In quel punto entra il ventoLe vent se lève!… Il faut tenter de vivre!
Paul Valéry

Compito primario della poesia è sempre stato quello di provocare una interazione tra la storia e le invarianti della specie umana, tra archetipi e contesto sociale, di modo che ne nascessero ipotesi, almeno, nuove sul mondo. Quello che scorgo è una volontà di resistenza ammirevole nell’unica battaglia politica che valga la pena di combattere: conservare e custodire il patrimonio dei nostri socioletti. Se sapremo rivivificare il passato, il futuro, che pare fosco, sarà un affare che ci competerà.

Remo Pagnanelli

Lo scorso ventuno maggio si è svolta a Macerata la presentazione del libro In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi (a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, Quodlibet 2009), che raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi a vent’anni dalla scomparsa del poeta.

Vi sono contenuti venti pregevolissimi saggi che offrono al lettore interpretazioni diverse e multiformi, senza che per questo venga disperso il filo che le unisce, ribadito da Guido Garufi nell’introduzione, vale a dire il riconoscimento dell’operare umanistico di Pagnanelli poeta-critico, della priorità da lui ascritta alla prevalenza del senso, a una parola che sia argomentante, espressione del sentimento del tempo e della storia, che si erga sull’ostentazione del divertissement e sullo scadimento del «ruolo» della poesia, che non è una attività consolatoria o accessoria ma oggetto di assorta e assillante riflessione – una «morale della forma», avrebbe detto Roland Barthes -, nonché visione eminentemente problematica. Ne deriva la stretta correlazione tra poesia ed etica: entrambe si misurano, contrastandola, con la troppo umana tendenza alla rimozione, allo spostamento.

Lontana dal defilarsi, dal mimetizzarsi, dal rifugiarsi ai margini, la poesia deve attraversare o stazionare – senza alcuna intenzione negativista o esito nichilista – sulla precarietà e sull’inconsistenza, aspetti ineludibili e inerenti all’uomo in quanto tale. Il nulla è un dolceamaro narcotico; bisogna progressivamente immunizzarsi all’idea del nulla e della mancanza, che è come dire della vita stessa. È da questa accettazione che forse traggono origine in Pagnanelli quelle soluzioni linguistiche dall’accento ironico, strategie espressive che tradiscono la lucidità disperata di continuare a scrivere, a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza nel momento stesso in cui veniva visitato dal pensiero della perdita e della dissoluzione.

Come accade in questi versi appartenenti a Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, una versificazione quasi scandita per sintagmi:

tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio
di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal
titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me,
certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di
autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni),
disperazioni disperanti, dispersioni.

Nel saggio di apertura Amedeo Anelli sottolinea il valore da Pagnanelli accordato alla riflessione «su quello strano legame estetico, percettivo, noetico, che unisce parola a materialità diverse, che lega l’esperienza al giudizio, il senso al non senso, il senso al significato». E al binomio visione-visionarietà, sottratta, quest’ultima, a ogni idealizzazione romantica e restituita al suo significato di ipotesi disincantata e comunque percorribile in vista della riempitura del «vuoto dei simulacri», attraverso immagini seppure visionarie ma autentiche.

Danni Antonello parla di una postumità di Pagnanelli, poeta inattuale del dopo, che affida alla memoria una poesia che è lotta contro la transitorietà. Poesia è martyrion e sacrificio, testimonianza e luogo testamentario; deposto l’uomo, il poeta intrattiene una contesa contro l’evanescenza e per la persistenza della memoria. Venuto meno il «tu», attraverso i suoi eteronimi, liberandosi da quella «iterazione possessiva» e ossessiva («canticchiando la solita solfa ne varietur», scrive Remo in Continuum, appartenente a Epigrammi dell’inconsistenza), Pagnanelli esce da una configurazione monologante, e resta solo il poeta «che ha saputo farsi polifonia di voci», la cui sconfitta esistenziale è a un tempo compimento della vita, autorealizzazione e liberazione. E la poesia è annunciazione – pur in una dimensione tutta immanente – di qualcosa che si ritiene già postumo. Come avviene in Michelstaedter, dice Antonello.

