti. Le altre squadre ritornarono anch’esse dalle loro esplorazioni, ma erano state meno fortunate di me. Solo il professor Fairmead aveva snidato un poney di Shetland. Ma la povera bestia, chiusa nella scuderia e lasciata colà in abbandono per tanti giorni, era così debole, per mancanza di nutrimento e d’acqua, da esser incapace di sostenere qualunque peso. Qualcuno di noi propose di ridare la libertà all’animale, ma io insistetti per condurlo con noi, affinchè in caso di bisogno ci servisse di nutrimento. Eravamo in quarantasette quando ci mettemmo in cammino; molte donne e bambini erano con noi. Nell’automobile prese posto, prima di tutti, il Presidente della Facoltà, un vecchio che i terribili avvenimenti avevano completamente disfatto. Con lui salirono i bambini e la vecchia madre del professor Fairmead. Un giovane professore d’inglese, un certo Wathope, ch’era ferito gravemente a una gamba, prese il comando della macchina. Il resto della carovana proseguì a piedi. Il professor Fairmead conduceva il poney per la briglia.

CAPITOLO V.

Quel giorno, doveva essere un magnifico giorno d’estate. Ma il turbine di fumo sul mondo in fiamme oscurava il cielo come una spessa cortina, attraverso la quale si scorgeva appena il disco solare, d’un colore rosso come di sangue. Ormai, purtroppo, eravamo avvezzi a quello spettacolo sinistro, da parecchi giorni. Il fumo ci bruciava le narici; avevamo gli occhi arrossati e lacrimosi.
Eravamo diretti verso il sud-est, attraverso una quantità di colline basse e verdeggianti che contornavano la città e sulle quali si succedevano continuamente ville graziose e signorili. Precedevamo con fatica; le donne e i bambini, in ispecie, si trascinavano penosamente. Allora, ragazzi miei, non eravamo molto avvezzi a camminare: avevamo tanti veicoli a nostra disposizione! Dopo la peste ci avvezzammo anche alle lunghe marce…
Andavamo, dunque, lentamente, regolando il nostro passo su quello degli altri, per mantenerci uniti. I vagabondi erano meno numerosi: quelle belve umane da preda erano morti la maggior parte. Ma i pochi rimasti costituivano sempre per noi una continua minaccia. Le ville magnifiche abbandonate, dinanzi alle quali passavamo, erano quasi tutte intatte. Andavamo nei garages in cerca di automobili e di benzina, ma senza fortuna. Tutto quanto vi poteva essere di utile era stato portato via. Durante queste ricerche, perdemmo uno dei nostri compagni, un certo Calgai. Fu ucciso da un vagabondo nascosto dietro un cespuglio. Quella morte fu l’unica disgrazia del genere che ci capitasse. Incontrammo un altro bruto che aprì il fuoco su di noi, ma tirava così stupidamente, nell’accecamento della sua rabbia folle, che lo uccidemmo prima che potesse farci del male.
A Frintwall, uno dei più bei paesi di quei dintorni, la peste scarlatta uccise uno di noi. La vittima fu il professor Fairmead. Quando si accorse d’essere stato attaccato dal male, ci scongiurò a forza di gesti, di non dir nulla a sua madre, che si trovava sull’automobile; poi s’allontanò e andò a sedersi, disperato, sui gradini d’una superba villa vicina. Io ero l’ultimo del gruppo, e il povero professore m’inviò, con la mano, un ultimo saluto d’addio. Durante la giornata, cinque altri subirono la stessa sorte.
Continuammo ugualmente la nostra strada, e, verso sera, ci accampammo a parecchie miglia da Frintwal. Dieci altri compagni morirono quella notte stessa, e ogni volta dovemmo levare il campo per allontanarci dai loro cadaveri. Al mattino, eravamo rimasti in trenta.
Durante la prima tappa, fu colpita la moglie del presidente della Facoltà, che andava a piedi. Il disgraziato marito, vedendola allontanarsi, volle a tutti i costi scendere dall’automobile per rimanere con la poveretta. Tutti i nostri sforzi per dissuaderlo furono inutili: dovemmo cedere alla sua volontà. La notte seguente, la seconda del nostro viaggio, ci fermammo in piena campagna. Avevamo avuto undici morti il giorno prima: altri tre si aggiunsero a quelli nella notte. Il mattino dopo eravamo ridotti a undici perchè Wathope, il professore ferito alla gamba, era fuggito con l’automobile, portando con sè la moglie, la sorella e quasi tutte le nostre provviste. Fu in quel giorno che, stando seduto per riposare, scorsi l’ultimo aeroplano. Essendo il fumo, sulla campagna, molto meno denso, scorsi il velivolo che, a circa duecento piedi di altezza, sembrava girare nel cielo completamente abbandonato. Dopo pochi istanti lo vidi abbassarsi. Che cosa era successo? A un tratto, la benzina prese fuoco ed esplose, e l’aeroplano, dopo qualche momento di esitazione, precipitò al suolo, come un blocco di piombo. Da quel giorno non ho più visto aeroplani. Negli anni che seguirono, scrutavo spesso il cielo, sperando di vederne apparire qualcuno, e che qualche pilota fosse sopravissuto alla catastrofe. Ma inutilmente.
A Niles, il giorno seguente, eravamo ridotti a tre: sull’orlo d’una strada trovammo l’automobile di Wathope rovesciata e, sulle coperte ch’egli aveva stese per terra, tre cadaveri: Wathope, la moglie e la sorella. Quella notte dormii d’un sonno pesante. La lunga marcia aveva annientato la mia resistenza fisica.
