Il vampiro della foresta
di
Emilio Salgari
– circa 14 min. di lettura –
Le foreste dell’America meridionale, sotto certi aspetti, sono ben più pericolose di quelle africane, quantunque anche queste siano popolate da un gran numero di fiere, avide specialmente di carne umana.
L’uomo che le percorre, ad ogni istante si trova in procinto di lasciarvi la vita, perché non le sole belve lo insidiano, ma ben anche certi volatili pericolosissimi; perfino anche certe piante sotto la cui ombra non può sdraiarsi senza correre la triste sorte d’addormentarsi per sempre.
Nel 1886, nell’Uraguay, vi era stato un certo risveglio fra i numerosi coloni sbarcati dall’Europa. Essendosi sparsa la voce che s’erano scoperti, nelle folte foreste bagnate dal Tocantin, dei filoni d’oro, numerosi emigranti avevano lasciato le borgate per cercare una più rapida fortuna e tornarsene in patria poi con la cintura riboccante di pepite gialle.
Fra i primi a slanciarsi fra quelle foreste vergini, forse mai prima attraversate da alcun Europeo, vi erano i fratelli Puraco, due bravi giovani di poco più di venticinque anni, pieni di audacia e di coraggio, che avevano lasciato, non senza rimpianti, la loro Sicilia per cercare fortuna nel Nuovo Mondo.
Entrambi avevano già lavorato nelle miniere d’argento della Plata, ed essendo pratici negli scavi, contavano di arricchire rapidamente per tornarsene poi, altrettanto rapidamente, nella natia isola.
Provvedutisi d’un mulo, d’armi e di provviste per un mese, Giovanni e Marco, pieni di speranze, lasciavano Santa Rosa de Dilen, risalendo la riva destra dell’Uraguay.
Dopo quindici giorni di marcia faticosissima, giungevano senza aver fatto cattivi incontri sul margine di quelle immense foreste, che si diceva nascondessero oro.
Era un vero mare di vegetali. Alberi immensi si chinavano uno accanto all’altro, collegati da immense liane e da piante rampicanti, in mezzo alle quali stavano stormi di pappagalli verdi e rossi e s’agitavano, facendo mille smorfie, delle piccole scimmie magrissime, con le braccia lunghe quasi quanto le gambe e che perciò vengono chiamate scimmie-ragno.
I due emigranti, nel trovarsi dinanzi a quella selva gigantesca, s’erano fermati in preda ad un’impressione profonda.
Si sentivano spaventati nel trovarsi così soli, a tanta distanza dal più piccolo centro abitato, e si stupivano di aver avuto tanto coraggio da spingersi fino a quel luogo.
La speranza però di trovare in breve qualche ricchissimo filone d’oro, rese loro l’audacia e s’inoltrarono nella cupa foresta per trovare un luogo acconcio dove costruire una capanna ed accamparsi.
Dopo lungo e faticoso cammino attraverso a quei folti vegetali ed a radici immense, che erano costretti a recidere per poter fare avanzare il mulo, giungevano in una radura, circondata da superbi alberi di cocco e da banani già carichi di frutta.
«Fermiamoci qui», disse Marco. «Mi sembra che questo luogo sia propizio e forse questo suolo nasconde l’oro che cerchiamo».
Un silenzio profondo regnava in quella radura, la quale pareva che fosse sfuggita da tutti gli animali e dai volatili della foresta.
Prima cura dei minatori fu quella di costruirsi un ricovero, cosa facilissima, avendo materiali in abbondanza, quindi di dissodare un pezzo di terra per seminare del grano e del maïs, per non esporsi al pericolo di morire di fame.
Avevano appena terminato quel lavoro e si preparavano a fare dei saggi nel terreno per accertarsi se vi erano in quel luogo filoni d’oro, quando videro comparire sul margine della foresta un Indiano di statura gigantesca, col viso dipinto in rosso e nero, le sopracciglia in azzurro e le labbra traforate per modo da poter reggere due zanne di cinghiale.
Nella destra teneva una specie di canna lunga circa due metri e nella sinistra un fascio di frecce.
Vedendo quel brutto selvaggio, Marco e Giovanni avevano interrotto i loro lavori per afferrare i loro fucili, perché in quella specie di canna avevano riconosciuto una delle più terribili armi degl’Indiani dell’America del Sud e che, soffiandovi dentro, lanciano frecce avvelenate nel succo del curaro.