Scrive Pagnanelli, in Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo (in Dopo):

finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento

Quanto alla metafora del vento che entra, forse Remo aveva in mente, oltre il Cimetière marin di Valéry, il suo caro Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della «morte che vive», dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera; e, ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che «non mai due volte configura / in egual modo i grani», gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando, parimenti, il suo forse illusorio, e comunque precario ed esile, margine di scelta e di autodeterminazione.

«In quale punto entra il vento?», si interroga Filippo Davoli: entra nell’istante in cui si tenta di sottrarsi al chiacchiericcio – al mormorio come vuoto di senso – e al chiasso interiore, il vento entra nella sostanzialità e non marginalità di una parola che non sia indifferenziata o segno di indifferenza, nel «recupero di un’idea esteticamente forte e strutturata», nel rinvenimento di una parola «usata» che nondimeno sia in grado di resistere all’usura. Il vento entra nel punto in cui una parola altra riesce a fondersi con la tradizione sottraendosi alla dispersione semantica e ricollegandosi alle ragioni esterne alla scrittura.

Guido Garufi intravede in Pagnanelli una stretta contiguità tra poesia e testo, in una superiore visione olistica, non come discordanza. Ribadisce l’idea pagnanelliana della poesia come «conservazione attiva», il cui ruolo fondamentale è di «conservare la tradizione e renderla dinamica e attiva, mobile e memorabile». E ricorda una delle costanti della poetica pagnanelliana, quella del prevalere dell’»asse del senso e della leggibilità» sull’enfatizzazione retorica, sull’accostamento gratuito, cerebrale e trasgressivo, sulla finzione, sull’infrazione eletta a regola, opachi e fuorvianti mascheramenti. «Il vento e l’aria – scrive Garufi nell’introduzione – sono in qualche modo la metafora della poesia. Altezza e cielo, invisibilità e presenza, aspirazione e vita, sguardo che la traversa grazie alla sua trasparenza». Quello pagnanelliano è un linguaggio classico, non classicistico, che procede segnicamente verso la memorabilità del dettato poetico. In Pagnanelli mai è venuto meno quell’indispensabile e imprescindibile legame tra categorie etiche ed estetiche.

Anche Massimo Gezzi parla della poesia di Pagnanelli nei termini di «uno scavo in direzione del significato», di un’operazione archeologica, come lo stesso Remo ebbe a dire, sia come «discorso del Principio», sia come «conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo». Poesia per Pagnanelli non è né infingimento né menzogna, dice Gezzi, ma perpetua lotta con l’indicibile e con il «nontempo». Poesia è un’attività semantica, uno strenuo tentativo di attribuzione di senso al di là della tentazione di affidarsi all’autonomia del significante. Non alla maniera dei postmoderni, ci dice Andrea Ponso, i quali postulano l’irresponsabilità della parola alla volta di uno spazio infinitamente percorribile di ipotesi di senso che alla fine coincidono con l’assenza di un referente e di un senso, percorso dunque rassicurante e al contempo nichilista, nella misura in cui ridefinisce la propria incapacità di significare. Pagnanelli oppone la tradizione come luogo di resistenza, di consistenza, ma anche causa di una resistenza con cui ogni poeta autentico dovrebbe misurarsi.

Poesia come tensione verso l’autentico, ribadisce Daniela Marcheschi, poesia sorretta da un «umanesimo antropologico» che fa del poeta un poeta-critico all’interno di una visione unitaria della cultura. Non trascurabile è il rimando in nota della Marcheschi a «Presupposti per un’estetica pedagogica» (in Remo Pagnanelli, Scritti sull’Arte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2007), in cui l’autore, nel culmine dell’euforia postmodernista, pare quasi stigmatizzare gli eccessi dell’infinità e dell’illimitatezza delle interpretazioni in vista della permanenza di una qualche «funzione di realtà». Altro segno essenziale dell’inattualità di Pagnanelli, una tra le rare voci discordanti nell’euforico dilagare del postmoderno di quegli anni, atteggiamento che al contrario da qualche anno è oggetto di ripensamenti e ritrattazioni.

Il tema di un Dio alluso, del riferimento agli dèi è svolto da Umberto Piersanti: dèi delineati quali apparenze enigmatiche e distanti, amalgamate quasi con la condizione umana, e un Dio vagamente inquietante, figura quasi irrisolta essa stessa, una delle varie pagnanelliane «figure di pensiero». Analogamente, Andrea Di Consoli pone la questione di un poeta che rientra nel «culto tutto novecentesco dell’assenza di Dio».