Svegliatomi, m’accorsi di esser rimasto solo. Canfield e Parsons, i miei due compagni, erano morti di peste. Delle quattrocento persone che s’erano rifugiate con me nella scuola di chimica, e delle quarantasette che formavano la carovana al principio del nostro esodo, ero rimasto io solo, col poney di Shetland. Perché? Non tenterò nemmeno di spiegarlo. Non fui contagiato: ecco tutto. Ero stato l’unico fortunato di un milione, anzi di parecchi milioni di miei simili. Poichè tale fu la proporzione dei superstiti rispetto ai morti. Per due giorni vissi in un delizioso boschetto, lontano dai cadaveri. Ero molto depresso, e pur pensando che da un momento all’altro poteva giungere la mia volta di morire, mi rimisi un po’ in forze. E così anche il poney
Il terzo giorno, subentrò in me la persuasione d’essere immunizzato: allora caricai le poche provviste che avevo sul poney e ripresi il cammino attraverso un mondo desolato. Non incontrai un essere vivente: nè uomo, nè donna, nè fanciullo, ma solo cadaveri, sparsi dovunque. Gli alimenti, naturalmente, non mancavano. La terra, a quell’epoca, non era come oggi. Gli alberi e le piante inutili erano stati sradicati, e la terra era ben coltivata.
Intorno a me, c’era di che nutrire milioni di bocche: ed ora tutto andava inutilmente perduto. Sui campi e nei verzieri, raccolsi frutta e legumi in quantità. Nelle fattorie abbandonate raccolsi uova covate di fresco, e galline. Nelle dispense, trovai ogni sorta di alimenti in conserva.

Strana davvero fu la sorte degli animali domestici: tornati allo stato selvaggio, si divoravano fra di loro. I polli, i pulcini e i canarini furono i primi ad essere distrutti. I maiali, invece, si adattarono meravigliosamente alla nuova vita, e, com’essi, i gatti e i cani. Questi ultimi, anzi, in breve costituirono un vero flagello, tanto erano divenuti numerosi.
Divoravano i cadaveri e non ismettevano di urlare e di abbaiare, notte e giorno. Nei primi tempi vagavano soli, sospettosi dei loro stessi simili, e decisi a ingaggiare la lotta, quando li incontravano. Un po’ per volta, con l’andar del tempo, si riunirono formando delle torme vere e proprie. Il cane è un animale di natura socievole ma, mancandogli la compagnia dell’uomo, si rivoltava contro i suoi stessi simili.

Prima che succedesse il disastro che vi ho narrato, v’erano diverse specie di cani: alcuni dal pelo raso, altri dalla pelliccia folta e morbida. C’erano cagnolini piccolissimi, tanto piccoli che quelli grossi, robusti come leoni, avrebbero fatto di loro un sol boccone. Ed infatti i più piccoli furono distrutti in breve tempo dai loro stessi fratelli. I grandi cani di razza non si adattarono alla vita selvaggia. Rimasero solo i cani di media taglia, dall’organismo forte e ben costrutto, e si sottomisero facilmente alla nuova condizione loro imposta dalla sorte. Questi sono i cani lupi che anche voi conoscete, perchè anche oggi scorrazzano per la campagna.
— E i gatti, – interrogò Hou-Hou, – perchè non si riunivano anche essi come i cani? Perchè, nonno?
— Il gatto, – rispose questi, – non è un animale socievole. Ricordo un grande scrittore, vissuto nel XIX secolo, che disse: «Il gatto è un solitario». Prima che l’uomo l’attirasse a sè e lo addomesticasse, al tempo della passata civiltà, esso viveva solo. Crollata la civiltà, il gatto ha ripreso la sua libertà e il relativo isolamento. Anche il cavallo tornò allo stato selvaggio. Tutte le razze che l’uomo possedeva ed allevava, un tempo, hanno degenerato e si sono fuse in un tipo unico; il mustang-horse, che voi conoscete. Lo stesso fecero le mucche, i montoni e, fra gli uccelli domestici, i piccioni. Quanto ai polli, essi non rassomigliano per nulla a quelli che un tempo popolavano i nostri pollai.
Ma riprendiamo le fila della nostra storia.
Camminavo dunque, attraverso un mondo deserto. A mano a mano che il tempo passava, sentivo sempre più vivo il desiderio d’incontrare qualche creatura umana; ma non incontravo anima viva, e mi sentivo ogni giorno più solo. Attraversai la Valle di Livermore, poi le montagne che la separano dalla Valle di San Joachim. Voi non avete mai visto quella vallata. È immensa e magnifica, popolata anche oggi da cavalli selvaggi che vivono riuniti in mandrie di migliaia e migliaia di capi. Vi ritornai circa trent’anni or sono, ed era ancora tale e quale ve la descrivo.
Le mucche, tornate, allo stato selvaggio, stabilirono le loro colonie nelle valli più basse e di temperatura mite, dove potevano, all’occorrenza, proteggersi contro il freddo. A mano a mano che mi allontanavo dai grandi centri abitati, trovavo villaggi deserti e ville abbandonate, ma intatte. Da quelle parti erano passati pochi vagabondi e incendiari; ma villaggi e case erano pieni di cadaveri di appestati, così che credetti bene passare prudentemente al largo. Vicino a Lathrop, per ingannare la mia solitudine, raccolsi due cani coolies, che sembravano imbarazzati per la ricuperata libertà e fecero con gioia atto di sottomissione all’uomo. Queste bestie mi hanno accompagnato, in seguito, per tanti anni: il loro istinto era lo stesso dei vostri cani. Ma in sessant’anni questi hanno quasi dimenticato la loro educazione ancestrale ed ora assomigliano piuttosto a lupi addomesticati.
A questo punto, «Muso di lepre» si alzò e gettò uno sguardo sulle sue capre per assicurarsi che nulla fosse loro accaduto, poi osservò la posizione del sole che cominciava a declinare, e diede qualche segno di impazienza per la stucchevole abbondanza di particolari nei quali il vegliardo si dilungava. Edwin si unì col compagno per sollecitare il vecchio a finire il racconto.
