Con il titolo La pipe de cidre la moglie di Octave Mirbeau, Alice Regnault, fece pubblicare a Parigi, presso l’editore Flammarion, questa raccolta di racconti, nel 1919, due anni dopo la morte del marito. Sono racconti che Mirbeau non aveva ritenuto di raccogliere in volume, pubblicati negli anni precedenti su varie riviste. Il titolo della raccolta riprende quello del primo racconto. La traduzione italiana, pubblicata nel 1920, è anonima anche se da taluni attribuita a Decio Cinti, che di Mirbeau tradurrà poi altri significativi testi; tra i quali ricordiamo la nota opera teatrale Gli affari sono affari.
L’ultimo racconto della raccolta, Mémoires pour un avocat, è più un romanzo breve che un racconto e merita una riflessione particolare perché resta a testimonianza di un periodo particolarmente difficile per lo scrittore. Fu pubblicato a puntate nell’autunno del 1894 su “Le Journal”. Dopo aver sposato nel 1887 l’attrice Alice Regnault, dopo poco tempo Mirbeau si rese conto di come fosse per lui quasi impossibile stabilire una sintonia con la moglie, ma come fosse altrettanto impossibile rompere il legame matrimoniale. Il racconto diviene quindi – attraverso una sorta di memoriale destinato all’avvocato che avrebbe dovuto curare la causa di divorzio – la storia di frustrazioni e umiliazioni alle quali l’uomo è sottoposto a causa della glaciale freddezza della moglie, che non si cura per nulla delle esigenze del marito, limitandogli via via ogni possibile valvola di sfogo, relazionale, artistica, di vita quotidiana, in nome di una quasi incomprensibile organizzazione domestica basata sulla maniacale verifica di ogni possibile spesa. La storia del matrimonio con Alice Regnault è forse uno degli aspetti più interessanti della biografia di Mirbeau. Va almeno ricordato che le frustrazioni che lo scrittore dovette subire da vivo, proseguirono anche dopo la morte, quando – a pochi giorni di distanza dal decesso dello scrittore – la vedova fece pubblicare, come scritto dal defunto marito, un “testamento politico”, scritto invece da Gustave Hervé, che andava nella direzione opposta a quella che era stata l’ispirazione pacifista del marito (fu infatti pubblicato dalla stampa bellicista del periodo).
La scelta dei ventitré racconti che compongono la raccolta è comunque oculata. E anche quella di chiudere la raccolta con il già ricordato Appunti per un avvocato appare senza dubbio coerente con l’ispirazione complessiva, certamente non pervasa di ottimismo nei riguardi sia della società che della natura umana. Il fatto che questi racconti siano stati scritti in un arco temporale abbastanza vasto consente in un certo qual modo di seguire l’evoluzione di Mirbeau dagli ultimi sussulti del realismo post-romantico all’ammirazione per il naturalismo zoliano e la sua cruda visione realistica fin verso le tendenze più tipiche della fine del XIX secolo di tipo marcatamente spiritualistico e nelle quali non è difficile scorgere una certa filiazione da Daudet. In questa ottica si spiega la disomogeneità apparente di questi racconti; senza che però l’autore abbandoni mai in ogni caso il proprio temperamento provocatorio e combattivo che lo porta a stigmatizzare la mediocrità e le ignominie della società a lui contemporanea. Resta infatti questo il filo conduttore di questa raccolta, pur se attraverso le più varie tematiche di fondo. La crudezza del linguaggio e il realismo provocatorio prefigurano le caratteristiche delle sue successive opere teatrali, scandalose per i tempi e che non mancarono di suscitare all’epoca vivo scalpore.
Ad eccezione di Conte Polynésien – che sarà pubblicato in Contes drôles – tutti i racconti di questa raccolta sono poi stati raccolti nell’edizione di Contes Cruels. Davvero scelta e titolo non potevano essere più pertinenti. La crudeltà è infatti il dato forse maggiormente saliente di queste narrazioni e raggiunge, secondo me, l’apice nella novella L’Octogénaire. La vita difficilissima di Rosa Pelletrini, la quale dalla campagna romana si spinge fino a Parigi confidando nell’accoglienza e nell’aiuto del suo unico figlio, conosce in questo racconto un epilogo nel quale l’infingardaggine e l’insensibilità umana raggiungono vette raccapriccianti al vertice delle quali non trova posto neppure il più pallido embrione di empatia e dove alberga solo la totale indifferenza per le sofferenze altrui, persino per quelle della propria madre. Non ricordo altre pagine letterarie dove un pianto riesca ad apparire più rappresentativo dell’esaurimento definitivo di ogni rimanente anelito di vita e di combattività. Non è un pianto liberatorio, ma il pianto della definitiva e completa resa alla massima umiliazione che può infliggere la vita.
Troviamo una crudeltà simile nella sua indifferenza anche nel tormento di Les Bouches inutiles; la società espelle chi non è più in grado di lavorare e chi si trova in questa condizione può considerarsi già morto. E se questo avviene nel chiuso delle pareti domestiche appare ancor più cinico e crudele. Non mancano i risvolti macabri, dovuti talvolta alla follia della guerra (La Pipe de cidre) o alla superstizione che acceca e porta alle più orrende violenze (Rabalan). La critica alla società borghese si indirizza anche verso la sua piatta monotonia che annienta stimoli intellettuali e voglia di pensare e di conoscere (La Première émotion, Deux amis s’aimaient). In sintesi possiamo dire che ogni racconto porta con sé un elemento che può andare a comporre una sorta di sofferenza universale, andando a porre il dito nella piaga generata dagli aspetti più oscuri della natura umana e da una società che è complice della crudeltà e della barbarie anche quando talvolta si mimetizza sotto le spoglie di una etica ipocrita che non può attenuare né le sofferenze né i disagi di una condizione esistenziale traumatica e spesso sconvolgente.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del primo racconto La botte di sidro:
…Quando finimmo di far colazione, padron Lormeau, il nostro ospite, uno dei più grossi affittaiuoli del Perche, ci invitò a visitare la sua cantina.
— Vedrete una cosa rara, curiosa, curiosissima! – ci disse.
Ma curiosa sopratutto era quell’idea balzatagli in testa improvvisamente, dopo aver bevuto e in un giorno di apertura di caccia, nel quale tutti i minuti sono contati. Avremmo preferito ritornare a stanare le pernici e le lepri. Ma babbo Lormeau era cocciuto e in quel momento la sua cocciutaggine naturale era complicata da una leggera ubriachezza. Ad onta della nostra manifesta impazienza, egli insistè, pretese e fu giocoforza contentarlo.
— Non rimpiangerete di aver visto quel che vedrete! – seguitava a ripetere il buon uomo, conducendoci in cantina… – perchè è una cosa assolutamente curiosa… Pernici e lepri ce n’è sempre… Ma la selvaggina che vi mostrerò io, nessuno, nel paese, nè fuori, nè altrove, può vantarsi di averne una simile. Ah! no, perdio!
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