Poesia di «’sosta’, che guarda all’oltre, al luogo della sua sparizione», scrive Francesco Scarabicchi, come se la morte fosse un privilegio che fa dire parole assimilabili a sottoscrizioni di un’ultima volontà. Poesia «da ‘soglia’ di ingresso», nella consapevolezza del transito e dell’impermanenza.

Più particolare l’interessantissimo saggio di Roberto Galaverni, che mostra e «rettifica» Pagnanelli attraverso tre testi rispettivamente di Milo De Angelis, Gianni D’Elia e Andrea Gibellini, laddove Remo «reagisce» o al contrario si svela in versi altrui, nei quali Galaverni interseca riflessioni proprie e legittimazioni puntuali e circostanziate.

Andrea Gibellini si sofferma, ripercorrendolo per illuminazioni, sull’itinerario di Pagnanelli poeta, una «voce così implacabile nel rappresentare se stesso», esito della «totalità di un io-poeta in permanente allerta e perpetuo abbandono oltre il visibile e dentro la storia».

Tra gli innumerevoli saggi, che, pur ricollegandosi a distanza, svolgono ognuno una prospettiva particolare (qui ne sono stati sfiorati solo alcuni, e di passaggio), si distingue per la diversa impostazione quello di Piero Feliciotti («Presente indicativo: funzione poetica e funzione politica dell’inconscio»), nella misura in cui la sua ricerca risale all’origine di quella parola come territorio in cui non è concesso bluffare, che ha costituito l’aspetto centrale della poetica pagnanelliana.

Scrive Lucia Tancredi quanto Remo sentisse il «valore assoluto, quasi liturgico della parola e del suono», nonché della poeticità del silenzio inteso non come suo rovescio, ma come lo spazio del «non detto» e del «non dicibile».

Esiste una omologia tra poesia e psicoanalisi, scrive Feliciotti, due maniere diverse, ma per certi aspetti similari, di cui l’uomo dispone per la cura di sé. Non è possibile ricordare Remo Pagnanelli se non in termini di presenza, la presenza di «una vita al presente indicativo». E il titolo del convegno, «In quel punto entra il vento», sintetizza la funzione della poesia, che è fatta di vita e tempo, alluse dall’irrompere del vento, come nella metafora pagnanelliana. Feliciotti delinea questo presente configurandolo esteticamente ed eticamente, nella sfera dell’inconscio e in una prospettiva politica. L’oggetto poetico è situato nello spaesamento per l’incorrispondenza tra le parole e le cose. In assenza del proprio rinvio referenziale il linguaggio poetico crea un vuoto di senso univoco nella parola poetica che ci induce a riempirlo con le nostre emozioni, creando nuove presenze e orizzonti imprevedibili. È questo, secondo Feliciotti, l’aspetto che accomuna la poesia «e ciò che nell’inconscio resiste all’interpretazione, il Reale»: «in quel punto entra il vento», cioè la vita presente.

Feliciotti sottolinea l’insufficienza dell’approccio freudiano alla creazione artistica, e in particolare il limite di considerarla come qualcosa di riconducibile al solo inconscio, come l’esibizione di un nonsense che andrebbe tradotto, attraverso l’interpretazione, in enunciati comprensibili. Tale presupposto è limitante, perché leggere dei versi come se fossero enigmi inconsci non rende ragione del fatto che i poeti «arrivano sempre per primi nel luogo dove la psicoanalisi fa le sue ‘scoperte’. Che è luogo d’origine non già della significazione più o meno edipica, ma piuttosto del senso e cioè del tempo della creazione del soggetto». Con l’opera d’arte si è situati in un altro tempo, in un tempo che «ricomincia» e il soggetto è chiamato nel punto d’origine dell’atto creativo, cioè dell’azione umana in quanto tale. Leggere dei versi o guardare un quadro è una attività che implica la ripetizione dell’azione dell’autore in una rappresentazione che è anche una ri-presentazione, vale a dire la trascrizione «nell’unità di tempo» del gesto creatore.