— Non ho più gran che da dirvi, – riprese il vecchio. – Accompagnato dai due cani, dal poney che trasportava il carico delle provviste, e da un altro cavallo che ero riuscito a catturare e che cavalcavo, attraversai la Valle di San Joachim e arrivai, attraverso la Sierra, in un’altra valle non meno bella dell’altra, chiamata Yosemite. Là, nel Grand-Hôtel, trovai un’enorme provvista di cibi squisiti in conserva. La selvaggina abbondava nei dintorni e il fiume impetuoso che scorreva a valle era ricco di trote.
Vissi tre anni nella più completa solitudine, in quella triste solitudine della quale può comprendere la profonda malinconia nostalgica solo chi ha conosciuto la superba grandezza dell’antica civiltà. Vi fu un periodo in cui tale isolamento mi divenne insopportabile. Sentivo che, prima o poi, sarei impazzito. Come il cane, ero anch’io un essere socievole e non potevo vivere senza la compagnia d’altri della mia specie. Ragionando, mi convinsi che, essendo io sopravissuto alla peste scarlatta, probabilmente qualche altro uomo poteva essere scampato al flagello. Pensai anche che, dopo tre anni, tutti i germi malefici dovevano essere scomparsi, e che la terra doveva essere, senza dubbio, ridiventata abitabile.

CAPITOLO VI.

Trottando sul mio cavallo, e sempre fiancheggiato dai due cani e dal poney, mi rimisi in cammino. Riattraversai la valle di San Joachim e, abbandonando le montagne, ridiscesi verso la valle di Livermore.
La trasformazione avvenuta nelle cose in quei tre anni, era sorprendente. A fatica, potei riconoscere i paesi. Meravigliosamente coltivati un giorno, erano ora invasi da una marea di vegetazione selvaggia che aveva sommerso completamente il lavoro degli antichi agricoltori. Capirete bene, ragazzi miei, che il grano, i legumi, gli alberi da frutta, erano curati dall’uomo e ben tenuti. Le erbe cattive, invece, e gli arbusti spinosi ai quali l’uomo aveva fatto guerra in tutti i tempi, erano d’altra specie, più dura e più resistente. Il giorno che l’opera dell’uomo venne a mancare, questa seconda vegetazione prese il sopravvento e soffocò la prima. Incontrai anche molti coyotes, che s’erano moltiplicati innumerevolmente, e lupi che, in gruppetti di due o tre, scendevano come me, dai monti verso gli antichi territorî dai quali erano stati scacciati. Presso il lago Temescal, non lungi da quella che fu un tempo la città di Oakland, mi accadde d’incontrare la prima creatura umana ancora vivente.
Ah, ragazzi miei, come esprimere l’emozione che provai quando dalla groppa del mio cavallo, mentre scendevo le colline che dominano il lago, scorsi, tra gli alberi, il fumo d’un accampamento? Mi parve che il mio povero cuore cessasse di battere ed ebbi l’impressione di smarrire la ragione. Poi, avvicinandomi, udii il vagito di un bimbo, di una piccola creatura umana! All’abbaiare di alcuni cani rispose l’abbaiare dei miei. Per molto tempo avevo creduto di essere il solo superstite dell’immane disastro… Ed ecco che scorgevo del fumo e sentivo piangere un bambino! Non tardai molto a scorgere un uomo sulla riva del lago, lontano da me poco più di cento yards.
Non aveva nè l’aspetto d’un miserabile, nè d’un malato, sembrava anzi godere ottima salute, e pescava stando seduto su una roccia a picco sul lago. Fermai il cavallo, e lo chiamai. L’uomo, che, al richiamo, s’era voltato, non rispose. Agitai la mano per augurargli il buon giorno, ma anche questa volta rimase muto. Allora mi nascosi la testa fra le mani… Non osavo più rialzarla nè aprire gli occhi; temevo d’essere vittima di un’allucinazione, d’un’immagine che, nel momento in cui avessi voluto fissarla di nuovo sarebbe sparita.
Temevo di distruggere quella visione che m’era ormai tanto cara, e che, finchè non l’avessi fatta scomparire col guardarla di nuovo, rimaneva nel mio pensiero. Stetti così immobile fino al momento in cui fui riscosso dal brontolìo dei cani e dalla voce dell’uomo che mi parlava.
— Da dove diavolo vieni? – disse quella voce.
Queste furono le testuali parole che udii pronunciare a guisa di benvenuto, sulle rive del Lago Temescal, esattamente cinquantasette anni or sono. E giammai voce umana mi sembrò più dolce. Riaprii gli occhi e vidi dinanzi a me un uomo d’alta statura, dallo sguardo cupo e duro, dalle mascelle possenti e dalla fronte obliqua.
Mi lasciai scivolare, più che scendere, dalla mia cavalcatura, e non so dirvi altro se non che dopo un attimo stringevo le sue mani fra le mie, piangendo. L’avrei abbracciato. Egli non rispose affatto alle mie effusioni; mi scrutò con uno sguardo indagatore, e s’allontanò. Gli corsi dietro, m’aggrappai a lui, singhiozzando a più non posso.
A questo ricordo, la voce del vecchio parve soffocare, mentre le lacrime gli rigavano le gote.
— Volevo stringerlo fra le mie braccia, coprirlo di baci. Ma lui non voleva. Era un bruto, assolutamente: l’essere più antipatico che si possa immaginare. Si chiamava… Come diavolo si chiamava? Non ricordo più il suo nome. Ma lo chiamammo poi lo chauffeur. Era questo il nome della sua antica professione, e l’aveva conservato. Ed ecco perchè la tribù ch’egli fondò si chiamò la tribù degli Chauffeurs. Egli era villano, violento e ingiusto, quanto mai. Non riuscii mai a comprendere perchè la peste scarlatta l’avesse risparmiato. Sembrava, a guardare soltanto quella faccia, che, in barba a tutte le dottrine da noi predicate, ogni giustizia fosse scomparsa dal mondo. Quando non poteva parlare d’automobili, di motori o di benzina, si vantava dei tiri degni della forca, che aveva giocato ai suoi antichi padroni; ci raccontava come faceva per truffarli e derubarli. Era questo un argomento del quale non si stancava mai. E un simile briccone fu risparmiato, mentre milioni e milioni d’altri esseri dovettero soccombere!
