Nel 1635 il Consiglio dei Sessanta decurioni, organismo preposto al governo di Milano, sceglie Giuseppe Ripamonti, già celebre per la sua storia della Chiesa meneghina (Historiarum Ecclesiae Mediolanensis libri), per redigere quella della città dal 1313 alla morte di Federico Borromeo. Lo storico quindi inizia la stesura degli annali e nel 1641 pubblica Historiae patriae libri X e De peste Mediolani, il cui titolo completo, che figura sul frontespizio dell’edizione in italiano di due secoli dopo, è IOSEPHI RIPAMONTII CANONICI SCALENSIS CHRONISTAE URBIS MEDIOLANI DE PESTE QUAE FUIT ANNO 1630, LIBRI V: DESUMPTI EX ANNALIBUS URBIS QUOS LX DECURIONUM AUTORITATE SCRIBEBAT (nella traduzione di Cusani LA PESTE DI MILANO DEL 1630 LIBRI CINQUE CAVATI DAGLI ANNALI DELLA CITTÀ E SCRITTI PER ORDINE DEI LX DECURIONI DAL CANONICO DELLA SCALA GIUSEPPE RIPAMONTI ISTORIOGRAFO MILANESE).

Ripamonti scrive la sua opera in latino, la lingua della cultura internazionale dell’epoca, e solo nel 1841 viene pubblicata, a cura di Francesco Cusani, la prima traduzione in italiano. Cusani, nell’introduzione, dopo aver dettagliatamente narrato le vicende biografiche di Ripamonti, accenna alle difficoltà incontrate nel tradurre il latino dello storico, perché

“Il racconto è maestoso, energico, pittoresco; la lingua forbita, elegante, chè il Ripamonti conosceva e maneggiava il latino da maestro. Lo stile però si risente del falso gusto del tempo; quindi periodi intralciati, antitesi, arzigogoli, turgidezza di pensieri e d’immagini. I quali difetti rendono assai difficile ad intendersi, anche pei valenti latinisti, codesto libro.”

Segue la prefazione di Ripamonti, nella quale lo storico si scusa con i lettori per il tema della propria opera (e lo farà spesso anche all’interno di essa, quando si accinge ad evocare le scene più violente o scabrose), per proporre loro “codesta atroce e mesta storia simile a squallido deserto”. Si dichiara nel contempo convinto, però, dell’utilità di questa lettura, perché

“gli uomini onesti, stanchi delle frodi e delle tristizie che deturpano i nostri annali, vedranno in questo racconto il gastigo dei vizj”.

L’opera è strutturata in cinque libri, ognuno dei quali è dedicato ad un tema specifico: il primo alla situazione di Milano prima della peste; il secondo alla storia degli untori; il terzo al ruolo del cardinal Borromeo e degli uomini di Chiesa durante la peste; il quarto alla diffusione della peste; il quinto ad un confronto fra la peste di Milano e le epidemie precedenti.

L’opera ha raggiunto la celebrità grazie ad Alessandro Manzoni (non a caso la prima traduzione italiana è di quest’epoca), che l’ha utilizzata come una delle sue fonti più attendibili per la narrazione della peste in Fermo e Lucia e, in seguito, nei capitoli XXXI e XXXII de I promessi sposi, come esplicitamente dichiara in entrambi i romanzi. Nel primo riconosce allo storico il merito di essere stato l’unico a denunciare la corruzione, l’egoismo, l’inefficienza di magistrati e politici nel gestire l’emergenza. Ne I promessi sposi (capitolo XXXI) afferma che l’opera di Ripamonti, rispetto alle altre sullo stesso tema,

“le supera tutte, per la quantità e per la scelta de’ fatti, e ancor più per il modo d’osservarli”.

Autonomia di giudizio apprezzabile, che contraddistingue Ripamonti e si manifesta nelle critiche rivolte alle autorità laiche (inefficacia delle gride, intempestività degli interventi, errori nell’organizzazione dei lazzaretti…) e religiose (organizzazione di processioni e cerimonie di massa finalizzate ad invocare l’intervento divino per por fine alla peste, con l’unico esito di diffondere ulteriormente l’epidemia), ma anche al popolo, dai comportamenti spesso irrazionali ed autodistruttivi. Tali critiche risultano particolarmente evidenti nel capitolo sugli untori: nel caso di questi ultimi, Ripamonti non ne nega (e non potrebbe all’epoca negarne) l’esistenza, ma mettendo a confronto l’opinione di stimabili uomini di scienza con quella della massa (e delle autorità che li condannavano al rogo estorcendone con la tortura confessioni dall’improbabile attendibilità), lascia che sia il lettore stesso a trarre le conclusioni.

Una lettura a tratti un po’ noiosa (appesantita dalle note del non meno prolisso traduttore), ma comunque molto proficua per conoscere “dal vivo” (anche se durante la peste Ripamonti era in realtà al sicuro nella splendida Villa Borromeo di Senago), dalla scrittura di un dotto e ribelle storico dell’epoca, la vita di Milano ai tempi della peste. Un ulteriore incentivo per i lettori di oggi: i sorprendenti parallelismi, a distanza di quasi quattro secoli, con l’Italia della pandemia.

Sinossi a cura di Mariella Laurenti

NOTA: Il testo è presente in formato immagine su “The Internet Archive” (https://www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (https://www.gutenberg.org/) tramite Distributed Proofreaders (https://www.pgdp.net/).

Dall’incipit del libro:

Scrittori sì nazionali che stranieri narrarono l’origine ed i primordj della città di Milano, e quanto in essa accadde poscia di memorabile per vizi e virtù cittadine, e pel volgere delle umane sorti. Noi pure imprendemmo, non ha molto, a trattare questa storia, esponendo in trenta libri molti avvenimenti degni di ricordanza. E in vero, dopo l’epoca romana, e quel Senato che governava il mondo, non fuvvi, a mio credere, repubblica o popolo alcuno che più del milanese offrisse esempj di beni e di mali, e un più continuo avvicendarsi di paci, di guerre e di studj civili. A Milano fiorirono, più che altrove, codesti studj, e gli scrittori qui volsero l’ingegno alla istruzione degli uomini. Tutte le quali cose io credo averle esposte nella citata mia storia.
Ma ora che m’accingo a narrare le orrende stragi della peste, la città stremata dalle morti, e i diritti più sacri di natura violati, m’è d’uopo impetrare indulgenza dai lettori, i quali, nella loro politica gravità, forse spregeranno me ed il mio racconto al leggere codesta atroce e mesta storia simile a squallido deserto. Però non fia inutile rivolgervi la mente: gli uomini onesti, stanchi delle frodi e delle tristizie che deturpano i nostri annali, vedranno in questo racconto il gastigo dei vizj, e stimeranno adequatamente cose che loro danno sì gran pensiero, qualora vedano tante migliaja di uomini essere periti pel loro alito avvelenato, tante famiglie rimaste senza eredi; la metropoli fatta deserta, e insultata la gloria e la rinomanza del nome.

Scarica gratis: La peste di Milano del 1630 di Giuseppe Ripamonti.