Se consideriamo l’opera d’arte come l’esito di una «proiezione fantasmatica inconscia» finiamo per fare astrazione dall’»atto creativo e dall’opera come oggetto concreto». La psicoanalisi, scrive Feliciotti, «non è un’ermeneutica ma la logica stessa dell’azione», il senso ne è il tempo: del soggetto che la compie, artista o fruitore. L’arte è il luogo d’elezione per la generazione di un senso inedito non per essere interpretato traducendolo in significazione cosciente; al contrario, per andare «dalla significazione all’atto che la sostiene». La poesia è il rovescio del sogno, ma per comprenderlo bisognerebbe avere un concetto di inconscio che vada al di là della combinatoria significante. Esiste un punto di convergenza tra l’azione umana, il significato e l’atto di creazione inconscia.

Il sogno sottrae il soggetto e il sonno alla percezione di una realtà sgradevole e puramente percettiva. Si incarica di interporre la difesa della struttura simbolica, che è l’Altro, «cioè l’apparato del linguaggio». Si situa tra dimensione percettiva e coscienziale, tale che «neppure nel sonno la dimensione significante viene meno». L’indicibile, il territorio inaccessibile al linguaggio è la sfera del nostro essere e delle nostre pulsioni, esprimibili solo attraverso un atto. La vita è fatta di atti, non di parole, «l’atto è al di là del significante perché supera sempre tutte le ragioni, le valutazioni, i calcoli che lo preparano».

Il linguaggio poetico è statutariamente trasgressivo. Nel sogno la potenza è codificata dall’Altro e non dal soggetto, e in una lingua estranea. Scrive Feliciotti che questa configurazione paradossale «indica la posizione del soggetto sul limite del significante, perché in fondo si parla sempre nella lingua dell’Altro»: precarietà ed estraneità si mescolano a una situazione che comunque ci appartiene.

Il «testimone non è tanto chi rivisita il passato», perché la testimonianza include anche la componente del non detto. Il testimone istituisce il posto della verità e restituisce un senso alle azioni umane. E lo specifico dell’uomo «è in questo essere-tra-due, tra enunciato ed enunciazione, che è lo spazio precario e sempre presente della lettera». La poesia non è traduzione del significato inconscio, ma è vero il contrario, «è l’inconscio che funziona come l’atto di creazione poetica».

La psicoanalisi si occupa del soggetto sociale come anche del soggetto lirico, non del soggetto psicologico. Psicoanalisi e poesia si svolgono in una considerazione speciale di una parola non menzognera. La vita comporta qualcosa al di là della pura finzione, «un rapporto con la seconda morte», di tutto ciò che siamo e che ci rappresenta, valori, credenze. E la parola ha più valore dell’esistenza stessa. In tal senso in relazione a Remo Pagnanelli si parla di presente indicativo.

Come diceva Heidegger, l’esistenza anonima che rinuncia a prendere la parola è inautentica. Tale presente, secondo Feliciotti, costituisce la valenza cronologica-logica del soggetto etico, il soggetto della parola. Rapportarsi alle forme letterarie è inoltrarsi verso le origini del senso, che muove il poeta dal «luogo originario del silenzio», da cui poesia e psicoanalisi traggono origine. È origine il silenzio, «il tempo dell’evento che è tale proprio perché è atto e non linguaggio», atto che origina il linguaggio e riflessione verso l’origine, verso la non-parola. Poesia e psicoanalisi dunque sottraggono la voce al silenzio, eludendo gli automatismi della rimozione. Il sogno, analogamente alla poesia, mette in scena metafore e metonimie, ma soprattutto chiama in causa il tempo del soggetto, «lo confronta con il Reale dove non c’è più parola». Il poeta, diversamente che nel sogno, si scontra con la realtà attraverso una cancellazione di sé e travalica la sfera dell’inconscio per un itinerario inverso, «nel punto logico dell’origine del soggetto»: «in quel punto entra il vento», scriveva Remo. Dallo sprofondamento nel proprio abisso alla vita, traendo dalla presunta mancanza di senso una parola nuova, una parola altra.

