La fiaccola sotto il moggio, tragedia in quattro atti in versi del 1905, fu composta da D’Annunzio in brevissimo tempo: iniziata ai primi di febbraio, ai primi di marzo era terminata e già in scena il 27 marzo al Teatro Manzoni di Milano (1).

Ad interpretarla era, fra gli altri, nella parte di Simonetto, Gabriellino D’annunzio, figlio dell’autore, con lo pseudonimo di Gabriele Steno. La prima edizione a stampa è sempre del 1905, ornata da bellissime xilografie, di elegante gusto preraffaellita, di Adolfo De Carolis (1874 – 1928), importante incisore, fotografo, pittore (2).

L’ambientazione è in un’area ben precisa: la zona delle Gole del Sagittario nel territorio di Anversa degli Abruzzi. È un luogo affascinante nel cuore dell’Abruzzo più selvaggio, possibile meta di memorabili escursioni. Oggi è una preziosa Riserva naturale regionale. La vicenda si svolge in un anno qualsiasi dei primi decenni dell”800, al tempo di Ferdinando I di Borbone, il giorno della vigilia di Pentecoste.

Il dramma si snoda nel corso di poche ore, raccolto quasi completamente all’interno dell’antica e decaduta casata dei De Sangro. L’atmosfera cupa, di disfacimento, che pervade la dimora antica e l’ambiente di scena “vetusto, consunto, corroso, fenduto, coperto di polvere, condannato a perire” fanno da sfondo ai tratti psicologici altrettanto cupi dei personaggi.

Recita, nell’Atto I, scena seconda, la protagonista Gigliola:

Anch’io anch’io laggiù, in qualche parte,
ho una fiaccola rossa
nascosta sotto il moggio,
sotto un moggio vecchissimo nascosta
che non misura più perché non tiene
più né grano né orzo.
Entro i cerchi di ferro rugginoso
ha le doghe sconnesse.
Quella terrò nel pugno, a rischiarare
il travaglio notturno
intorno alla ruina.

L’origine del modo di dire è nei Vangeli, nel Sermone della montagna (Matteo V, 15): “né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.” Il segreto che Gigliola conosce o crede di conoscere lo svelerà dunque, non lo terrà nascosto e da lì nascerà la tragedia, in un precipitare sempre più violento di eventi.

La presentazione dei personaggi, delle dramatis personӕ, è seguita da due brevi citazioni in greco, xilografate:

“CHORVS
ΔΡΑΣΑΝΤΙ ΠΑΘΕΙΝ ΤΡΙΓΕΡΩΝ ΜΥΘΟΣ ΤΑΔΕ ΦΩΝΕΙ
ΕLECTRA
ΠΡΕΠΕΙ Δ’ΑΚΑΜΠΤΩ ΜΕΝΕΙ ΚΑΘΗΚΕΙΝ (3)

tratte dalla tragedia di Eschilo Le Coefore (4), seconda opera della trilogia Orestea, nella quale i fratelli Oreste ed Elettra compiono sulla madre Clitennestra e su Egisto la vendetta per aver ucciso il padre Agamennone. Come poi nella tragedia di D’Annunzio, la fiaccola non viene tenuta sotto il moggio, la verità sull’infame delitto della madre viene svelata ed il delitto punito. Spostiamoci di tempo e di luogo. Al castello di Elsinore. Anche qui, grazie alle pagine di Shakespeare, leggiamo che il principe Amleto trae la fiaccola ed illumina il delitto della madre e dello zio, delitto che di sua mano punirà.
Tuttavia, al contrario di quanto avviene nella tragedia greca classica, e anche in Shakespeare, in cui la morte fa trionfare il bene sul male, con una linearità, pur nelle diverse situazioni, sempre immutabile, qui D’Annunzio racconta una tragedia in cui l’eroe non è necessariamente colui o colei che trionfa, sempre che un eroe riesca ad emergere.
Altro elemento di forte legame con la tragedia classica è il vincolo di sangue che unisce gli attori del dramma: madri e padri, figlie e figli, in cui gli amanti risultano dei comprimari, quasi solo elementi detonatori della tragedia.