«Che cosa fanno qui gli uomini bianchi?», chiese l’Indiano con accento terribile. «Ignorano essi che questo è il territorio degli uomini rossi?».
«Chi siete voi?», chiese Marco, che aveva ripreso coraggio e che comprendeva benissimo la lingua spagnuola parlata dal selvaggio.
«Io sono il Vampiro della foresta e se volessi, potrei farvi dissanguare questa notte».
«Allora, signor Vampiro», disse Marco, che temeva gl’Indiani meno di suo fratello, «è pregato di andarsene e di lasciarci lavorare tranquilli se non vuole provare le nostre armi».
«Voi non credete a quanto vi ho detto?», riprese l’Indiano, dardeggiando su di loro uno sguardo feroce.
«Alle tue smargiassate non credo affatto».
L’Indiano mandò un fischio e tosto dal folto d’un albero i due fratelli videro, con loro stupore, uscire un pipistrello enorme, dalle ali pelose e rossastre, e che andò ad appollaiarsi tranquillamente su una spalla del selvaggio.
«Ecco il volatile che dissanguerà gli uomini bianchi se essi non se ne andranno da queste terre che appartengono ai Patalos», gridò l’Indiano. «Ho detto».
Poi, senza attendere alcuna risposta, scomparve nella foresta senza nemmeno degnarsi di volgersi indietro.
Marco e Giovanni erano rimasti così sorpresi dall’improvviso arrivo di quello strano volatile, da non pensare nemmeno a far fuoco contro l’Indiano.
«Fratello», disse Marco che era il più giovane. «Che cosa ne dici di questa avventura?».
«Che quell’Indiano ha voluto spaventarci», rispose Giovanni. «Che razza d’animale era quel pipistrello?».
«Un vampiro addomesticato».
«Pericoloso?».
«Sì, Marco», disse Giovanni, il quale era diventato meditabondo. «Quei pipistrelli, che sono abbastanza numerosi in queste regioni, quando vedono un uomo o un animale addormentato gli piombano addosso, aprono nella pelle, delicatamente, un forellino e per mezzo d’una piccola tromba succhiano il sangue».
«E uccidono?».
«No, ma indeboliscono, e, continuando parecchie notti, possono anche ammazzare l’uomo o l’animale scelto per loro vittima».
«Che quell’indiano ci abbia seriamente minacciati?», chiese Marco, spaventato.
«Lasciamo l’Indiano ed il suo vampiro e occupiamoci di cercare la fortuna, che forse sta sotto i nostri piedi», rispose Giovanni.
Ripresero i loro lavori senza più pensare alla minaccia del terribile Vampiro dell’Uraguay.
Le loro ricerche ebbero subito buon esito. Dopo alcuni scavi trovarono un filone d’oro, che prometteva una rapida fortuna, e che veniva a confermare pienamente le voci corse circa le ricchezze favolose, nascoste sotto il suolo di quelle vergini foreste.
Avendo trovato a breve distanza un piccolo corso d’acqua, necessario per la lavatura delle sabbie aurifere, i due fratelli, ansiosi di conoscere la ricchezza di quella vena, si misero alacremente all’opera.
La prima produzione fu semplicemente favolosa, perché la sera i due minatori poterono valutare l’oro estratto a circa mezzo chilogrammo, equivalente a millecinquecento lire.
La fortuna era ormai assicurata. Se il filone non si esauriva, in pochi mesi i due minatori avrebbero potuto realizzare una somma ingente.
«Torneremo nella nostra Sicilia ricchi come Cresi», aveva detto Giovanni, guardando avidamente la polvere d’oro, raccolta nel piatto di stagno e che mandava bagliori fulvi.
«Sì, se non verranno a disturbarci», aveva soggiunto Marco.
«Chi vuoi che venga a contenderci questa fortuna? Non vi è un uomo bianco a quaranta miglia all’ingiro».
«E l’Indiano?».
«Se ne sarà andato all’inferno. Ha voluto farci paura e nulla più».
Quella sicurezza doveva avere una ben pronta smentita.
Dopo una frugale cena di lardo fritto e di pane, pasto ordinario dei cercatori d’oro, ed una pipata, i due fratelli si erano ritirati nella loro capanna, portando con sé il tesoretto, quando verso la mezzanotte Giovanni, che aveva il sonno leggiero, credette di udire al di fuori dei rumori.
Ritenendo che si trattasse di qualche giaguaro, animale pericolosissimo quanto una tigre indiana, alla quale già molto somiglia, non osò aprire la porta per accertarsene.
Dopo di essere stato qualche po’ sveglio, tenendo in mano il fucile, si ricoricò per riprendere il sonno interrotto.
Indovinate però quale non fu il suo terrore, quando alla mattina, svegliandosi, vide la camicia lorda di sangue e si sentì il viso incrostato pure di sangue coagulato.
In preda ad un profondo spavento si alzò per accostarsi al fratello, e subito ricadde. Un’estrema debolezza gli aveva reciso le forze che il giorno innanzi erano ancora tanto gagliarde.
«Il vampiro dell’Indiano!», esclamò. impallidendo. «Il miserabile selvaggio ha effettuato la sua atroce minaccia!».
Con uno sforzo supremo si trascinò verso Marco e lo trovò pure lordo di sangue. Da un forellino appena visibile, aperto un po’ sotto la tempia, ne uscivano ancora alcune gocce.
Scosse il disgraziato, costringendolo ad aprire gli occhi.
«Sei tu, Giovanni?». chiese Marco. «Ma… io sono bagnato….».
«E di sangue, fratello». rispose Giovanni.
«Chi mi ha ferito? E anche tu sei insanguinato! Fratello, chi ci ha ridotti in questo stato?»
«Il vampiro».
«Quel brutto animalaccio che portava l’Indiano?».
«Sì, Marco».
«Come ha fatto?».
«Approfittando del nostro sonno si è riempito del nostro sangue».
«Mi sento, in fatti, debolissimo», disse Marco. «Deve averne bevuto ben molto».
«Quei pipistrelli sono ingordi e non lasciano le loro vittime finché non sono pieni da scoppiare».
«E da quale parte si sarà introdotto?».
«Dal buco che serve di sfogo al fumo», disse Giovanni. «Non vi sono altre aperture.
Quell’Indiano me la pagherà».
«Che questa notte sia venuto qui?».
«Non ne dubito, fratello. Ho udito dei rumori sospetti; credevo che fosse qualche giaguaro, mentre invece era l’Indiano».
«Fratello, fuggiamo», disse Marco. «Se rimaniamo qui, il vampiro finirà per dissanguarci».
«Io penso, invece, di uccidere l’Indiano ed il suo vampiro», rispose Giovanni con accento risoluto.
«Questa notte noi gli tenderemo un agguato e se torna non rientrerà più mai nella sua foresta».
Andarono a lavarsi nel ruscello, ma si sentirono impotenti a riprendere il duro lavoro nella piccola miniera.
Decisero quindi di riposarsi almeno per quel giorno, certi di rimettersi ben presto con dei pasti abbondanti e con qualche sorsata di aguardiente, avendo portato con sé anche alcune bottiglie di quell’eccellente acquavite spagnuola.
Giovanni, però, che era meno debole del fratello e anche più risoluto, percorse i dintorni della capanna per vedere se vi si trovava nascosto l’Indiano e il pipistrello, senza riuscire a scoprire né uno, né l’altro.
Trovò, invece, le orme lasciate dai piedi nudi del selvaggio su uno strato pantanoso.
«Se ritorna», disse, «avrà la sua ricompensa».
Giunta la sera si ritirarono nella capanna e finsero di addormentarsi.
Erano trascorse alcune ore, quando Giovanni, come la notte precedente, avvertì dei leggieri rumori prodotti da alcuni rami che si agitavano.
«È l’Indiano», disse al fratello.
«Che sia invece qualche animale?», chiese Marco. «Tu sai che ve ne sono in queste foreste».
Giovanni si accostò ad un foro, che serviva da finestra, e che era stato mascherato con alcune foglie, e guardò fuori.
La luna, che brillava in tutto il suo splendore, permetteva di distinguere i più piccoli oggetti. Un uomo che avesse attraversato la radura non sarebbe sfuggito all’attenzione dei minatori.
Per alcuni minuti, Giovanni non vide nulla; udì invece un debole fischio, che partiva da un gruppo di foltissime palme.
Un momento dopo, vide uscire un bellissimo giaguaro sopra il quale svolazzava famigliarmente un vampiro, posandosi talora sul dorso della fiera.
«Che anche quella belva sia addomesticata?», si domandò il minatore. «Quell’Indiano dev’essere il diavolo in persona». Si volse verso il fratello, dicendogli:
«Ricorichiamoci e teniamo i fucili pronti; il vampiro sta per venire».
Si gettarono sui loro giacigli, composti di foglie secche, e stettero in ascolto, tenendo un dito sul grilletto dei fucili.
Pochi momenti dopo udirono verso il foro che serviva di sfogo al fumo, un leggiero starnazzare d’ali, poi un’ombra scese nella capanna.
Nell’istesso momento due spari rimbombarono ed il vampiro, crivellato dal piombo micidiale, cadeva esanime al suolo.
Nell’istesso momento un urlo feroce risonava al di fuori, accompagnato da una voce ben nota, la quale gridava:
«Se avete ucciso il vampiro vi farò mangiare dal mio giaguaro!».
«L’Indiano!», avevano esclamato ad una voce Giovanni e Marco.
Ricaricati prontamente i fucili, si slanciarono fuori, risoluti a finirla con quel briccone.
Quando però si trovarono all’aperto, l’Indiano ed il giaguaro erano scomparsi.
Gettarono alle formiche termiti il corpo puzzolente dello schifoso volatile e tornarono a ricoricarsi senza venire più disturbati.
Il domani, essendosi un po’ rimessi in forze e convinti che l’Indiano si fosse definitivamente allontanato, ripresero il lavoro, raccogliendo un altro mezzo chilogrammo di polvere d’oro.
Non osavano però più dormire tutti e due, per paura che l’Indiano approfittasse del loro sonno per ritornare e tentasse d’ucciderli.
E non ebbero torto a vegliare per turno, perché udirono il giaguaro brontolare parecchie volte attorno alla capanna.
Per parecchie notti di seguito la terribile fiera comparve, anzi una volta tentò perfino di forzare la porta.
I due minatori non potevano più godersi un’ora di sonno. A poco a poco l’ansietà si era fatta così viva in quei due disgraziati da non lasciarli riposare un momento.
Più volte Giovanni aveva tentato di sorprendere la belva e anche l’Indiano e sempre senza alcun risultato, perché appena la porta della capanna si apriva, il giaguaro, con un salto immenso, si rifugiava in mezzo agli alberi e l’Indiano si allontanava con una velocità vertiginosa.
Quel supplizio di nuovo genere, inventato dalla perfida e selvaggia fantasia dell’Indiano per costringerli ad andarsene, non poteva durare a lungo, essendoché i minatori si esaurivano in quelle continue ed angosciose veglie.
Un giorno Giovanni disse:
«O abbandoniamo la miniera o ci sbarazziamo di quel maledetto selvaggio».
Lasciare la vena d’oro che dava sempre maggiori profitti rincresceva ad entrambi. La loro fortuna era assicurata ed in un paio di mesi potevano considerarsi ricchissimi. Era meglio quindi tentare una lotta disperata con l’ostinato avversario.
«Tendiamo un agguato anche al giaguaro», disse Marco. «M’immagino che l’Indiano non avrà addomesticato tutte le belve della foresta».
«Sono pronto a farlo», rispose Giovanni.
«Come prepareremo questo agguato?».
«Fuori dalla capanna, nascondendoci fra i rami di qualche grosso albero. Ho veduto appunto un simaraba immenso che farà per noi».
«A questa sera, Giovanni».
«Sì, Marco».
Un’ora prima che tramontasse il sole sospesero i loro lavori, cenarono in fretta, poi fecero un giro attorno alla radura per assicurarsi che l’Indiano non era ancora giunto.
Caricate le armi, scalarono, aiutandosi con le liane, l’enorme albero e si nascosero in mezzo al fogliame, il quale era così folto da non permettere, fosse pure ad un selvaggio, di scorgere nulla.
La luna poco dopo si levò, illuminando la pianura.
Mille strani rumori si udivano sotto la foresta vergine. Ora era una salva di fischi acuti che pareva sfuggissero attraverso le valvole di centinaia di macchine a vapore, e che, invece, erano mandati da certe specie di ranocchie. Ora invece risonavano i muggiti assordanti delle parraneche, rospi grossi quanto la testa di un uomo.
Talora scoppiavano urli diabolici, strazianti: erano delle scimmie rosse che si divertivano a dare qualche strepitoso concerto notturno.
Giovanni e Marco, abituati a quei rumori, non ci badavano. Tutte le loro facoltà erano invece raccolte per sorprendere il ruggito del giaguaro.
Erano trascorse due ore, quando Giovanni s’accorse che i rami d’un cespuglio si agitavano.
«Marco», disse, «o il giaguaro o l’Indiano si avvicinano».
«Io sono pronto a riceverlo e tu sai che non sono un cattivo bersagliere».
«Conto appunto sulla precisione del tuo tiro. Odi le fronde moversi?».
