Riconosciuto da chiunque se ne sia occupato come il capolavoro di Ferri, La Camminante fu pubblicato da “Nuova Antologia” nel 1908, dapprima a puntate sulla rivista e subito dopo in volume. La critica fu concorde all’epoca nel recensirlo come un romanzo importante. Ferri scrisse: «Ho avuto lunghi articoli sulla Camminante e la mia riconoscenza è vivissima per i critici illustri e benevoli». Per la recensione di Cappelletti su “Il giorno” del 10 febbraio 1909 Ferri scrisse una specifica lettera di ringraziamento: «la nota personale che è nel suo bellissimo cenno mi ha commosso». Capuana, il mese successivo alla prematura scomparsa di Ferri scrisse su “Noi e il mondo, rivista mensile de La Tribuna”:

«La Camminante rimarrà tra le più vigorose e più belle produzioni del romanzo italiano contemporaneo e bisognerà attendere la tarda giustizia dei posteri perché G. L. Ferri riceva la definitiva consacrazione nella storia letteraria italiana di questi ultimi anni.»

Pare che Pirandello abbia esclamato, dopo aver letto La Camminante: «Avrei voluto scriverlo io…».

Tra Capuana e Ferri la sintonia era di antica data; entrambi avevano manifestato interesse per alcuni aspetti della letteratura fantastica e horror; Ferri aveva dato corpo a questi aspetti fin dal racconto del 1880 Faust a Napoli (“Capitan Fracassa”, 22 agosto 1880) e nel romanzo L’ultima notte, mentre Capuana aveva scritto Un Vampiro nel 1906. Altro tratto comune tra i due scrittori, oltre a una solida amicizia, era l’attenzione per la favolistica: l’attività di Capuana in questo campo non ha bisogno certo di essere ricordata, mentre Ferri nel 1910 pubblicò una riduzione in lingua di Lo cunto de li Cunti di Basile.

La Camminante non è solo il capolavoro di Ferri ma è uno degli ultimi suoi libri. Circa quindici anni dopo Ugo Fleres scrisse su “Roma, rivista di studi e di vita romana”:

«Giustino Ferri scrisse un capolavoro, la Camminante, proprio quando si radunava la sua brigatella di Via Veneto. Ora, alla distanza di quindici o sedici anni dalla sua pubblicazione, nessuno se ne ricorda più, tranne i superstiti della brigatella stessa; ma non importa. E per due ragioni: primo, perché, come vedremo, il consenso entusiastico di coloro che lo circondavano, unico ambrosio aroma per gli scrittori, Giustino poté aspirarlo pienamente, e la morte sopravvenne, avanti che la fragranza svanisse o s’intristisse; secondo perché il romanzo La Camminante tornerà a galla e prenderà il suo posto, non vogliamo dubitarne; e giacché l’autore non c’è più, ritardi o no la gloria, ormai fa lo stesso».

La profezia almeno in parte si è avverata; anche se tralasciamo la riedizione manipolata e decisamente da ignorare del 1944, negli ultimi anni abbiamo avuto due nuove edizioni cartacee di questo romanzo, che avrebbero dovuto inaugurare una riedizione di tutte le opere di Giustino Ferri; iniziativa che, almeno per il momento pare si sia arenata. Anche noi cerchiamo quindi di dare il nostro piccolo contributo per far “tornare a galla” questo romanzo e quanto più possibile dell’opera del Ferri.

La camminante è termine semi-dialettale in uso nelle campagne natali di Ferri per definire una girovaga, una vagabonda. Ferri era soprattutto giornalista e spesso nelle opere letterarie dei giornalisti traspare una frettolosa superficialità – che impartisce certamente colore – ancora più spesso, lo scivolamento nel teorema morale che per l’articolista appare quasi un obbligo. Per questo si può affermare con sicurezza che La Camminante non sembra affatto un romanzo scritto da un giornalista. Forse l’ambiente provinciale dell’adolescenza ha consentito all’autore di conferire al suo romanzo un’atmosfera di tranquilla osservazione e di nostalgica poesia. Anche se non nuovo, il “motivo” di La Camminante non è certo abusato. E il motivo è quello di una poesia misteriosa, di un sogno che si fa realtà per un solo attimo, che sfiora ma non si rivela, che scompare e svanisce se pretendiamo che si sveli. E in ogni caso Ferri lo rinnova, questo motivo, e lo perfeziona, armonizzandolo in una descrizione di ambiente provinciale nel quale si staglia la suggestiva indeterminatezza di una apparizione della quale non si può conoscere né il “prima” né il “poi”.

Un carrettiere un mattino trova lungo la strada una donna morente, priva di sensi, con i miseri vestiti laceri, e la porta alle Ramogne, la casa dello scrittore Andrea Bartoli quasi cinquantenne, quasi celebre, quasi ricco, nella quale abita con la sorella maggiore Bettina, nubile impenitente e forse troppo materna verso il “fratellino”. I due la curano e la salvano, ma, quando dal delirio e dal torpore la camminante riemerge per inoltrarsi in una lunga convalescenza, la curiosità che nessuno osa apertamente esprimere non viene saziata:

«— Non vuole che la chiami signora, – replicò la padrona di casa – signorina, allora?…
— No, nè signora, nè signorina; mi chiami…
Parve incerta un momento, poi soggiunse:
— Mi chiami Paola.»

Nessuna parola sul dramma segreto che ha scosso con tutta evidenza una giovane donna dai tratti delicati e da una quasi certa educazione signorile. Ma ad Andrea sembra che non importi di sapere chi sia Paola, né che gli altri, la società, il mondo abbondino – nella loro irritante invadenza – di grossolana maldicenza, prima ancora che lui stesso si sia accorto di amarla e di essere amato. In questa storia d’amore il personaggio di Bettina spicca con estrema verità artistica di impronta che potremmo definire “balzachiana”. Testimone pietosa di questo amore è nello stesso tempo rispettosa e ostile e gli attriti che si creano tra lei e i due amanti si smorzano e si acuiscono con l’alternarsi dei dubbi, delle speranze, dei timori. Ma forse la vera novità e originalità del romanzo consiste nell’addentrarsi nella psicologia del letterato di professione. È quello che Bàrberi Squarotti chiama «il romanzo nel romanzo».

«Ci accorgiamo, alla fine, che, nonostante l’intreccio di tensione e di ritorno alle abitudini che è nelle ultime pagine di La Camminante, Ferri ha voluto darci, insieme con la vicenda di Paola, anche il romanzo del romanzo da scrivere intorno a Paola e al suo mistero: che, in altre parole, ci troviamo di fronte a un metaromanzo, nel quale la vicenda è quella di una letteratura brillante e mondana, altoborghese aristocratica, di ambito dannunziano e fogarazziano, che è in crisi e urta contro la ripetitività e la banalità, e che cerca e trova l’occasione del mutamento entro la mescolanza del sublime del mistero della donna raccolta in mezzo a una strada e sparita dopo aver segnato di sé la vita delle Ramogne, e del più consueto e normale svolgersi del quotidiano della vita di tutti i giorni di due maturi fratelli in un angolo di provincia. Il metaromanzo che è al di sotto del romanzo della camminante è quello di una letteratura che si fa capace di cogliere l’eccezionalità nel cuore della normalità: e allora Paola è anche, in questa dimensione metaromanzesca, l’allegoria di una letteratura nuova che sappia unire sublime e realistico, e l’assenza di ogni notizia intorno a lei significa anche che la letteratura che può contenerla è ancora oscura, è proiettata in una dimensione di futuro, è un’utopia che deve essere ancora attuata, e rimanda di conseguenza a quel progetto di romanzo che si dovrà scrivere ma che è anche l’oggetto del romanzo, appunto, scritto, con la storia di Paola e infinite descrizioni di desinari e di cene, di stagioni e di vicende metereologiche con la registrazione nella loro incoerenza dei pensieri dei protagonisti.»

La psicologia di chi vive dei prodotti della propria sensibilità e della propria immaginazione, appare qui ben lontana dai profili idilliaci proposti ad esempio nello stesso periodo storico da Lucio D’Ambra o Pierre Loti, ma viene presentata nel suo tormento e anche nella sua meschinità, spesso schiacciata e deformata dagli artifici ai quali il “mestiere” sembra obbligare. Ma per apprezzare davvero questo importante romanzo, certamente tra i più importanti dei primi decenni del XX secolo, non resta che leggerlo; dilungarsi ancora sulla trama e sui numerosi e vari contributi critici può solo servire a lasciare l’ombra di un nome e l’angoscia di un rimpianto.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Il vecchio raccontava con un bel vocione sonoro e, nelle brevi pause che ogni tanto faceva per bere un sorso di vino, lisciandosi la lunga e larga barba bianchissima, guardava l’ascoltatore con gli occhietti arguti, pieni di benevola malizia.
E l’ascoltatore guardava il vecchio con simpatia, esitante fra l’ammirazione e la condiscendenza.
— E così? – disse l’ascoltatore, quando il vecchio ebbe riposto il bicchiere dimezzato sul vassoio.
— Così fummo costretti a fuggire. Non ci restava altro: ridotti a cinque, divisi dai compagni, vestiti della camicia rossa, in mezzo al furore della reazione borbonica, che altro potevamo fare? A Isernia, un prete liberale era stato tagliato a pezzi dai contadini; e si diceva che ne avessero venduto la carne al mercato, fra gli urli selvaggi della plebaglia. In sostanza quella reazione era una nuova rivoluzione di cui allora non si potevano comprendere le cause vere: le campagne contro i cittadini, i miserabili contro la borghesia; saccheggiavano, incendiavano, uccidevano.

Scarica gratis: La camminante di Giustino Ferri.