Lo seguii fino all’accampamento, dove feci conoscenza della sua donna. Ecco ciò che mi stupì e addolorò insieme! Riconobbi quella donna: Era Vesta Van Warden, giovane sposa, un tempo, del banchiere John Van Warden. Sì, proprio lei quella, che, vestita di stracci e piena di cicatrici, con le mani callose e deformate dai più duri lavori, stava chinata sul fuoco dell’accampamento e cucinava il desinare come una sguattera qualunque. Vesta Van Warden! nata nella pompa opulenta della casa d’uno dei più possenti finanzieri che il mondo abbia conosciuto. Suo padre, Filippo Saxon, era stato presidente dei Magnati dell’industria. Non c’era dubbio che se egli avesse avuto un figlio, questi gli sarebbe successo come un discendente reale, erede della corona. Ma il suo unico nato era questa figlia, fiore dolcissimo di grazia, dotata della solida cultura della nostra antica civiltà. Sposandola, John Van Warden, ricco a milioni, ricevette da Filippo Saxon l’investitura del suo titolo e delle sue cariche, cui aggiunse il titolo di primo ministro del controllo internazionale dei popoli. Egli, infatti, per molti anni governò il mondo. Vesta aveva realmente amato suo marito? Aveva avuto per lui quella folle passione che cantarono i poeti? Mi permetto di dubitarne. Quello fu soprattutto un matrimonio politico, uno di quei matrimonî che spesso si combinavano presso le antiche corti. E questa donna ora faceva cuocere il pesce in un vecchio orciuolo sporco e incrostato, mentre l’acre fumo le irritava e arrossava gli occhi meravigliosi.
La storia di quella donna era molto triste.
Come lo chauffeur, ella era una fra i pochissimi superstiti della peste. Su una delle colline che sovrastano la baia di San Francisco, Van Warden aveva fatto costruire una magnifica villa circondata da un parco immenso. Appena scoppiata la peste, egli aveva mandato colà Vesta. Alcuni guardiani, armati fino ai denti, impedivano a chiunque l’accesso alla villa, e nulla vi entrava, se non dopo esser stato prima accuratamente disinfettato. Nonostante queste precauzioni, la peste entrò anche là dentro, e cominciò la sua opera di distruzione uccidendo i guardiani, i domestici, tutto un esercito di intendenti e servitori, e tutti coloro che non erano fuggiti per andare a morire altrove. Così, Vesta si trovò sola nella sua villa divenuta un ossario. Lo chauffeur, era uno degli antichi servitori fuggiti al primo apparire della peste. Ritornò nella villa dei suoi padroni due mesi dopo, e trovò la giovane sposa in un padiglione del parco, dove s’era rifugiata. Spaventata dalla vista di quel bruto, ella fuggì nascondendosi tra gli alberi. Andò, così, alla ventura, un giorno e una notte, trascinando penosamente i suoi piedini e il bel corpo delicato che mai avevano conosciuto il martirio dei sassi e delle spine. Lo chauffeur la inseguì e la raggiunse all’alba.
Cominciò col picchiarla. Con dei pugni enormi e pesanti, egli osò battere quel fragile corpo, per ridurla ad obbedirgli in tutto e per tutto, e far di lei, insomma, la sua schiava.
La disgraziata dovette raccogliere i rami secchi nel bosco per accendere il fuoco, occuparsi della cucina e dei più duri servizi. Lei!, che nella sua vita non aveva conosciuto il più lieve lavoro manuale! Si sottomise: subì l’amore bestiale di lui, divenne la sua schiava mentr’egli, da quel bruto che era, se ne stava tutto il giorno sdraiato e dava ordini e sorvegliava il lavoro di lei.
Questo essere immondo, questo fannullone, quando non andava a caccia o alla pesca, passava intere giornate a girarsi e rigirarsi i pollici.
«Muso di lepre» approvò, e dichiarò agli altri ragazzi:
— Questo è il ritratto preciso dello chauffeur! Lo conobbi prima che morisse. Era un uomo di statura non comune. Per distrarsi, fabbricava dei meccanismi che camminavano da soli. Mio padre mi fece sposare una figlia di lui. Egli le batteva tutt’e due e batteva anche me. Era un ignobile bruto cui tutti dovevano obbedire. Mentre stava per morire, un giorno, m’avvicinai un po’ troppo a lui; egli afferrò un lungo bastone che aveva sempre a portata di mano, e poco mancò che non mi spaccasse il cranio. – A questo ricordo, «Muso di lepre» si grattò la testa, come se ancora vi sentisse dolore, mentre gli altri ragazzi lo guardavano e il vecchio mormorava non si sa quali misteriose parole, a proposito di Vesta Van Warden, la donna che aveva fondato la tribù degli chauffeurs.
Poi, egli proseguì:
— Non potete capire tutto l’orrore di quello stato di cose. Lo chauffeur era fino a ieri un uomo che si chiamava «domestico», cioè un uomo che trascorreva la sua vita a obbedire, ad abbassare la testa, a inchinarsi dinanzi a colei che poi divenne la sua schiava. Ella era una regina della vita, per nascita e per il matrimonio contratto. Nella palma della sua piccola rosea mano, teneva il destino di milioni e milioni di uomini, e comandava a bacchetta a centinaia e centinaia d’altri, tutti eguali, per condizione sociale, allo chauffeur. Nel tempo che precedette la peste scarlatta, il più piccolo contatto con persone di quella condizione inferiore sarebbe stato per lei un disonore.
Una volta, era così…
Ricordo d’aver visto un giorno Mistress Goldwyn, la moglie d’un altro Magnate, lasciar cadere l’ombrello mentre stava per salire sulla piattaforma d’imbarco del suo dirigibile. L’ombrello fu raccolto da un domestico che, distrattamente, glielo porse. Ella retrocedette, come di fronte a un lebbroso, e fece cenno al suo segretario, che non la lasciava mai, di raccoglier lui l’ombrello e di consegnarglielo. Ordinò poi che il domestico impudente fosse cacciato all’istante.
