La gita di piacere della famiglia Disgraziati.

di
Forese

tempo di lettura: 8 minuti


Il sor Timoteo Disgraziati era un uomo che non gliene andava una bene. Se si fosse messo a fare il fornaio è certo che i medici avrebbero proibito al genere umano di cibarsi di pane, perché dannoso all’anima ed al corpo, e il genere umano avrebbe ubbidito ciecamente. Ma il sor Timoteo non faceva il fornaio; faceva il baloccaio, mestiere fallito, ora che i bambini nascono uomini e fino dalle fasce hanno un profondo disprezzo per i cavallini di legno col fischio, per i tamburi gialli e verdi a striscie, per le trombettine e per quelle bambole di cencio, vestite di color rosa, cogli occhi neri, il viso imbellettato e quella chioma folta, fatta per lo più di calze nere disfatte, quelle bambole che noi da bambini si portavano in trionfo e si tenevano come le cose sante.

Dunque il sor Timoteo non accozzava mai il desinare colla cena, ma non per questo dimagrava. Era anzi un omaccione forte, e la sora Timotea era un donnone alto come un granatiere, e i figlioli a forza e voce non stavano male neppur loro. Invece i due garzoni erano secchi allampanati che facevano pietà, e tremavano sempre dal freddo.

Con tutte le sue disgrazie il sor Timoteo aveva una voglia matta di divertirsi. Da anni e anni quella voglia restava insodisfatta, ma non c’era domenica che il sor Timoteo non dicesse:

— Se in questa settimana vendo quella bambola — e accennava ad una bambola colla testa di cera che stava sotto una campana, perché le mosche non la ricamassero — andiamo tutti a fare una gita di piacere.

La moglie a quella promessa faceva una risata che echeggiava in tutti gli angoli della bottega e faceva scotere i burattini appesi al filo, i figli strillavano dal piacere, e i garzoni per risparmiar la voce facevano sette e otto riverenze col capo.

Una settimana la bambola la vendé davvero, e la vendé la bellezza di 40 lire a un americano, che vedendola in quella bottega vecchia sotto la campana, se ne invaghì, e il sor Timoteo gliela dette per una bambola antica, un modello di gran valore trovato negli scavi di Pompei. L’americano andò via contento col suo tesoro, ma più contento di lui era il sor Timoteo. Si messe fino a ballare colla sora Timotea, dando calci ai cavallini di legno, ai tamburi e ai carretti, e i ragazzi si messero a strillare e giravano anche loro attaccati alla sottana della mamma.

La domenica seguente il sor Timoteo e la sora Timotea presero un figliuolo per uno in collo e s’avviarono. Dietro venivano i due garzoni, che tremavano anche questa volta come burattini, perché il sor Timoteo aveva dato loro a portare un po’ per uno un certo fucile carico, caso mai incontrassero qualche lepre o qualche brigante. E dietro ai garzoni veniva la figliola maggiore per nome Timoteuccia, cantando e ballando.

Arrivarono alla stazione che il treno era partito; dovettero aspettare un treno omnibus, furon ficcati nel bagagliaio alla rinfusa con tante casse e panieri, perché il treno era pieno, ma nulla in quel giorno offuscava la felicità della famiglia Disgraziati.

— Quanto son felice! — esclamava il sor Timoteo.

— Quanto siamo felici! — ripetevano gli altri.

Appena giunti in campagna, ognuno si abbandonò ai suoi divertimenti favoriti. Il sor Timoteo e la sora Timotea affidati i due piccini alle cure di Timoteuccia, montarono in barca e andarono a fare una passeggiata sul fiume. Pareva loro d’esser tornati di vent’anni, e raccontavano ai barcaioli, ai pesci e perfino alle mosche la loro grande, immensa felicità.

I due garzoni che avevano sempre desiderato invano di tuffarsi nell’acqua, quel giorno riuscirono alla fine ad appagare il loro desiderio e si tuffavano come due delfini quando un grido disperato uscì loro di bocca e si affrettarono a correre alla riva.

Poveri, infelici garzoni! Un ladro, nascosto dietro un canneto aveva spiato ogni loro movimento. Li aveva veduti spogliare, scender nell’acqua, abbandonarsi alla gioia di quel bagno fresco e salutare, e sul più bello, come un uccello di rapina, s’era slanciato sul posto ove essi avevano posati i vestiti, e acciuffati che li ebbe, se la dette a gambe.

— Birbante! ladro! Qua i panni! — urlavano i due infelici garzoni; ma il ladro invece di ubbidire a quella ingiunzione correva più che mai.

Quando lo ebbero perso di vista si gettarono l’uno nelle braccia dell’altro e piansero dirottamente. In tasca dei vestiti ci avevano messo anche il salvadanaio coi pochi soldi risparmiati.

— Oh Dio! — e cominciarono a tremare a vetta a vetta, e le lagrime che scendevano loro dagli occhi erano tante che scorrevano loro lungo il corpo secco secco, e dopo aver lasciato dei depositi che parevano laghetti nelle cavità, andavano a ingrossare il fiume, che correva rigonfio come dopo una lunga pioggia estiva. Ora torniamo un passo addietro. L’americano dunque dopo aver comprato la famosa bambola dal sor Timoteo se la portò a casa e la guardava come una cosa preziosa. Egli comprava oggetti antichi per farne un museo perché il suo amico e vicino ne aveva già uno, e facevano a picca a chi portava a casa oggetti più rari.

— Questa non l’ha davvero! questa non l’ha davvero! — esclamava pensando già alla invidia dell’amico, quando entrò da lui un rigattiere che tutti i giorni gli procurava qualcosa di molto antico, come sarebbe un brano del mantello di Giulio Cesare, un dente d’Alessandro, o l’elmo di Epaminonda. Subito gli fece vedere la preziosa bambola, unica nella sua specie, rimasta intatta sotto le ceneri e la lava che distrussero Pompei.