Nessuna ricaduta nell’idealismo, ma l’esibizione di un segno concreto che non si incarica di tradurre alcun contenuto inconscio: un segno che indica, suggerisce, allude, traumatizza, riannodando «il simbolico, l’immaginario e il reale». Oltrepassata «la tirannia del significante» attraverso una parola nuova il poeta va oltre ogni mistificazione nella misura in cui codifica la propria opera poetica attraverso il proprio stile, un’opera che quanto meglio riesce tanto più disdice l’abbonamento all’inconscio, visto che c’è di sicuro più inconscio in una cattiva poesia che in una buona. Fare poesia non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’inconscio, il quale, d’altro canto, «si crea e si riattualizza nell’atto di scrivere o di leggere».

L’uomo deve riferirsi alla realtà con l’unico strumento che possiede e lo strumento linguistico essenzialmente diverge dalla realtà «quanto più pretende di aderirvi», diceva pressappoco Proust. La parola non coincide con la cosa, la snatura, «ma nel suo compiersi l’atto di parola può ( […]) risarcire il soggetto di questa perdita, farlo essere grazie a ciò che non si può dire». E ciò che non si può dire si può comunque elaborare, fino a farlo significare.

Pagnanelli è riuscito a presentificare il presente, il male di vivere. Tale presente non è il sintomo di Remo Pagnanelli, dice Feliciotti, quanto la maniera attraverso la quale «l’autore riscatta la precarietà del vivere e si sostiene al di là del sintomo psicopatologicamente inteso. Non lo risolve ma lo trasforma». I versi di Remo Pagnanelli non necessitano di interpretazione analitica «perché il poeta è già interpretato» dai versi stessi. La ricorsività, nella poesia di Remo, del tempo presente è segno della manchevolezza del presente: è la presenza mancante, non l’assenza, che muove il poeta. La vita non trascorre alla ricerca di un senso, anzi le azioni quotidiane ci distraggono dalla ricerca di un senso nelle cose. «È un vivere nel presente», dice Feliciotti, anche senza preoccuparsi «del Reale che il presente presentifica», è anche alienarsi indugiando nella cura inautentica, prendersi cura dell’hic et nunc, intrattenersi con l’effimero.

Scrive infine Feliciotti che non è possibile all’individuo defilarsi «da questa sopportabilità del presente. Che è sempre senza speranza, proprio come deve essere il presente della vita». E tale coscienza dell’impossibilità di una svolta spirituale pare legittimamente ricollegarsi a quanto Pagnanelli scriveva sulla poesia italiana dopo la neoavanguardia, una poesia, malgrado tutto, non rassegnata alla morte, che resiste all’idea dell’estinzione senza l’esibizione di soluzioni disperate, che si intrattiene in una condizione invernale, permane e dialoga, testimone non immemore, «con e sulla precarietà assoluta». Come scrive Maria Lenti, «tutto affidato all’uomo, nonostante la sua orfanità, o forse proprio a causa di essa, nella sospensione di un senso del vivere affidati ad un rovello che chiede una voce di rimando.»

Scrivere, dunque, quel che c’è da scrivere, ogni parola scritta è una parola strappata alla morte, e nel contempo la esorcizza proprio perché la prefigura con la sua fissità, e la rende in qualche modo pensabile, concepibile, accetta nella sua possibilità essenziale e inesorabile.

Elisabetta Brizio
maggio 2009


Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato a Macerata nel 1955, dove è morto nel 1987.

In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni (Scheiwiller, Milano 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Di Mambro, Latina 1985), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste («Alfabeta», «Otto/Novecento», «Letteratura Italiana Contemporanea», e altre), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Mursia, Milano 1991) e postumo Fortini (Transeuropa, Ancona 1988). Alcuni scritti sull’estetica e le poetiche sono stati raccolti nel volume a cura di Amedeo Anelli Scritti sull’Arte (Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007).

Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forum, Forlì 1981 e Musica da Viaggio, Olmi, Macerata 1984), due raccolte, Atelier d’inverno (Accademia Montelliana, Treviso 1985), e, postumi, Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, Montebelluna 1988) ed Epigrammi dell’inconsistenza (Stamperia dell’Arancio, Grottammare 1992). Il tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (il lavoro editoriale, Ancona 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale «Poesia Aperta» Milano (1990).

Il suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi sono confluiti presso l’Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze. La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della frontiera, come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni, che lo separava dalla utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci con la loro immagine di metabolizzare l’eternità.

La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l’estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d’avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non avesse la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai “dilettanti allo sbaraglio “. E proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole, ” pedagogica”, Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell’anima e della società.