Vesta Van Warden era una donna di questo genere.
E lo chauffeur la picchiò fino a che ella non acconsentì a diventare sua schiava. Bill…. ecco che ricordo il nome… Bill lo chauffeur, era un briccone d’infima specie, un essere vile soprattutto, sprovvisto d’ogni cultura e d’ogni educazione, specie verso le donne.
E proprio a lui toccò la più meravigliosa creatura che mai si sia vista al mondo! Vesta Warden! Voi non potete capire queste cose perchè siete dei piccoli selvaggi e avete la stessa natura degli uomini primitivi… Vesta in braccio a quell’uomo! Che cosa orribile!… Perchè non fui io ad incontrarla? L’avrei trattata ben diversamente. Ero un uomo colto, bene educato, onorato e professore d’una grande Università… Ve l’ho già detto: non c’è giustizia a questo mondo! Al tempo della sua grandezza, Vesta era così al disopra di me stesso, che non si degnò neppure di sapere se esistessi. Ma, dopo la peste, sarei stato per lei un magnifico partito. Invece, guardate un po’ in quale abisso di degradazione era caduta! Ed ella m’avrebbe amato, ne sono sicuro! Il terribile cataclisma che ci riunì mi permise di conoscerla da vicino, d’interrogare i suoi begli occhi, di conversare con lei, di stringere le sue mani nelle mie, d’amarla e di persuadermi che anch’ella provava per me i sentimenti più teneri ed affettuosi. Era chiaro ch’ella preferiva me allo chauffeur.
Ma perchè la peste, che aveva distrutto milioni d’uomini, doveva risparmiare proprio quel delinquente?
Un pomeriggio, andato lo chauffeur a pescare, e rimasto io solo con lei, ella mi scongiurò di ucciderlo. Mi supplicò con le lacrime agli occhi! Ma il bandito era robusto e violento, ed io non ebbi il coraggio di tentare l’impresa. Qualche giorno dopo, proposi allo chauffeur di cedergli il mio cavallo, il poney e i cani in cambio di Vesta. Egli mi sghignazzò in faccia e rifiutò. Mi disse che un tempo egli era stato un servitore, uno di quei disgraziati che gli uomini come me e le donne come Vesta calpestavano sotto i piedi, e che ora le sorti erano mutate, ed egli possedeva la più bella donna del mondo, che gli preparava il cibo e allevava i bambini.
— Hai avuto il tuo momento, mio caro, – diss’egli: – ora tocca a me! Il passato è passato ed io non ho alcun desiderio di ritornare indietro.
Così mi parlò; ma con altre frasi, perchè era uomo estremamente volgare e non poteva aprir bocca senza vomitare le più orribili bestemmie. Aggiunse poi che se mi avesse sorpreso a far la ruota attorno alla sua donna, mi avrebbe torto il collo, ed avrebbe picchiato lei fino a farla morire. Che dovevo fare? Egli era il più forte, ed io ne avevo paura.
La prima sera della scoperta dell’accampamento degli chauffeurs io e Vesta avevamo avuto una lunga conversazione intorno alle cose care che erano scomparse con la distruzione del mondo. Parlammo di libri e di poesia. Lo chauffeur ci ascoltava facendo delle smorfie e ghignando. I nostri discorsi l’annoiavano: egli s’irritava sentendoci parlare di cose che non capiva. e che non conosceva. Alla fine c’interruppe dicendo:
— Professore Smith, ti presento Vesta Van Warden, che una volta era la moglie di Van Warden il Magnate. Questa bellezza superba e maestosa, che è diventata la mia amante, adesso, in tua presenza, mi leverà i mocassini. Su, svelta, fa’ vedere al professor Smith come ti ho bene addomesticata!
La disgraziata strinse le mascelle, mentre una fiamma di collera le imporporava il bel volto.
Lo chauffeur chiuse il pugno nodoso e allungò il braccio pronto a colpire. Io ebbi paura e mi allontanai per non essere testimonio di una simile infamia. Ma il bruto diede in uno scroscio di risa e minacciò anche me di una lezione in regola, se non fossi rimasto ad ammirare la scena. Fui così costretto a sedere di nuovo, presso il fuoco dell’accampamento, e vidi Vesta Warden inginocchiarsi dinanzi a quella belva in sembianza umana dal pelo irsuto, e togliergli, l’uno dopo l’altro, i due mocassini.
No, no, non potete comprendere ciò, voi che vivete in selvatichezza, e non avete conosciuto il passato…
Lo chauffeur sembrava covarla con gli occhi, mentr’ella eseguiva quel compito ripugnante.
— È avvezza alla briglia e alla cavezza, caro Smith, – diss’egli. – Un po’ testarda, a volte; ma un buon cazzotto o qualche schiaffo sul grugno la rendono subito docile e sottomessa come un agnellino.
Un altro giorno lo chauffeur mi disse:
— Qui tutto è da rifare, professore. Tocca a noi moltiplicare la razza e popolare la terra. Tu non hai una donna ed io non sono disposto a cederti la mia. Qui non siamo nel Paradiso Terrestre. Ma voglio aiutarti. Ascoltami bene.
M’indicò col dito la sua ultima bambina di un anno, e aggiunse
— È una femmina, e te la do per moglie. Soltanto, bisognerà che tu aspetti che ella sia grandicella. Ottima idea, nevvero? Qui siamo tutti eguali e, se ci fosse una gerarchia, sarei io ad avere il diritto d’essere il capo di tutti. Ma non sono poi intrattabile! Dunque, ti faccio l’onore di concederti la mano di mia figlia, che è anche la figlia di Vesta Van Warden… Che peccato che Van Warden non sia qui in qualche angolo, a far da testimone!

CAPITOLO VII.

Rimasi circa un mese nell’accampamento dello chauffeur, con l’animo angosciato, fino al giorno, cioè, ch’egli decise di sbarazzarsi di me, irritato senza dubbio dalla cattiva influenza che, a suo parere, esercitavo su Vesta. A questo scopo, mi narrò, con aria distratta, che l’anno prima, errando per le colline di Contra Costa, aveva scorto del fumo. Il che significava che da quella parte esistevano degli esseri umani. Ed egli mi aveva tenuto nascosta per un mese intero una notizia così preziosa!
Mi misi subito in cammino con due cani e con i cavalli attraverso le colline della Contra Costa, verso Carquinez. Dalla vetta delle colline non scorsi alcun segno di fumo; ma a Porto Costa scoprii un piccolo battello ammarato sulla riva. M’imbarcai coi miei animali: un vecchio pezzo di tela che vi trovai mi servì da vela, e un venticello del sud mi spinse fino alle rovine di Vallego.
Là, nei sobborghi della città, trovai le tracce inconfondibili di un accampamento abbandonato di recente. Numerose conchiglie mi rivelarono che coloro che le avevano abbandonate erano arrivate fino là. Si trattava, come seppi in seguito, della tribù di Santa Rosa, di cui seguii le tracce lungo l’antico sentiero che fiancheggiava la ferrovia attraverso le paludi salate che si stendevano fino alla valle di Sonoma. Scoprii l’accampamento di Santa Rosa nell’antica fornace di mattoni di Gleen Ellen. Erano diciotto persone. C’erano due vecchi: un ex-banchiere chiamato Jones e un certo Hawisson, usuraio disoccupato, il quale aveva preso per moglie l’ex-intendente dell’Ospizio dei pazzi di Napa dove l’aveva incontrata. Questa donna era la sola superstite di tutti gli abitanti della città di Napa e suoi dintorni. Poi, c’erano tre giovani: Cardiff e Hole, due antichi fittavoli, e Wainwright, un tempo operaio. Errando qua e là, avevano trovato una donna ciascuno. Hole, un rozzo uomo, illetterato, aveva incontrato Miss Isadora, che, come Vesta Warden, era la più bella donna della California. Era una cantante meravigliosa, celebre in tutto il mondo, che, allo scoppio della peste si trovava a San Francisco in tournée. Mi raccontò, per ore e ore, tutte le avventure capitatele fino al momento in cui incontrato Hole questi l’aveva presa con sè e, senza dubbio, salvata dalla morte portandola nella foresta di Mendocino. Divenne, e non aveva di meglio da fare, la moglie di quell’uomo, che, pur essendo ignorante, sotto la rude scorza celava un cuore buono e generoso. Così che ella fu molto più felice e fortunata con lui, che non Vesta con lo chauffeur. Le mogli di Cardiff e di Wainwright erano figlie del popolo, solide e ben piantate, avvezze a tutti i lavori manuali: proprio quello che ci voleva per la nuova vita che avrebbero dovuto vivere. Per finire il conto, a tutte queste persone si debbono aggiungere due idioti scappati dall’ospedale di Napa, sei bambini nati dopo la formazione della colonia, e finalmente Bertha.
Bertha era una brava, un’eccellente donna, checchè ne dicesse tuo padre, «Muso di lepre», il quale non faceva che lanciarle dei sarcasmi.
La presi io in moglie, e ne fui soddisfatto. Ella divenne la vostra nonna, «Muso di lepre» e Edwin, ed anche la tua, Hou-Hou; tua nonna materna, «Muso di lepre», poichè tuo padre era il figlio primogenito di Vesta Van Warden e dello chauffeur sposò Vera, la nostra figlia primogenita.
Divenni dunque, il diciannovesimo membro della tribù di Santa Rosa. Ma dopo di me, essa aumentò di altri due membri. Il primo fu Mongerson, un discendente di Magnati, del quale già vi ho parlato.
Dopo essere fuggito in aeroplano, egli errò per otto anni fra le solitudini della Columbia prima di raggiungere noi verso il sud. Aspettò altri dodici anni prima che Maria, la mia dodicesima figlia, fosse giunta all’età da marito, e se la sposò.
Il secondo era Johnson, che fondò la tribù d’Utah. Arrivò dalla provincia di Utah, un paese molto lontano di qui, di là dal Grande deserto, verso l’Est. Solo ventisette anni dopo la peste, egli giunse alla California.
In tutti i paesi d’Utah egli disse d’aver incontrato soltanto tre superstiti e tutti e tre di sesso maschile. Per molti anni, questi tre uomini cacciarono e vissero insieme, finchè, stanchi di quella terribile solitudine e desiderosi di procreare perchè la razza umana non scomparisse dalla terra, si misero in cammino verso l’Ovest, sperando di trovare qualche donna, in California. Solo Johnson uscì salvo dal Gran Deserto : gli altri due vi perirono. Aveva quarantasei anni quando si unì con noi, e sposò la terza figlia di Hole e Isadora: suo figlio primogenito si unì con tua zia, «Muso di lepre», terza figlia dello chauffeur e di Vesta Van Warden. Johnson era un uomo pieno di energia e d’iniziative. Si separò dalla tribù di Santa Rosa per far da solo e formare a San Josè una nuova tribù chiamata la tribù d’Utah. Essa è ancora una piccola tribù formata da soli sette membri. Johnson è morto, ora, ma i discendenti ne hanno ereditato l’intelligenza e l’energia. Non dubito punto che essi e i loro figli avranno una parte importante nel compito di rincivilire l’universo. Non conosco, oltre questa tribù, che altri due aggruppamenti di esseri umani: la tribù de los Angelitos e quella dei Carmelitos, fondata, quest’ultima, da un uomo chiamato Lopez, discendente degli antichi messicani molto scuri di pelle, e d’una donna, un tempo, domestica nel Grand Hôtel del Monte. C’incontrammo soltanto sette anni dopo, quando, cioè, vennero in esplorazione da queste parti. Abitavano molto più a sud, in una regione dove faceva molto caldo. Non credo, ragazzi miei, che esistano in questo momento sulla terra più di tre o quattrocento abitanti. Dopo che Johnson ebbe attraversato il Gran Deserto, venendo da Utah, nessun segno di vita, nessuna notizia ci è mai pervenuta, nè dall’Est, nè da altri luoghi. Il mondo meraviglioso e possente che ho conosciuto, al tempo della mia giovinezza, è sparito, annientato.