— Dovrebbe esser doventata almeno almeno una candela — disse il rigattiere guardandola. — Gliela hanno data ad intender bellina! A questa non ci avrei pensato neppur io… bella, bella la trovata! — e rideva a più non posso.

L’americano non capiva tutto quel che diceva il rigattiere, ma capiva che lo avevano ingannato, truffato e volle vendicarsi. Andò alla bottega del sor Timoteo; la bottega era chiusa, ma bussa e ribussa si affacciò una vicina e gli disse che la famiglia Disgraziati era andata in campagna, e gl’indicò il luogo.

L’americano inforcò un veloce corsiero e via di galoppo in cerca della famiglia Disgraziati, in cerca del sor Timoteo.

Il desiderio della vendetta gli faceva spronare continuamente il cavallo, ma siccome il cavallo non aveva le ali, gettò l’americano in un fosso e si troncò il collo L’americano non si troncò né gambe, né braccia, né testa, ma si conciò per il dì delle feste e dovette farsi imprestare da un villico i panni e così travestito andò in cerca del sor Timoteo. Lo chiappò caldo caldo appena sceso di barca che fumava tranquillamente la pipa, ripetendo fra i denti:

— Quanto son felice!

Infatti in quelle poche ore era ingrassato, non si riconosceva più.

L’americano era furbo: invece di dirgli là sul tamburo:

— “Sei un truffatore, sei un birbante!” — gli fece un monte di salamelecchi, e lo invitò a una escursione alpina su una vetta elevata, e per la strada non risparmiò nulla per divertirlo.

Lo fece assistere al tiro al piccione, al quale si dilettavano due villeggianti in presenza di una guardia e poi dandogli continuamente da bere, perché avesse forza di salir fino in cima, lo condusse alto, ma alto su certe rocce da capre, dove il sor Timoteo si sentiva mancare il terreno sotto i piedi. A un certo punto vedendosi un precipizio davanti il sor Timoteo ebbe paura, e lui, grande e grosso come un bue si messe a lamentarsi.

— Dove mi ha mai portato! povero me, Timotea, Timoteini, Timoteuccia! — ma nessuno gli rispondeva. L’americano lo aspettava a quel punto. Gli gettò una corda perché se la legasse alla vita e tenne lui l’altro capo.

Incominciarono a discendere e quando vide che Timoteo scivolava, lasciò andare la corda e il pover uomo, sbatacchiato, sgraffiato, ammaccato, volò in fondo a un precipizio.

L’americano stava su a urlare:

— Me l’hai ripagata la bambola scavata a Pompei, truffatore, birbante, ingannatore. Scava le bambole ora, scavale! — e rideva.

Quelle parole erano come tante coltellate per il povero baloccaio, che vedeva le stelle dal dolore e si trovava lì abbandonato, separato dai suoi.

In fondo a quel precipizio scorreva un rio. L’infelice si trascinò in riva all’acqua e quella calmò i suoi atroci dolori, ma non aveva la forza di alzarsi, di camminare. Intanto la fame lo divorava e carponi si spinse verso il punto dove la valle si allargava, e quale non fu la sua sorpresa trovandosi appunto in riva al fiume sul quale era andato a passeggiare colla sua Timotea, e dove appunto aveva lasciato l’ombrello.

Incominciò a urlare chiedendo soccorso, e l’udì un giocatore di birilli che vedendolo tutto arruffato, stracciato e sgraffiato, lo prese per un selvaggio e cominciò a ballare dalla gioia.

Alla meglio si riebbe, ma il pensiero che la vendetta dell’americano avesse colpito anche la sua Timotea? Timoteuccia e Timoteini non gli dava pace. Prese l’ombrello, e con gran stento, solo, afflitto, riprese a piedi la via di casa.

Vedeva folleggiare allegri i ragazzi dietro alle farfalle, e:

— Che sarà dei miei? — sospirava.

Gli prese l’acqua; un’acqua grossa come funi e il sor Timoteo aprì l’ombrello, l’unico suo rifugio, l’unica cosa che eragli rimasta in tutto quel naufragio. Ma anche quell’ombrello era scritto che dovesse subire avarìe.

Dette sui nervi a un toro rabbioso che pascolava in un prato. Traversò lo stecconato e colle corna lo infilò e si messe a correre con quel cappello di nuovo conio.

Il sor Timoteo stanco della vendetta degli uomini, della inclemenza degli elementi, e dei capricci degli animali, ritrovò forza e si messe a rincorrerlo.

Il toro sentendosi inseguito andava come il vento e il sor Timoteo non l’avrebbe raggiunto dicerto se il toro che con quel cappello davanti agli occhi non vedendoci non avesse dato di cozzo contro un albero. Indispettito abbandonò l’ombrello al suo legittimo padrone in uno stato da far pietà.

Il sor Timoteo lo raccolse premuroso e sotto l’egida di esso riprese la via, che dopo tante tribolazioni doveva ricondurlo a casa, dove giunse col batticore.

Là trovò tutti sottosopra. La sora Timotea era a letto che spasimava chiedendo al cielo e alla terra notizie del suo Timoteo; i Timoteini, abbandonati a sé stessi in campagna avevano mangiate tante more che eran più nel mondo di là che di qua. Timoteuccia divertendosi in riva all’acqua era stata morsa da un terribile granchio.

— E i garzoni, i garzoni? — domandò il sor Timoteo.

Nessuno seppe rispondergli.

E così finì la gita di piacere della famiglia Disgraziati.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La gita di piacere della famiglia Disgraziati
AUTORE: Forese
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti