La Maga.

di
Egisto Roggero

tempo di lettura: 7 minuti


Il mio amico, poi ch’ebbe finito di parlare della fantastica creatura, mi disse:
— Cercherò di fare in modo che tu possa penetrare fino a lei, ma non creder troppo facil la cosa. – E mi spiegò come anzi ella sdegnasse e fosse ostile al contatto profano della folla. I pochi eletti ch’eran giunti a calcare i soffici tappeti della maga, ricevevan la consegna di non turbare il silenzio e il mistero che circondava la strana creatura e del quale ella parea alimentarsi, come certi strani fiori bizzarri vivono delle grigie ombre delle serre chiuse al sole e all’aria brutale della vita.
E un giorno, finalmente – qualche tempo dopo – il mio amico venne a me, e mi disse: – Vieni pure, è fatto, posso condurti.
Lo seguii.
Mi condusse fuori della città, in un quartiere molto fuori di mano – metà campagna – lungo un breve viale popolato di villini e di casine, la maggior parte chiuse e disabitate, tutte quetissime e silenziose. Lassù i rumori della grande città giungevano attenuati e indecisi, come l’eco di un mondo molto lontano.
Giunti davanti al cancello verde di una piccola villa, i cui muri bianchi eran quasi sepolti sotto una fitta siepe di edera e di altri rampicanti senza fiori, mi lasciò invitandomi a premere il piccolo bottone di bronzo che mi mostrò nascosto sotto un tralcio di edera.
E l’amico si allontanò.
Premetti il misterioso bottone.
Una lontana campanella echeggiò con istrano suono nel silenzio dominante all’intorno.
Passarono cinque lunghi eterni minuti poi il cancello si aperse. Entrai. Non scorsi alcuno. Il cancello, silenziosamente, si rinchiuse da sè, dietro le mie spalle. Davanti a me si allungava un breve viale deserto: intorno era una fitta siepe di carpini e mortelle. In fondo era la casina bianca. Non una voce, un suono qualsiasi di vita. Inoltrai. Quando fui davanti alla lucida porta di noce della casina l’uscio si aprì e un servo negro, vestito di una grigia livrea, mi fe’ cenno di entrare e fe’ ala al mio passaggio, in silenzio. Appena entrato nel vestibolo, che una dolcissima ombra rinfrescava, mi colpì le nari un indefinibile profumo di una essenza sottile, a me nuova. Il negro mi aprì un uscio e m’invitò ad entrare. Era un piccolo salottino pieno d’ombre; i miei occhi abituandosi alla poca luce riuscirono a vedere le pareti nude, d’un grigio tenero e quattro lunghi divani pur essi grigi, lungo le pareti, senza spalliera alcuna. L’indefinibile profumo anche qua vagolava nell’aria, nelle ombre, lieve, tepido, palpabile quasi.
Stetti ivi un bel pezzo, solo, nel più profondo silenzio: finchè una porta, davanti a me, si aprì, una tenda grigia si sollevò ed una donna apparve.
Era una donna alta, rigida, dalla pelle olivastra, dagli occhi obliqui – un’orientale, un’araba, una indiana, forse – d’un’altra razza lontana dalla nostra, certamente.
Essa aveva la rigidezza di una sfinge.
Mi guardò un momento, con gli strani obliqui occhi, poi mi disse:
— Vi prego, signore – e mi porse alcun che ch’io sulle prime non compresi che fosse.
Ma scorsi bentosto ch’erano due pantofole bianche, di seta.
Compresi.
Mi scalzai ed indossai le pantofole, leggerissime, impalpabili quasi. Quindi ella stessa mi gettò sulle spalle un piccolo manto che parea tessuto con fili di neve o con l’argentea tela di un ragno fantastico.
Quindi la strana creatura – un’ancella, certamente – mi disse:
— Venite, signore.
La sua voce era un poco rauca e l’accento era straniero, gutturale, molto bizzarro, come tutta la sua figura….
Mi aprì la porta, mi precedette; la seguii.
Mi fe’ attraversare parecchi lunghi corridoi sempre più oscuri, finchè mi aperse una porta; entrai.
Mi trovai dentro una stanza, nell’oscurità più profonda. L’essenza che mi aveva colpito al mio entrare, là dentro era intensissima.
— Sedete – ordinò la rauca voce della donna nel buio.
Mi lasciai cadere seduto e sentii sotto di me il soffice e morbidissimo tepore di un grande cuscino di seta.
Rimasi così nel buio più perfetto.
Il cuore mi batteva, per un inesplicabile turbamento, per qualcosa di vago ed indefinito che aveva pure una sottilissima misteriosa dolcezza. Poi, in quell’oscurità sì profonda, tutto immerso nel tepore della seta ove io ero sprofondato, tutto il corpo blandito da quel profumo indefinibile, come un vago torpore mi prese.
