Il vicario di Wakefield fu pubblicato nel 1766, ma l’autore lo aveva quasi certamente terminato nel 1762, quando egli era ancora del tutto sconosciuto al pubblico, non aveva ancora mai firmato i suoi lavori. L’intellettuale Samuel Johnson (1709-1784), che già dal 1761 gli era divenuto amico e che, conoscendo le sue gravi difficoltà economiche, cercava di aiutarlo in ogni modo, lo trovò sul punto di essere arrestato dalla sua padrona di casa che reclamava l’affitto. Johnson chiese all’amico se avesse pronto qualche manoscritto da vendere. Goldsmith si ritrovò tra le carte The Vicar of Wakefield. Johnson intuì immediatamente il valore del romanzo, si recò dal libraio, scrittore ed editore John Newbery (1713-1767), presso il quale Goldsmith era impiegato, e gli vendette il manoscritto per sessanta ghinee. Ma la storia del buon Vicario rimase inedita per quattro anni: Newbery non era convito del valore dell’opera tanto da venderne una quota a un libraio di Salisbury.

Nel 1765 (pubblicazione del 19 dicembre 1764) Newbery editò il poema The Traveller, or A Prospect of Society, la prima opera firmata da Goldsmith e che ebbe grande successo. Sull’onda della popolarità di The Traveller, finalmente l’editore si decise a dare alle stampe The Vicar of Wakefield. Dopo un’iniziale tiepida accoglienza da parte della critica e del pubblico, il romanzo in breve tempo – la prima edizione è del 27 marzo 1766; a fine maggio fu fatta la prima ristampa e ad agosto una seconda – ottenne un posto speciale nella letteratura inglese, fino ad essere, in età vittoriana, tradotto in una dozzina di lingue ed i suoi personaggi entrarono a far parte del canone letterario non solo inglese, conquistandosi il favore di lettrici e lettori di ogni età e di ogni paese.

Goldsmith, nel romanzo, dedica un affettuoso cammeo al suo editore:

«Languii lì per quasi tre settimane: alla fine la mia costituzione vinse la malattia sebbene fossi sprovvisto di denaro per pagare le spese del mantenimento. Forse la sola ansietà di quest’ultima circostanza sarebbe bastata a farmi capitar una ricaduta se io non fossi stato soccorso da un viaggiatore che s’era fermato a prendere in fretta di che rinfrescarsi. Costui non era altri che il filantropico libraio del Chiostro di S. Paolo, quello che ha scritto tanti librettini per bambini e si vantava d’essere il loro amico; ma era l’amico di tutto il genere umano.»

Nell’opera si narrano le vicende, ora drammatiche ora felici, ma sempre intricatissime, di Charles Primrose, un buon pastore protestante di campagna del XVIII secolo, e della sua numerosa famiglia. Da molti critici il romanzo fu accostato al Libro di Giobbe contenuto nella Bibbia. Nella descrizione della famiglia Primrose si possono ravvisare i tratti della famiglia dello scrittore a partire dal padre Charles Goldsmith, “con la sua dotta semplicità, la sua ingenua saggezza, la sua amabile devozione e la totale ignoranza del mondo”, come ha scritto W. Irving nella sua biografia di Goldsmith. Il dottor Primrose ha una consorte, Deborah Primrose, devota ma determinata ad ottenere per le figliuole matrimoni prestigiosi, e sei figli: George, il maggiore, sul quale la famiglia conta per avere aiuto; Olivia e Sophia, due graziose ragazze in età da marito; Moses, un ragazzo studioso e sicuro di sé; Dick e Bill, i due cuccioli della famiglia. I Primrose divengono presto amici del misterioso sig. Burchell, figura fondamentale in tutta la storia. Tra una disavventura e l’altra, rifulgono le virtù del buon vicario, paziente, generoso, retto e giusto, ma anche umano, credulone ed ironico. Le avventure sono anche occasione per il dottor Primrose / Goldsmith di far conoscere le sue opinioni in campo letterario, politico, sull’amministrazione della giustizia carceraria, …

Il romanzo contiene varie ballate, che ebbero anche vita autonoma, come L’eremita – all’epoca della pubblicazione de The Vicar of Wakefield qualche critico suppose che questa ballata ricordasse molto da vicino le strofe cantate da Ofelia nell’Amleto, ispirate da una ballata ben conosciuta ai tempi di Shakespeare – e L’elegia per la morte di un cane arrabbiato. La sera in famiglia con qualche vicino, per fare allegria e passare il tempo, si usava prendere in mano una chitarra e accompagnare il canto di una ballata. A volte si trattava di testi allegri, altre volte tristi. Nel romanzo del 1925 The Painted Veil (Il velo dipinto) di W. Somerset Maugham (1874-1965), l’ultimo verso del poema An Elegy on the Death of a Mad Dog è citato in punto di morte da Walter Fane, uno dei protagonisti del romanzo. The Vicar of Wakefield viene citato, sempre con grande entusiasmo ed affetto, da Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) ne I dolori del giovane Werther, da Jane Austen (1775-1817), da Stendhal (1783-1842), da Arthur Schopenhauer (1788-1860), da Mary Shelley (1797-1851) in Frankenstein, da Charles Dickens (1812-1870), da Charlotte Brontë (1816-1855), da George Eliot (1819-1880) nel suo Middlemarch, in Piccole donne di Louisa May Alcott (1832-1888) ed altre ed altri ancora. Goethe dichiarò che la lettura de The Vicar of Wakefield aveva fatto parte della sua educazione, influenzando il suo gusto e i suoi sentimenti per tutta la vita. Alcott in Piccole donne (presente qui in Liber Liber) fa dire a Jo:

