C’era questa signora in fila alla cassa, proprio davanti a me, va bene? Una di quelle signore di una certa età che fanno la spesa come se in casa avessero ancora un esercito di figli da sfamare e invece vivono sole con il gatto, capisci? E stavo lì a friggere per l’impazienza mentre caricava tutta quella roba sulla cassa perché alle due usciva Gimmi da scuola, alle tre e mezza mi toccava ritornare in Istituto per gli scrutini di fine trimestre, alle sei dovevo accompagnarlo a calcetto e dopo passare in lavanderia a riprendere la camicetta buona che però si era macchiata, e preparare la cena. Lo sai di che cosa sto parlando, no? Ricordi?

La signora alla cassa aveva i capelli della stessa sfumatura violetta che ricordavo sulla testa della mia nonna paterna. Un colore che alla luce del sole risultava normalmente grigio, ma che illividiva sotto il bianco innaturale del neon.

Ho sbuffato in maniera plateale, mi conosci. La signora tirava fuori gli acquisti uno alla volta, chinandosi fino a formare un angolo di trenta gradi per raggiungere il cartone del latte e il sacchetto con il pane e poi tornava in posizione eretta, lentamente. E l’avrà fatto tipo mille volte, ecco.

Al momento di pagare non è che avesse una carta, ovviamente. Parte la ricerca del borsellino, immerge la mano nella borsa come in una fossa delle Marianne, la borsa è profonda diciamo la metà del suo braccio ma nel suo antro il braccio misteriosamente scompare. Puoi immaginare il mio bruciore di stomaco, o no? Ne soffrivi anche tu, d’altra parte. Come dio volle, la mano riemerse dalla borsa aggrappata a un borsellino con la clip dorata, e lì è iniziato il recupero dei soldi, capisci? Banconote accartocciate, monete e monetine, fino a quando, ecco ci siamo, il denaro è arrivato alla cassiera che, dal canto suo, era fortunata perché aveva vinto una pausa supplementare imprevista.

Adesso il problema era smaltire tutta la mercanzia dalla mia cassa, infilarla nella sua busta e farla sparire. Così mi faccio avanti, sai com’è, non ci penso nemmeno un secondo.

– Posso aiutarla, signora?

Lei si gira, mi mette a fuoco per la prima volta perché evidentemente non aveva valutato la presenza di persone in attesa, mi sorride. – Grazie, mia cara, – risponde con la voce più soave del mondo.

Le strappo di mano le bustine e inizio a ingozzarle di roba fino a farle scoppiare, quasi.

– Non so che dire, – esulta con la voce flautata da vecchina delle fiabe, e non si sposta.

– È stato un piacere, arrivederla, – taglio corto.

– Arrivederla, e buone feste, – e mi spara un sorriso incantevole, con i denti dritti e bianchi, tipo dentiera ma fatta bene.

Ma quali feste, mi chiedo. E poi ricordo: tra tre giorni è Natale. Il primo senza Massimo, mi dico. Quindi: non è Natale.

La signora dai capelli viola lascia le buste sullo scivolo della cassa e si volta a osservare qualcosa che avviene al di là delle porte a vetri. – Signora, mi scusi, ho un po’ fretta. Ha qualche problema?

– Mi scusi lei, cara. È che mi sono appena accorta che piove e non so come portare a casa tutta questa roba. Fino a quando c’è stato il mio Arturo, mi accompagnava lui a fare la spesa grossa. È una cosa a cui un po’ ci si abitua ma che non passa mai. Mi infilo le mani sotto frangia, appoggiando i palmi sulle tempie e sbavandomi il trucco intorno agli occhi.

– Dov’è che abita, signora?

– Sono sulla collina, poco dopo la scuola elementare.

– Ce la porto io fino a casa, ma ora tolga le buste da lì, ché già siamo in ritardo.

Me la carico in macchina insieme ai quintali di spesa e partiamo sotto la pioggia più triste di fine dicembre. Come tutte le vecchie inizia a illustrarmi la sua biografia, che te lo dico a fare? Si chiama Angela, è vedova da un anno, i figli sono lontani. Lancio un’occhiata alle derrate alimentari che si sta portando a casa. Anche io sono vedova, vorrei dire, ma questa parola non la so ancora usare.

– Anche la mia nonna paterna, si chiamava Angela, – dico invece, ma le taccio la storia dei capelli violetti.

– È un nome piuttosto comune, – risponde flautando.

I nostri sacchi della spesa si spalleggiano nel bagagliaio mentre risaliamo per la collina. Davanti alla scuola di Gimmi non trovo parcheggio, e fuori è un fiume di auto.

– Le dispiace se la lascio qui mentre prendo il bambino? – e la mollo in doppia fila davanti a una smart. Angela fa un gesto con la mano, come a dire che tutto andrà bene, che posso allontanarmi tranquilla, che la vita ha tanti ostacoli ma che alcuni sono meno irti di altri. Un gesto antico, pieno di saggezza, che non ho mai visto fare a mia nonna ma che avrebbe potuto benissimo essere suo.

Quando torno, Gimmi si infila in auto e fa capolino tra i due sedili, in quella postazione a metà tra due mondi che ora non usa più. Io metto in moto e guido schivando auto e buche, Angela racconta qualcosa che sembra suscitare il suo interesse. E finisce che a un certo punto li sento che ridono. Io guardo l’orologio: è tardi per il pranzo, tardi per gli scrutini e di conseguenza per il calcetto e la lavanderia. Però rido con loro. Ci sono ostacoli più irti di altri. E forse io ce li ho dietro le spalle.

– Grazie cara, è proprio lì, – mi dice a un certo punto. Smonto dall’auto e le tiro giù la spesa.

– Lasci che l’accompagni sopra, – dico. Proprio così, devi credermi, come se all’improvviso il pranzo, gli scrutini, il calcetto, la lavanderia, la cena non stessero in agguato per prendermi alle spalle.

– No, va bene così, lei è stata il mio incontro fortunato, – sospira, poi agguanta i manici di plastica e sparisce dietro al portone. Io e Gimmi ripartiamo, lui lascia il posto tra i due mondi, scompare dietro al mio sedile e non lo vedo più.

E niente, la storia sarebbe finita lì, capisci se non fosse stato per il telefonino. È stato proprio un caso, nel senso che poteva anche non succedere, potevo non accorgermene. E invece due giorni dopo, che poi era la vigilia di Natale, io e Gimmi ci rimettiamo in macchina per non ricordo nemmeno più quale motivo e a lui cade la gomma dalla bocca. E figurati allora la mia rabbia, quante volte gliel’ho detto di starci attento, eccetera eccetera. – Adesso la raccatti, – gli dico, e ti giuro che stavo lì lì per scoppiare in un pianto. Per la pioggia, per il Natale, per la gomma appiccicata sulla moquette della macchina e per il primo Natale così. Gimmi si china con le orecchie rosse per il dispiacere, per la vergogna, per la rabbia e per il primo Natale così. Resta qualche secondo a ravanare sotto il sedile del passeggero e quando si alza ha in mano un telefonino, uno di quegli arnesi che usano solo i vecchi, con la foderina in similpelle tutta scolorita e le immaginette sacre nel taschino interno. – È di Angela, – dice, e gli si illuminano gli occhi.

E poi è successo tutto in fretta: siamo partiti, Gimmi si ricordava benissimo il palazzo ed è voluto scendere a citofonare proprio lui. Nessuno rispondeva ma era aperto, così siamo saliti. E la casa di Angela era lì, al terzo piano, abbiamo indovinato dai numerini sulle cassette della posta. Prendiamo le scale perché ascensore nemmeno a parlarne in quel palazzo vecchio abitato da vecchi. Gimmi bussa alla porta e dopo un po’ apre Angela, con il suo sorriso al saccarosio, come se ci stesse aspettando. Sembra uscita da un libro delle fiabe, con i capelli viola e il grembiule legato attorno ai fianchi. Prende il telefonino e lo abbandona sulla consolle all’ingresso, come una cosa senza vita. Magari ce lo aveva lasciato apposta per farci ritornare. La cucina stretta e lunga è ingombra di teglie e pirofile. – In tre facciamo prima e ci divertiamo di più, – decide Angela mentre ci arruola d’ufficio con grembiule e mestolo.

È andata così, Massimo, credimi, è stata una specie di incanto. Io e Gimmi ci siamo ritrovati alla cena della vigilia in questo stanzone umido dietro la sagrestia insieme ad Angela e a una folla di sconosciuti: poverissimi, poveri, diseredati e gente come me, che la vita con un urto violento ha spinto nell’angolo buio della solitudine.

Ci siamo messi a tavola, qualcuno si è fatto il segno della croce ed è iniziato il suono delle posate contro i piatti. Non sai che bella musica si è diffusa nell’aria. Come un concerto per anime sole.

Non sai che buon profumo.

(Pubblicato su Vanity Fair, n.49, dicembre 2022)

Fine.