Io sono ora il solo superstite della peste scarlatta; il solo che conosca le meraviglie del lontano passato. L’uomo che fu già padrone del pianeta, padrone della terra, del mare e del cielo, l’uomo che fu un dio vero e proprio, è ritornato al primitivo stato selvaggio e conduce la propria vita lungo i corsi d’acqua. Ma egli si moltiplica rapidamente: tua sorella, «Muso di lepre», ha già quattro bambini.
Noi prepariamo la strada a un’altra corsa verso la civiltà, strada ancora lontana, molto lontana ma sicura. Fra un centinaio di generazioni, i nostri discendenti, divenuti troppo numerosi per questo paese, attraverseranno le Sierre, e, di generazione in generazione, si espanderanno nuovamente verso l’Est, nel grande continente americano. Molto tempo ci vorrà, per questo. Noi siamo ridiscesi in basso, terribilmente in basso. Ci fosse almeno un solo uomo di scienza, un chimico o un fisico superstite! Quale aiuto prezioso ci darebbe! Ma questo non doveva essere, e della scienza abbiamo tutto dimenticato. Lo chauffeur s’era rimesso a lavorare il ferro: fu lui a costruire la fucina che utilizziamo oggi.
Disgraziatamente, egli era un pigro, e non seppe far altro, e quando morì portò con sè ogni sua nozione in materia di meccanica e dell’arte di lavorare i metalli. Io non m’intendevo di queste cose; ero un letterato, anzi un umanista. E gli altri superstiti erano privi di qualsiasi istruzione. Lo chauffeur sapeva fare anche due cose importanti, che apprendemmo poi da lui: la fabbricazione, per mezzo della fermentazione, dell’alcool e delle bevande forti, e la coltivazione del tabacco. Ne approfittò per ubriacarsi, e in un accesso di ebbrezza alcoolica uccise Vesta Van Warden. Di questo sono fermamente persuaso, sebbene egli abbia sempre sostenuto ch’ella si sia annegata cadendo nel lago Temescal. Ed ora, miei cari ragazzi, lasciate ch’io vi dia qualche buon consiglio, dal quale trarrete grande profitto nella vita.
Diffidate sempre dei ciarlatani e degli stregoni che si dicono medici. Prima di tutto, sono persone pericolose che avviliscono e disonorano, nel nostro piccolo mondo, quella che un tempo fu la più nobile delle professioni. M’accorgo che la superstizione nei loro riguardi fa ogni giorno nuovi progressi, e andrà ogni giorno peggiorando, tanto l’uomo è sceso in basso.
Questi presunti dottori sono, ve l’assicuro io, dei ladri matricolati, dei miscredenti scappati dall’inferno, e hanno un unico scopo: quello di attirarvi nelle loro imprese e rubarvi quanto possedete.
Guardate, per esempio, quel giovane conosciuto fra noi col nome di Loucheur. Vende a tutti incanti e sortilegi contro le malattie, e non ritorna mai scornato dalle sue imprese. Promette il bel tempo, in cambio di carne e di pellicce. A coloro che si permettono di contraddirlo e di schierarsi apertamente contro di lui, egli manda ciò che chiama «il bastone della morte». Io, il professore Smith d’un tempo, James Howard Smith, affermo ch’egli si vanta e mente spudoratamente. Glielo ho detto in faccia. Perchè non mi ha lanciato il «bastone della morte»?
Perchè sa che su di me le sue ciurmerie non hanno presa. Ma tu, «Muso di lepre», sei talmente preso da questa superstizione che, se stanotte, svegliandoti, ti trovassi vicino il «bastone della morte», ne morresti, senza dubbio. E morresti, non perchè quel bastone abbia un potere qualsiasi, ma perchè sei un piccolo selvaggio di natura credulona. Bisogna distruggere questi seminatori di superstizione e ritrovare quelle invenzioni utili che abbiamo perdute. Per questo, e per aiutarvi nel vostro lavoro, voglio dirvi certe cose che poi ripeterete ai vostri figli. Dovete ripetere loro che l’acqua riscaldata dal fuoco si trasforma in una sostanza meravigliosa che si chiama vapore, che questo vapore è più forte e possente che diecimila uomini messi insieme e che, adoperato con maestria e bene utilizzato, può produrre qualunque lavoro e soddisfare a tutti i bisogni dell’uomo.
Ci sono altre cose utilissime a sapersi. L’elettricità che produce nel cielo i lampi è anch’essa utilissima all’uomo. È già stata adoperata, e lo sarà di nuovo, un giorno. L’alfabeto è un’invenzione tutta diversa,ma non meno preziosa. La sua conoscenza permette di leggere i libri e di capire il senso di una quantità di piccoli segni; voi, miei piccoli selvaggi, non conoscete che la scrittura grossolana delle immagini figurate che rappresentano i diversi oggetti.
Nella grotta della collina del Telegrafo, in questa roccia alta e dirupata che è molto asciutta e che voi conoscete bene, verso la quale, come vedete, mi dirigo spesso, ho riunito molti dei libri che ho trovati e che contengono un riassunto della sapienza umana. Vi ho portato anche un alfabeto, con le chiavi esplicative, che permettono di leggere e di comprendere i suoi rapporti con la scrittura delle immagini. Verrà giorno in cui gli uomini, meno assillati dalle necessità della vita materiale, impareranno nuovamente a leggere. Allora, se la mia grotta non sarà stata distrutta, e se quanto vi ho nascosto perverrà in buono stato, si saprà che il professore Smith, vissuto un tempo, ha posto in salvo per gli uomini le leggi spirituali degli antichi. Quello che l’uomo di domani non mancherà di trovare, ne sono sicuro, sarà la formula per la fabbricazione della polvere da fucile, quella polvere nerastra che un tempo ci permetteva di uccidere a distanza. Certe materie che troviamo nascoste nel suolo preparate in proporzioni e maniere adeguate ci danno appunto la polvere da fucile. Ciò è spiegato nei miei libri… Ma sono troppo vecchio e, del resto, anche volendo, non avrei gli arnesi necessari per la fabbricazione di questa polvere. Come mi addolora ciò! Il primo colpo di fucile sarebbe per Loucheur, per sbarazzare la terra da questo ciarlatano che fa rinascere di già la superstizione, e comincia a corrompere, così, l’umanità che rinasce.