«Allora è incominciata una lunga ramanzina sui miei peccati e, per finire, essa [la zia March] mi ha detto di stare lì ferma e pentirmi mentre lei si perdeva un momento. Per fortuna, quando si perde, non si ritrova così facilmente, perciò, appena la sua scuffia ha incominciato a dondolare, ho tirato fuori dalla tasca Il Vicario di Wakefield e mi sono messa a leggere a più non posso con un occhio sul libro ed uno sulla zia. Ero arrivata per l’appunto là dove cascano tutti insieme nell’acqua, quando mi sono dimenticata della zia ed ho riso forte! La zia si sveglia e, per mia fortuna, di un umore più umano dopo il pisolino; mi ordina di leggere il libro che avevo in mano per vedere quale frivola ed insipida lettura preferivo a quell’interessante ed istruttivo Belsham. Naturalmente non me lo son fatto dir due volte e lei ci ha preso gusto…»

Pervadono l’opera un candido ottimismo, un’incrollabile speranza in un sereno futuro, di pura matrice cristiana, che nulla tolgono al climax sempre più intenso della vicenda, narrata con il più impeccabile svolgimento e dove la conclusione non è scontata. L’atmosfera, tipica del feudalesimo inglese, ricorda pagine e situazioni della Pamela, or Virtue Rewarded (1740, Pamela, o la virtù ricompensata), il famoso romanzo epistolare di Samuel Richardson (1689-1761), dove le classi sociali sono ben separate, è chiara l’assegnazione dei ruoli, la rapacità degli aristocratici è continua fonte di incertezza e precarietà nei più deboli. I nobili, i signori locali, grandi latifondisti, a quel tempo potevano violare la giustizia – e le fanciulle di classe inferiore –, subornare testimoni, intimidire i poveri e calpestare gli umili. E il resto della società non poteva che accettare passivamente. Per cambiare le sorti poteva solo intervenire un uomo di classe sociale elevata con istinti generosi pronto a riversare bontà e generosità, del tutto inattese, sugli inferiori.

La descrizione assai affettuosa delle gioie familiari nella calda intimità della vita domestica può essere attribuita alla nostalgia forse a volte germogliata nel cuore di Goldsmith, che partì giovane dalla sua Irlanda e dalla sua famiglia per non tornarvi mai più e che si trovò sempre a vivere una vita da precario, quasi da vagabondo. E val la pena di segnalare come le dolcezze del matrimonio decantate dal buon Vicario – convinto assertore del ‘monogamismo’ – sono narrate da uno scapolo così come le delicate descrizioni della bellezza e della fragilità femminile venivano da persona che nei fatti passava per essere un cinico denigratore del sesso.

Ne Il vicario di Wakefield compare il sorriso sereno che il vicario, agricoltore e padre di famiglia riversa su tutte le cose, sulle disgrazie, sui momenti felici, sulle debolezze umane, sulla minuta vanità delle donne di casa ed anche su sé stesso. Non si tratta di resilienza: quella del vicario è proprio purissima bontà d’animo e fede incrollabile nella giustizia divina. Il libro è stato ed è molto amato perché sprigiona bonarietà ma contiene anche una forte denuncia sociale: Goldsmith riesce a creare questo mix di romanticismo, buoni sentimenti, accusa dello stato della società come pochi scrittori sono riusciti a fare, senza essere sdolcinato o noioso o lezioso o austero, ma solo con tanto humour e tanta umanità.

Buonissima lettura!

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS

Dall’incipit del libro:

Sono sempre stato dell’opinione che l’uomo onesto, il quale si sia sposato, ed abbia tirato su una numerosa famiglia, abbia dato assai piú di uno che sia vissuto da scapolo, e si sia contentato soltanto di parlare del ripopolamento. Movendo da questa idea, non avevo preso gli ordini sacri che da un anno appena, quando cominciai a pensare seriamente al matrimonio e mi scelsi la moglie, come essa si scelse la veste nuziale, non per la bella apparenza ma per le qualità che assicuravano una felice riuscita. A renderle giustizia, era una donna non comune e d’indole buona; e quanto a educazione erano poche le signore, non cittadine, che ne potessero mostrare di piú. Poteva anche leggere qualsiasi libro inglese, abbastanza correntemente; ma nel far salse e conserve e nell’arte di cucinare, non la poteva superare nessuno. Si vantava anche di essere una economa eccellente, come massaia; per quanto io non abbia mai potuto accorgermi che con quelle sue economie noi si diventasse piú ricchi.

Scarica gratis: Il vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith.