In provincia
di
Matilde Serao
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Quelle due famiglie rivali rifacevano in miniatura le discordie dei Capuleti e dei Montecchi: solo, avuto riguardo alla civiltà dei tempi, invece di sparger sangue, spendevano e spandevano denaro. In cambio di morti vi erano stati processi molti, lunghissimi ed intrigati; litigavano per dispetto, per ripicco, per rabbia; litigavano con quella cocciuta voluttà processuale che è una delle gioie della provincia. Come al solito si trattava di scioccherie: un filo d’acqua che prendeva cattiva direzione, una turbolenta capra che era saltata dal campo dell’uno in quello dell’altro, alcune oscure e stupide patate che sotterra, distendendosi, avevano annullato il confine. Su questo pioveva la carta bollata, gli uscieri si affaticavano a scrivere con quel loro stile, ultimo ricordo delle invasioni barbare, le sentenze si moltiplicavano, i processi si complicavano, i due avvocati si fregavano le mani per la gioia, e dall’aspetto che pigliavano le cose, erano sicuri di trasmettere, come preziose eredità, quelle liti ai loro figliuoli. Come era stata causata quella inimicizia fra i Pasquali e ì Dericca non si poteva sapere chiaramente; da una parte e dall’altra vi erano affermazioni varie: soltanto era una inimicizia profonda e dichiarata. Essendo vicini di casa in città, vicini di terra in campagna, si incontravano spesso, guardandosi in cagnesco; le donne sentivano la messa in due chiese diverse; se le fanciulle Dericca portavano abiti azzurri, le Pasquali inalberavano subito il rosa; al Consiglio municipale i Pasquali erano sempre conservatori ed i Dericca naturalmente, sempre progressisti; quello che l’uno faceva, l’altro non avrebbe fatto per mille scudi; dove l’uno andava, l’altro non compariva. E poi pettegolezzi, maldicenze, mormorii, avidità di scandali, malignità; insomma quel corredo di piacevolezze che succedono in provincia fra due famiglie rivali. Su questo Carlo, primogenito dei Pasquali e Maria secondogenita dei Dericca, pensarono bene d’innamorarsi.
Gli amori delle piccole città non hanno molta varietà; per lo più sono relazioni che cominciano con l’infanzia, seguitano nelle partite di mosca cieca, e manifestano solidamente nei ballonzoli famigliari, continuano nel giuoco della tombola e si completano sempre davanti al parroco e al sindaco. Sono amori risaputi, sorvegliati, stabiliti, registrati nelle entrate e nelle uscite della casa, protetti dai nonni brontoloni, dagli zii preti; conosciuti da tutta la città; amori senza nervi, senza lagrime, senza tenerumi, senza fantasticherie: qualche cosa di molto calmo, di molto lento, la cristallizzazione dell’amore. Ma Carlo Pasquali aveva avuto l’incomparabile fortuna di passare, in una volta, quindici giorni a Napoli, il che gli faceva guardar con disprezzo gli usi provinciali; ma Maria Dericca, la notte, ad un lumicino fioco, aveva pianto sulle sventurate eroine del Mastriani e le aveva invidiate nelle loro fantastiche passioni; quindi per quei due ci voleva un amore eccezionale. Fu prima uno sguardo furtivo, una paroletta mormorata pianissimo, eppure intesa con singolare percezione, da colei che doveva udirla, un garofano caduto da un balcone, per colpa sicuramente del vento, un subitaneo pallore di lui, un subitaneo rossore di lei; poi coll’intervento armato di un ferro da stirare di una biricchina quindicenne che andava a stirare da Maria, un bigliettino, una breve risposta; una letterina, una letterona, ed infine dei volumi di otto o dieci foglietti che segnano il più alto punto della follia amorosa.
Ahimè! furono brevi le gioie dei due giovanotti e rapidissimo giunse il dolore a dileguarle. Furono visti, spiati, le novelle giunsero ai relativi papà e tutti i fulmini delle ire paterne, inasprite da undici processi, caddero sulla testa dei poveri amanti. Si chiusero i balconi, fu messo il catenaccio alla porta del terrazzo, si contarono i garofani sulla pianta, le passeggiate furono proibite, o almeno fatte senza annunzio, l’ora della messa fu cambiata ogni domenica – ma quei due continuarono ad amarsi. I rabbuffi, le prediche, le proibizioni, le difficoltà, non valsero che ad infiammare il loro amore: la notte, nell’inverno, Maria si alzava, si vestiva, si avvolgeva in uno scialle, con le pianelle, rattenendo il fiato, tremante dalla paura, scendeva le scale, ad un finestrino del primo piano; l’amichetto era nella strada, addossato alla muraglia. Così conversavano per due o tre ore, senza curarsi del freddo, della pioggia e del sonno perduto; conversavano senza vedersi, a cinque metri di altezza, tacendo ad ogni rumore di passante, riprendendo cautamente il discorso col timore continuo che i parenti di Maria si alzassero e la ritrovassero in quel colloquio aereo. Ma che importava loro tutto questo? Avevano nel cuore la luce, il sole, la primavera, il coraggio, l’entusiasmo; venisse pure il re, non si sarebbero mossi. Invece il fratello di Maria, una notte che non poteva dormire si alzò di letto e trovò la porta socchiusa, scese per le scale, udì un mormorio e colse la sorella sul fatto: poco complimentoso sbarrò le imposte sul viso a Carlo, dette uno schiaffo sonoro a Maria e se la riportò in casa. Dal mattino fu murata la finestruola del primo piano, malgrado la scala ne rimanesse un poco oscura.