Hou-Hou protestò:
— Loucheur è un gran sapiente. Quando sarò uomo, andrò a trovarlo gli regalerò tutte le mie capre, tutta la carne che vorrà, tutte le pelliccie che potrò procurarmi, perchè mi riveli i suoi segreti e m’insegni a diventare dottore come lui. Tutto il mondo s’inginocchierà ai miei piedi!
Il vecchio scosse gravemente la testa e mormorò:
— È doloroso udire esprimere le stesse idee astruse e caparbie dei primi uomini dalle labbra di un piccolo selvaggio sudicio e ricoperto di pelli di capra. L’universo è stato annientato, sconvolto, ma l’uomo è rimasto lo stesso…
«Muso di lepre» intervenne nella discussione e cominciò a rimproverare aspramente Hou-Hou:
— Tu non me la darai a intendere, caro mio. Se io ti pagherò un giorno per mandare a qualcuno il «bastone della morte», ed esso non funzionerà, ti spaccherò il cranio!
— Io, – disse Edwin lentamente, – non voglio dimenticare ciò che il nonno ha detto della polvere da fucile. Quando avrò trovato il mezzo per fabbricarla, sarò io a far camminare tutti a dovere. Tu «Muso di lepre», caccerai per me e mi porterai la carne. E tu, Hou-Hou, quando sarai dottore, manderai il «bastone della morte» a chi vorrò io, e tutti mi temeranno. Se «Muso di lepre» vorrà spaccar il cranio, come dice, l’avrà prima da fare con me ammazzerò io, lui con una fucilata. Il nonno non è così sciocco come credete, ed io aproffitterò delle sue lezioni e vi dominerò tutti.
L’avo scosse la testa con tristezza
— La stessa istoria, – diss’egli, come a sè stesso, – ricomincia. Gli uomini si moltiplicheranno di nuovo, e nuovamente lotteranno fra di loro. Nessuno potrà impedirlo! Quando avranno ritrovata la polvere, si uccideranno a migliaia, a milioni! E la nuova civiltà si formerà col fuoco e nel sangue! Può darsi che ci vogliano quarantamila, cinquantamila anni, prima ch’essa sia completamente formata.
Le tre classi dominatrici, dei soldati, dei preti e dei re ricompariranno sulla terra. La saggezza del passato, che sarà la stessa del futuro, è uscita dalla bocca di questi monelli! La folla soffrirà e lavorerà come nel futuro. E sopra cumuli di povere carcasse sanguinanti, crescerà la bellezza meravigliosa della nuova civiltà. Quand’anche distruggessi tutti i libri che ho nascosti nella grotta, il risultato sarebbe lo stesso. La storia del mondo riprenderà fatalmente il suo corso eterno.
«Muso di lepre» si alzò: guardò il sole che tramontava all’orizzonte, gettò un’occhiata alle capre che continuavano a brucare tranquillamente, e disse:
— Il vecchio ci farà addormentare qui, con questo suo brontolìo. È ora di ritornare all’accampamento.
Aiutato da Hou-Hou e dai cani, «Muso di lepre» riunì le capre e le spinse sul sentiero che costeggiava la ferrovia, verso la immensa foresta, dove scomparvero. Edwin, con la coda di maiale nell’orecchio, rimase solo col vecchio che continuava a rimuginare da solo. Osservò una piccola mandria di cavalli selvaggi che era arrivata fino sulla sabbia del greto, a pascolare. Erano una ventina circa, la maggior parte giovani poledri d’un anno; alcune giumente bellissime seguivano uno stallone. La bestia meravigliosa e superba guardava il mare, mentre la schiuma della risacca gli lambiva gli zoccoli. Aveva il collo eretto, la testa alta, e negli occhi scintillanti ardevano lampi selvaggi e dalle narici frementi esso aspirava l’aria pregna di salsedine.
— Che cosa guardi? – domandò finalmente il vecchio, come risvegliato da un sogno.
— Ci sono dei cavalli, – rispose Edwin. – È la prima volta, che ne vedo quaggiù. I leoni della montagna, che divengono di giorno in giorno più numerosi, li cacciano verso il mare.
Il sole declinava lentamente. Nel cielo, dove grosse nubi cominciavano a formarsi, il suo disco infiammato dardeggiava spandendo un ventaglio di raggi rossi luminosissimi. Oltre le dune, sulla riva squallida e desolata, le onde si adagiavano lambendo la spiaggia, e i leoni marini si spingevano tra le nere scogliere, con ruggiti di battaglia e d’amore, ch’erano i vecchi canti delle prime età del mondo!
— Vieni, nonno, – disse Edwin, tirando il vecchio per un braccio.
E quelle due figure irsute, a malapena ricoperte di pelli, volsero le spalle alla riva, dirigendosi verso la foresta dove poco prima erano entrate le capre, e scomparvero.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: La peste scarlatta
AUTORE: London, Jack
TRADUTTORE: Carter, Dienne e Dàuli, Gian

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: La peste scarlatta : romanzo / Jack London ; traduzione dall’inglese di Dienne Carter e Gian Dauli. Milano : Modernissima, 1928. 187 p. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FIC028000 FICTION / Fantascienza / Generale
FIC040000 FICTION / Storia Alternativa