Certamente chi leggesse il testo di questo discorso di Pascoli pensando al periodo bolognese del poeta, contrassegnato da idee anarco-socialiste che lo condussero alla galera, potrebbe rimanere disorientato. Lo fu persino Croce che, pubblicando nel 1907 le prime due strofe di un inno forse composto per l’Internazionale anarchica, volle dimostrare che Pascoli “adesso fa l’umanitario ma era un violento”. Ma l’ambiente storico nel quale maturò la decisione dell’Italia di muovere guerra all’impero ottomano al fine di occupare e conquistare la Tripolitania e la Cirenaica a cavallo tra il 1911 e il 1912 era ormai molto diverso da quello degli ultimi decenni dell’ottocento. Certamente avevano avuto il loro peso sia l’apertura del canale di Suez, che aveva radicalmente mutato l’importanza strategica del Mediterraneo, che la propensione colonialista di Francia e Inghilterra. Ma quello che rappresenta il fatto nuovo è che l’occupazione della Libia da parte dell’Italia rappresenta una sintesi quasi perfetta tra le aspirazioni della borghesia industriale del nord Italia – ansiosa di trovare nuovi sbocchi commerciali per la propria industria – e quelle del bracciantato agricolo meridionale, anelante soprattutto ad allentare la morsa di una spietata miseria che lo costringeva a dolorose emigrazioni, spesso foriere di umiliazione e ulteriore disagio.

Pascoli nel suo discorso interpreta a meraviglia la convergenza tra queste due anime, facendo ricorso, come si può facilmente immaginare, a tutta la sua indiscutibile capacità di suscitare commozione. La retorica ridondante stilla copiosa ad ogni riga. In questa propaganda nazionalista il Pascoli non fu certamente l’unico – tra quelli che forse non ci saremmo aspettati – a distinguersi. L’unico italiano, fino ad oggi, ad essere stato insignito del premio Nobel per la pace Ernesto Teodoro Moneta (vedi per le sue opere in questa stessa biblioteca Manuzio) non fu da meno nello spianare la strada all’aprirsi dell’epoca di Tripoli bel suol d’amore, senza forse sospettare che questa apertura avrebbe condotto presto anche a Faccetta nera bella abissina. Ma né Pascoli morto nel 1912 né Moneta poterono assistere a questi sviluppi dei tentativi coloniali italiani.

L’occupazione di Cirenaica e Tripolitania, sottratte a vecchi beduini e nomadi che non sapevano far rendere un territorio fertile che i nostri emigrati avrebbero invece infine valorizzato, in base all’etica che abbiamo sviluppato dopo oltre cento anni, non può che essere vista con una più che legittima condanna. Ma all’epoca il consenso fu quasi unanime, persino internazionalmente. Interessante per esempio la lettura del breve testo di Sommerfeld, presente in questa stessa biblioteca Manuzio, che propugna l’assoluta legittimità dell’intervento italiano in Libia agli occhi dell’osservatore tedesco. In Italia la punta di dissenso intellettuale più rilevante fu certamente quella catalizzata dallo storico socialista Gaetano Salvemini. Operativamente l’opposizione fu limitata alle frange più radicali dei giovani socialisti che facevano capo ad Amadeo Bordiga e tra i quali cominciava a prendere consistenza la figura di Benito Mussolini. La guerra italo-turca fu però certamente tra gli eventi che contribuirono al verificarsi di una situazione di poco successiva nei Balcani e che avrebbero posto le premesse per rendere possibile il primo conflitto mondiale.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

NOTA: testo presente in formato PDF sul sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, all’indirizzo: http://xdams.fondazionefeltrinelli.it/dm_0/FF/feltrinelliPubblicazioni/allegati//IEI0102432.4845.pdf

Dall’incipit del breve saggio:

La grande Proletaria si è mossa.
Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada.
Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava. Diceva: Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!
Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri, ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, e si linciavano.

Scarica gratis: La grande proletaria si è mossa… di Giovanni Pascoli.