In quel mentre come una indecisa armonia risuonò intorno a me; sottile, vaga, inafferrabile in certi momenti, un poco più intensa in certi altri; lievi ondate di suoni vaghi come il vibrare di una arpa nascosta, un suono di campane lontane portato dal vento, il ronzare dell’aria in lunghe canne di vetro….
E una bianca luce incerta, vaga, dapprima si fece davanti a me: poi più viva, decisa, bianchissima.
E nella candida luce siderale mi apparve la Maga.
Una fanciulla, una bambina quasi: freschissima e bellissima, seduta davanti ad una breve cattedra, piena tutta di filtri e di fiori, ancor essa luminosa, come tutta l’aria a lei d’intorno.
Allora solo compresi che la musica veniva dalla lieve fiamma bianca che ardeva sotto un filtro.
Ella era tutta bianca. Sul viso candido, purissimo, di vergine, le labbra si aprivano porporine. Sotto la fronte nitida, gli occhi erano d’un verde smeraldino, tenuissimo. I capelli liberi e sciolti eran luminosi, come piccoli fili di luce.
Chi era?…. Ella certamente veniva da un paese lontano, da qualche misteriosa città nordica, regina della neve, poichè doveva essere certamente una fata del Nord una saga, una yaga siberiana….
La fantastica creatura volse sopra di me gli occhi di smeraldo. La sua bocca si aprì, le sue labbra si mossero. Sentii che parlava. Il suo linguaggio era strano, nuovo per me: mai aveva sentito tale favella bizzarra, tutta dolcezze e ombre, tutta note tenute e lunghe, di violoncello. Cionondimeno io comprendevo ciò ch’ella diceva. Essa mi chiedeva che cosa fossi venuto a cercare da lei. Io, senza aprir bocca, col pensiero, con tutta la mia intima essenza vitale, le dicevo la mia brama secreta, il lungo sottil tormento che da tanto tempo mi turbava.
Ella ascoltò serena.
Ella prese di su la cattedra luminosa, con le esili diafane mani di neve, un lieve mortaio di agata, ov’era un picciol pestello di onice e oro. Indi tolse dal fascio ch’era di su la cattedra dei fiori di elleboro – le cui corolle gittavan luce – una luce di viola, cilestrina, di astro fulgente – maraviglioso fiore che oscillò per un istante come vivido diamante fra le sue piccole mani, indi scomparve con gli altri fiori nel breve mortaio di agata. Ella agitò alquanto il picciol pestello di onice e oro su que’ fiori e parve infrangerli minutissimamente. Poi io la vidi arrestarsi un momento: sollevare i maravigliosi occhi smeraldini e scorsi sgorgare da essi due perle – due lagrime – due gemme d’una limpidezza e di un fulgore mai veduto. Le due maravigliose perle ondeggiarono alquanto sull’orlo della loro fonte: poi lievissimamente scorsero giù per le gote della Maga. E caddero nel picciolo mortaio di agata sopra i fiori infranti. E nel cadere io vidi le due perle dare come un palpito di luce, un guizzo repentino e sì intenso che i miei occhi ne restaron per un momento abbagliati.
Prese quindi la Maga il mortaio in ambo le mani e ne versò il purissimo umore che nel suo fondo scintillava, in una piccolissima fiala di cristallo cerchiellata di oro, e me lo porse….
La fiala mandava luce adamantina nelle mie mani si ch’io n’ero abbagliato. Quando alzai gli occhi la visione della Maga svaniva in una sottile penombra di nebulosa: finchè sparve del tutto come l’ombra di un sogno. La visione venuta a me dalle tenebre dell’invisibile ritornava, com’era venuta, alle tenebre dell’invisibile.
La nota voce della donna di prima mi fe’ strada nell’oscuro a seguirla. Rividi la saletta dei divani, ove lasciai le sottili spoglie di seta indossate, l’ombra mistica del corridoio, il servo negro che mi condusse alla porta. Ritornai alla vivida luce cruda del sole….

Fu sogno od illusione?
Non so.
Ma nel luogo più riposto di un mio forziere secretissimo io serbo preziosissima una piccola fiala – quasi invisibile – cerchiellata d’oro con dentro del diamante liquido che abbarbaglia la vista…. Quando il triste affanno della Vita turba la mia mente e il mio cuore, io traggo la fiala e ne aspiro la possente essenza… E ben tosto l’Oblìo si fa signore del mio cuore e della mia mente, e una Gioia superba e regale rialza la mia fronte abbattuta.

Fine.


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TITOLO: La Maga
AUTORE: Egisto Roggero

DIRITTI D'AUTORE: no

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TRATTO DA:I racconti meravigliosi / Egisto Roggero. - Milano : La poligrafica, 1901. - 257 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC000000 FICTION / Generale