Io sono Olexandra, ho 13 anni, sono stata ferita dal missile alla stazione di Kramatrosk.
Mio padre è stato ucciso in battaglia.
“Perché vai a combattere?”, gli ho chiesto quando è partito, “Non pensi a me?”
“È proprio per questo che vado a combattere…”, mi ha risposto.
Io sono Bogdan, 8 anni, e a Bakhmut sono rimasto da solo con i cadaveri dei miei genitori per un giorno e una notte, prima che venissero a soccorrermi.
Io mi chiamo Andriy, 10 anni, ho visto i miei bruciare vivi in macchina.
Sono Yurii, di Bucha, 16 anni. Un soldato russo ha ucciso mio padre e poi ha sparato anche a me, mancandomi di un paio di centimetri.
Io mi chiamo Mykyta e ho dieci anni, vengo da Kiev. Mi ricordo la polvere tra i denti, la puzza di gasolio, le urla, mio padre che scavava e gli sanguinavano le mani, la cucina in frantumi, mia madre sepolta dalle macerie. Ho paura di spegnere la luce, perché l’esplosione è arrivata due minuti dopo il buio.
Alcuni di noi vorrebbero una mitragliatrice per uccidere tutti i russi.
Qualcuno vorrebbe impiccarsi.
Qualcuno si sente in colpa per essere sopravvissuto.
Qui siamo tutti ragazzi tra i 6 e i 16 anni. Siamo 51. La direttrice della comunità di recupero, Oksana, ci fa dipingere, ci fa arrampicare sugli alberi, ci fa ascoltare Mozart mentre siamo seduti su una poltrona che vibra come la musica. A volte ci sediamo in cerchio e parliamo. Sono venuti a trovarci i calciatori dello Shakhtar Donestsk e la cantante Tina Karol.
Mi ricordo la voce della mamma, che mi chiamava: “Mykyta, vieni qui!”.
Ho dieci anni, e quando sarò grande non voglio diventare cattivo. Mamma mi ha insegnato a non avere paura degli errori, perché diceva che gli errori sono una nuova esperienza. Come quando sono caduto perché avevo le scarpe sciolte.
Ivano-Frankivsk, Ucraina, 2023
Fine.