La mia amica
di
Grazia Deledda
tempo di lettura: 8 minuti
La mia prima e sola amica si chiamava Biancofiore: ed è stata la prima e sola persona al mondo che io abbia cordialmente invidiato. Il padre era medico, ma anche studioso di lettere: di qui forse il nome della sua unica figlia. La madre, una nobile decaduta, ma autentica, di antica origine spagnuola, non usciva mai di casa, bianca, fredda e taciturna più di una monaca di clausura. E anche lei, Biancofiore, cresceva col suo nome, come crescono i fiori col loro e non si può immaginarli con un altro: la rosa è la rosa, la giunchiglia è la giunchiglia. Biancofiore aveva il pallore diafano della gardenia, incoronato dal nero corvino dei capelli lisci e iridati; e anche gli occhi erano scuri, ma di quel bruno meridionale, lampeggiante di sole, con le sopracciglia che restano nere anche nella più tarda vecchiaia.
La casa del dottore era nuova e bella, con tende di merletto alle finestre, lo studio di lui con grandi vetrate, e intorno un giardino piccolo, ma colorato di fiori rari. Piante di gelsomino rivestivano il muro di cinta; una ghiaia fina e preziosa come polvere d’oro perché fatta venire da una spiaggia lontana ricopriva i viali; un albero esotico, nientemeno che di pepe, ombreggiava con le sue frangie di seta una panchina di marmo bardiglio che sembrava di torrone. Una gabbia rotonda e dorata con due canarini pendeva come una lampada nel salotto da pranzo. Tutto per me era straordinario, in quella casa: perché la nostra era vecchia e nuda, la famiglia numerosa e grezza, l’orto pieno di cavoli e di ortiche; un tronco abbattuto per sederci, nel cortile terroso e tumultuoso di galline; l’antico focolare omerico in mezzo alla cucina; e per ricevere le visite, per lo più dei canonici della cattedrale e delle loro candide sorelle, la camera da letto degli ospiti, quando questi non c’erano.
Avevamo anche noi, appesa in cucina, una grande gabbia che pareva una stia, con dentro una vecchia ghiandaia grigia, spelacchiata e insolente. È vero che conosceva uno per uno tutti gli abitanti della casa, ed anche i vicini, e li chiamava a nome, con una strana voce che pareva venisse da un mondo lontano, dal mondo favoloso ove anche gli animali parlano e sono intelligenti e filosofi più che certi uomini del nostro: questi uomini le avevano tagliato la punta delle ali, facendole perdere l’azzurro che ricordava le alture boschive dove era nata: in cambio essa pareva beffarsi di loro, e specialmente della padroncina che si vergognava della vivace prigioniera pensando ai gentili stupidi canarini della sua amica.
Amicizia nata dalla vicinanza sul banco di scuola della seconda classe elementare, e via via rinforzatasi appunto dall’attrazione dei contrasti. Biancofiore, bella, ben vestita, sempre accompagnata da una domestica già anziana che scimmiottava la frigida austerità della nobile padrona, non aveva, nonostante l’esempio e la biblioteca del padre, che una gracilissima intelligenza: io la stordivo con le mie invenzioni, con l’essere la prima della scuola, con la beffa benevola ma condita d’invidia, che per vendicarmi indirettamente di lei mi prendevo delle cose e delle persone che la riguardavano. Del resto questo istinto, fatto, più che d’ironia, di umorismo, era comune in tutta la nostra razza pastorale, povera ma orgogliosa, selvatica ma intelligente: è il sale che condisce il pane degli umili. E, così, io andavo nella casa e nel chiuso giardino di Biancofiore come in un piccolo paradiso che non avrei mai posseduto; e i tulipani, le azalee, le rose bianche, l’albero del pepe, la gabbia d’oro con le fiammelle dei canarini, le vetrate che riflettevano con fantasie lacustri il cielo e le siepi di gelsomini; il vestito rosa della mia amica, le sue collanine di corallo, mi lasciavano, dopo queste visite, il gusto amarognolo delle feste godute in casa altrui. L’orto coi cavoli, il tronco per sedile, il focolare fumoso, tutto mi umiliava e mi irritava, e soprattutto la ghiandaia sempre vigile e curiosa che mi chiamava con la prima sillaba del mio nome, e pareva indovinasse e deridesse i miei sentimenti.