L’autore definì questa “la perfetta” delle sue tragedie. In effetti essa, proprio nel distaccarsi dai canoni classici, mostra una grande modernità sia nella definizione psicologica dei personaggi sia nella sobrietà delle scene. Sobrietà per altro assente nel linguaggio, tipicamente dannunziano, ricco di parole desuete, molto letterario e poco tagliato sulle diverse tipologie dei personaggi. E questo si dimostra poi di fatto una sfida all’atto della rappresentazione in scena, dove il regista può sentire l’urgenza di far parlare il popolano con accenti dissimili da quelli del signore.

Dalla tragedia presto vennero tratti due film muti, nel 1911 con la regia di Luigi Maggi e nel 1916 con la regia di Eleuterio Rodolfi.
Infiniti ne sono stati gli allestimenti teatrali. Vi fu un esperimento di tipo espressionista nel 1940 al Teatro Argentina di Roma; nel 1958 la tragedia venne portata in scena dalla Compagnia dei giovani diretta da Giorgio De Lullo; Giancarlo Cobelli nel 1983 l’ha allestita al Teatro Stabile dell’Aquila e tra le attrici era la grande Alida Valli.


(1) Un’interessante notazione ‘biblioteconomica’: nello stesso anno 1905, per i tipi dello stampatore Vincent Ciocia di New York, viene eseguita un’edizione “Entered according to act of Congress, in the year 1905 by Gabriele D’Annunzio in the office of the Librarian of Congress in Washington”, cioè per essere conservata nella prestigiosa Library of Congress https://archive.org/details/lafiaccolasottoi00dann/mode/2up
(2) Sono visibili nelle edizioni riportate in Internet Archive https://archive.org/search.php?query=la%20fiaccola%20sotto%20il%20moggio
(3) Il testo risulta inciso in modo errato: Δ’ΑΚΑΜΤΩ e non, come sarebbe stato corretto, Δ’ΑΚΑΜΠΤΩ
(4) Sono due brevissimi brani della Lamentazione funebre:
Coro: “Sia fatto al colpevole ciò che lui ha fatto.”, dice l’antica saggezza.
Elettra: È necessario dunque essere inflessibili. [Trad. CP]

Breve bibliografia :

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi

Dall’incipit del libro:

ATTO PRIMO
Appare un’aula vastissima nella casa antica dei Sangro costrutta sul dosso ineguale del monte. Alla robustezza della primitiva ossatura normanna tutte le età han sovrapposto le loro testimonianze di pietra e di cotto, dal regno degli Angioini al regno dei Borboni. Ricorre all’intorno un ballatoio ricco di sculture, sopra arcate profonde; delle quali alcune sono tuttora aperte, altre sono richiuse, altre sono rette da puntelli. Delle tre in prospetto, la mediana prolunga la sua vôlta verso il giardino che splende, di là da un cancello di ferro, con i suoi cipressi le sue statue i suoi vivai; la destra mette a una scala che ascende e si perde nell’ombra; la sinistra, ornata in ciascun fianco da un mausoleo, s’incurva su la porta della cappella gentilizia che a traverso i trafori di un rosone spande il chiarore delle sue lampade votive. A destra gli archi, più leggeri, sorretti da pilastri isolati, si aprono su una loggetta del Rinascimento a cui fa capo un ramo della scala che discende nella corte. A sinistra, nel muramento d’un arco è praticata una piccola porta; e quivi presso, armadii e scaffali son carichi di rotoli e di filze. Cumuli di vecchie pergamene ingombrano anche il pavimento sconnesso, sopraccàricano una tavola massiccia intorno a cui son seggioloni e scranne. Busti illustri su alte mensole, grandi torcieri di ferro battuto, cassapanche scolpite, una portantina dipinta, alcuni frammenti marmorei compiscono la suppellèttile. Una fontana di gentile lavoro, dominata da una statuetta muliebre, alza nel mezzo dell’aula la sua conca vacua. E il tutto è vetusto, consunto, corroso, fenduto, coperto di polvere, condannato a perire.

SCENA PRIMA.
DONNA ALDEGRINA è seduta presso la tavola, intenta a consultare le pergamene dell’archivio. BENEDETTA torce il fuso, ANNABELLA gira l’arcolaio. Il sole pomeridiano entra dalla loggetta.

DONNA ALDEGRINA.
Annabella, Annabella,
non senti come tremano le mura?
Che è mai questa romba?
La casa crolla?

Scarica gratis: La fiaccola sotto il moggio di Gabriele D’Annunzio.