O voi, fedelissimi amanti che vi desolate nelle pene di un amor contrastato, immaginate la disperazione di quei due! Le loro lettere non si potevano più leggere, perchè le lagrime cancellavano le parole; filze di punti ammirativi da sembrare soldati prussiani sotto le armi, seguivano le diuturne imprecazioni alla sorte, al destino, al fato e ad altri esseri impersonali che non potevano risentirsi; mille progetti fantastici erano creati, discussi e poi rigettati. Carlo avrebbe voluto fuggire con Maria, ma suo padre non gli lasciava danaro e sarebbe stato difficile riunire le nove lire e cinquanta per un viaggio in due sino a Napoli; pensarono per un momento al suicidio, ma trovarono che non risolveva le difficoltà. Poi a lungo andare il loro amore divenne sistematico, le imprecazioni furono sempre le medesime ed essi non potevano andare a letto senza aver versato sulla fedele carta, la piena del loro dolore. Nel paese non si parlava che del loro incrollabile amore e dei loro tormenti; erano l’oggetto dell’interesse generale; se giungeva un napoletano lo conducevano a veder le rovine dell’anfiteatro e gli narravano il caso di Carlo e Maria. Quindi i due giovanotti, carezzati nel loro amor proprio, si atteggiavano ad un contegno di circostanza, Maria era pallida sempre, con un’aria malinconica, non sorridendo mai, parlando sempre alle amiche dei suoi giorni senza gioia, rifiutando di divertirsi, contenta di somigliare tal quale ad una eroina del Mastriani. Carlo andava a fare certe passeggiate solitarie, era sempre di pessimo umore, ai balli non si muoveva mai da un angoluccio, contento che intorno ad esso si mormorasse: Povero giovine, quell’amore sfortunato gli rattrista la vita! Nei circoli, nelle festicciole, nelle visite, con la monotonia instancabile della provincia, ritornava sempre il discorso dei due amanti, e chi avesse qualche notizia fresca su loro era accolto a braccia aperte: Carlo e Maria portavano dignitosamente il peso della loro popolarità.
Infine, non so dopo quanti anni, quattro o cinque, mi sembra, di questa lotta continua, di questi pianti quotidiani, di questo amore allungato, allungato, mantenuto vivo dai dissidi, le cose cangiarono di aspetto. Vi fu una brava persona, – ve ne sono ancora – che con molti sforzi di loquela, persuase i genitori che ai processi ci si rimetteva del proprio e molto, testimoni i due avvocati che si erano arricchiti alle spalle dei clienti; che quei due giovanetti si struggevano ed avrebbero dato nel mal sottile per quell’amore contrariato; le case era daccanto; daccanto i possedimenti; Cristo aveva perdonato, perdonassero anch’essi, se voleano trovare perdono: tante ne disse, tante altre persone mosse dall’esempio, si interposero, che le questioni vennero ad una transazione, la quale aveva per primo capitolo: il matrimonio di Carlo con Maria.
Qui certamente tutti supporranno che i giovanotti furono consolatissimi e supporranno il vero: ma il mio obbligo di novellatrice sincera, mi costringe a dire che nel loro primo colloquio libero regnò un grande imbarazzo. Si erano abituati a vedersi di lontano, alla sfuggita; di parlarsi da un primo piano alla strada, nella oscurità, falsando o smorzando la voce: si trovarono molto diversi, forse un po’ ridicoli; non avevano argomenti di discorsi, tacevano spesso, affrettando col pensiero l’ora che dovevano lasciarsi. Non vi erano più imprecazioni e lagrime da mescolare con l’inchiostro; non si scrissero più. Tutto era libero, piano, facile pel loro affetto: non dovevano pensare alle sottigliezze per ingannare la vigilanza dei vecchi, non avevano più nessun gusto al mormorarsi qualche parola in segreto, non facevano più progetti ardimentosi per l’avvenire. Si sarebbero sposati prosaicamente, senza ostacoli, come tante altre coppie sciocche. Quei del paese non badavano più a loro: passata la meraviglia ed i commenti sul matrimonio, Carlo e Maria non destarono più l’attenzione, non si parlò più di essi, non si notò più il loro contegno; cessarono di essere additati come esempio di fedeltà. Adesso si portavano gli occhi sulla moglie del pretore che era accusata di avere una simpatia criminale per il sostituto procuratore del re: caso gravissimo. I due amanti si sentirono abbandonati, una grande freddezza nacque fra loro. Carlo trovava che le virtù della sua fidanzata, quella virtù che rifulgevano nelle lettere, si appannavano nella casa; Maria pensava spesso che Carlo era un poco triviale nei suoi gusti e che finire con un matrimonio stupido, un amore così tempestoso, era indegno di una lettrice del Mastriani. Vi fu fra loro qualche paroletta vivace sulle illusioni smentite dalla realtà, sui miraggi, sugli inganni ottici ed altre punzecchiature simili; venne una questione, poi due, poi divennero giornaliere. Una sera Maria disse con voce irritata:
— Carlo, lasciamo stare.
— Lasciamo pure, – rispose lui senza esitare.
Ed il giorno seguente partì per un viaggio d’istruzione; Maria andò a Napoli, presso una sua cugina, per pescarvi un marito eroico. Le famiglie si ruppero di nuovo: il padre di Maria aprì una finestra che dava nel cortile del suo vicino; costui per molestarlo fabbricò un colombaio, i cui colombi scorrazzavano dappertutto; subito una citazione, una seconda, una terza, i processi ricominciarono, e questa volta, dicevano gli avvocati sorridendo, senza speranza di transazione.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: In provincia
AUTORE: Matilde Serao
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La moglie di un grand'uomo, ed altre novelle scelte dall’autrice / Matilde Serao - Milano : R. Quintieri, 1919 (Tip. Agraria) - 218 p. ; 20 cm
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)
FIC004000 FICTION / Classici