Poi vi fu la tragedia dei cani. Il padre di Biancofiore, dopo che alcuni ladruncoli avevano tentato di scalare il muro del giardino, si procurò un grande bellissimo cane lupo, sempre agitato come un’onda in tempesta: alla notte i suoi occhi si vedevano di lontano: legato davanti al cancello del giardino, riempiva il luogo tranquillo di veri ruggiti, e la gente andava a vederlo appunto come un leone in gabbia. Allora mi vergognai anche del nostro mite, del nostro nero Maometto: un cagnolino bastardo, la cui ragione di esistere nessuno l’aveva mai capita: era vecchio e umile, amico di tutti, anche dei ladri: infatti, una volta che ci erano state rubate le galline, non ne aveva dato il menomo avviso: non solo, ma persino i gatti gli destavano paura. Nel vicinato tutti si ridevano di lui: dicevano che gli avevamo messo la dentiera: la stessa ghiandaia lo sbeffeggiava. Inoltre cominciarono ad arrivare certe poesie anonime, composte proprio contro di lui, ed erano veri libelli, dove la povera bestia veniva insultata, calunniata, derisa, minacciata di essere accalappiata e ridotta in salsicce. Era, certo, uno scherzo di cattivo gusto, e Maometto forse leccava la mano al suo codardo poeta: ma io ne provavo rabbia e umiliazione e, d’accordo con le sorelle, si decise di compiere un delitto. Complice, suggestionata da me, fu Biancofiore: dalla vetrina dei medicinali del padre riuscì a sottrarre una polverina velenosa. Maometto la prese, mischiata a una polpetta: la prese proprio dalle mie mani, scodinzolando con gioia, guardandomi coi suoi occhi umani che non ho mai dimenticato; poi cominciò a tremare, corse a nascondersi nel suo covaccio, morì da stoico, senza un solo lamento. Allora io e le sorelle ci si mise a piangere: e mai lagrime di coccodrillo furono più sincere.
Eppure la sorte di Biancofiore e della sua amica fu molto diversa: ella rimase nella sua bella casa, coi suoi canarini, i tulipani, i gelsomini, la serva fedele, mentre io salivo la scala della vita, con tutti i suoi diversi gradini, a volte di marmo lucente, a volte di pietra aspra e corrosa. Non mi mancarono l’amore, la maternità, l’agiatezza, la fama, le vanità mondane; ma neppure il dolore, la malattia, il disinganno. In certe ore, quando appunto la scala disuguale della vita pare mancante di qualche gradino precipitato non si sa come, e nel vano si scorge un vuoto minaccioso come quello di un trabocchetto, io mi siedo sullo scalino ancora fermo, con le spalle al pericolo, e guardo la strada già fatta, pensando se non sarebbe stato meglio non farla. Allora ricordo la casa nuda e primitiva, lo spigolo di una parete bianca dove erano rimaste le tacche impresse da me negli anni giovanili, come le linee di un termometro che segnava la febbre dei miei sogni; il tronco per sedile, l’uccello che parlava, Biancofiore nel suo giardino di tulipani e gelsomini.
Biancofiore non si era mai mossa dal suo sfondo, come non si muove una figura, per quanto bella e viva, dal quadro ov’è dipinta: aveva la mia stessa età, ma dimostrava sempre quindici anni; e adesso era sola, con la vecchia serva fedele che pareva anch’essa una figura del quadro, destinata a viverci sempre. Gente del paese portava, qualche volta, loro notizie: notizie sempre eguali, ma sempre buone. Non si sapeva se Biancofiore avesse mai avuto una passione, un dolore, una malattia. Come i popoli felici, non aveva storia. Non scriveva mai, non mandava neppure un saluto: forse si era anche dimenticata del passato, dell’amica, come ci si dimentica di un oggetto perduto che non si spera più di ritrovare. Lo scalino della sua vita era la panchina di marmo, che non saliva, ma neppure scendeva, e soprattutto non presentava pericoli se non quelli di un improvviso ma subito riparabile acquazzone. Le sue mani sempre giovani, con le dita che come i ceri non accesi non si consumano mai, lavoravano solo qualche maglietta per i bambini poveri; sebbene i bambini poveri non dovessero goderne molto calore, perché lei non ci metteva molto del suo.
Con tutto questo la sua antica amica riprendeva a invidiarla, più che se Biancofiore avesse trascorso una vita di movimento, di lusso, di passioni soddisfatte, di ambizioni raggiunte. Dall’alto del suo scalino, l’amica salita in alto vedeva il panorama del suo passato come sotto la luce ineffabilmente triste di un luminoso tramonto di maggio; le rose del mattino sfogliate, la sera che si avvicinava, senza più il mistero dei sogni, anzi col sorriso duro delle realtà di un altro giorno passato invano.
E allora, tra vanità e vanità, col vuoto alle spalle e davanti la visione delle cose perdute, meglio la vita immobile di Biancofiore. Ella almeno non rimpiange nulla; come un bambino morto nei suoi primi anni rimane anche lei sempre bambina, innocente e pura; i suoi sogni sono intatti, gli uomini per lei sono sempre buoni, i fiori e le stelle sempre fiori e stelle.
Ma una volta arrivò a Roma, in pellegrinaggio, la sua serva vecchissima: pareva venisse dai tempi e dai paesi fondati da JolaoNota 1: anche la sua voce era lontana, di un mondo mitico, come quella della ghiandaia. E con quella voce disse:
— La mia padrona è morta, ai primi di maggio. Non aveva nulla: è morta così, come di languore. E adesso lo posso dire, in confidenza: durante tutta la sua vita non ha fatto altro che invidiare, la sua prima e sola amica.
Fine.
nota 1 – Uno dei primi colonizzatori della Sardegna.
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TITOLO: La mia amica
AUTORE: Grazia Deleddda
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)