«Sì e dalla parte dalla quale suole uscire il giaguaro».
«Non tarderà a mostrarsi, Marco».
Stettero immobili, trattenendo perfino il respiro e videro uscire lentamente il terribile felino.
Era una belva molto più piccola delle tigri, col pelame giallastro picchiettato di nero, con la testa simile a quella dei gatti.
Queste belve, che in America rappresentano la razza delle tigri, sono dotate d’una forza e d’una ferocia straordinarie.
Quantunque di piccola mole, osano affrontare i cacciatori con un coraggio disperato ed atterrano facilmente un bue, spezzandogli la spina dorsale con un solo colpo di artiglio.
Il giaguaro, che doveva essere stato ammaestrato dall’Indiano, si diresse con precauzione verso la capanna, battendosi i fianchi con la lunga coda inanellata e si mise a girare intorno, tastando le pareti.
Essendo troppo lontano e volendo anche attendere la comparsa del selvaggio, Marco e Giovanni rimasero immobili.
«Faremo fuoco più tardi», disse Giovanni. «Si accorgerà che noi non siamo nella capanna e forse verrà a ronzare da questa parte».
La belva continuò a girare presso la casuccia per qualche minuto, poi mandò un urlo rauco. A quella chiamata si vide aprirsi un cespuglio e comparire l’indiano.
Era armato della cerbottana e d’un coltellaccio, la cui lama splendeva ai raggi della luna.
Eccessivamente prudente, come sono tutti i suoi simili, non si avanzò che di qualche passo, per essere più pronto a slanciarsi nella foresta e come sempre scomparire.
Doveva essersi accorto che il giaguaro era diventato inquieto. La fiera non sentiva più l’odore della carne bianca e s’irritava, mandando dei sordi brontolii.
«Quella bestia manderà a male la nostra imboscata», disse Giovanni, sotto voce. «Se l’Indiano si accorge che noi non ci troviamo nella capanna sospetterà subito qualche novità e girerà al largo».
«E si tiene tanto lontano da noi da non permettermi di mandargli una palla con la certezza di colpirlo», disse Marco. «Aspettiamo, fratello».
L’Indiano ed il giaguaro pareva che corrispondessero fra di loro. Il primo mandava dei deboli fischi ed il secondo rispondeva con dei brontolii, i quali cambiavano sempre intonazione.
«Che s’intendano?», chiese Marco stupito.
«Sono entrambi figli della foresta», rispose Giovanni. «Forse si comprendono».
Il giaguaro, dopo qualche po’, s’accostò al suo padrone, piegando la testa contro le gambe di lui come se, invece di essere la più sanguinaria fiera dell’America meridionale, fosse un cagnolino; poi si allontanò quasi strisciando.
Questa volta non si dirigeva più verso la capanna, bensì verso l’albero sul quale stavano nascosti i due cacciatori.
L’Indiano si era messo a seguirlo lentamente, fermandosi ogni quattro o cinque passi.
«Prepariamoci», disse Giovanni. «Questa volta li teniamo tutti e due».
«Io miro il giaguaro», rispose Marco.
«Ed io l’Indiano».
La belva non era che a sessanta o settanta passi e l’Indiano forse a cento.
I due minatori mirarono attentamente per alcuni secondi, poi due spari ruppero il silenzio che regnava in quel momento nell’immensa foresta vergine.
Il giaguaro fece un capitombolo, mandando un ruggito di dolore e si distese sull’erba; l’Indiano era pure caduto al suolo, poi si era subito rialzato, fuggendo verso la foresta.
I due minatori in un momento si calarono a terra e si slanciarono dietro al fuggiasco, risoluti a finirla anche con lui.
Fu una corsa vana, perché non si vedeva, né si udiva più nulla.
Pareva che il Vampiro della foresta fosse scomparso sotto terra.
«Eppure tu devi averlo ferito», disse Marco.
«Sì, perché è caduto subito», rispose Giovanni. «Lasciamolo correre per ora; lo cercheremo domani».
Tornarono là dove il selvaggio era caduto e videro delle gocce di sangue sulla punta delle erbe.
«Ne avrà abbastanza», disse Giovanni. «Non oserà più ritornare».
Scuoiarono il giaguaro, desiderando conservare quella magnifica pelliccia, poi si rinchiusero nella capanna con la certezza di passare una notte tranquilla.
Nessuno, in fatti, disturbò il loro sonno.
Tre giorni dopo, mentre stavano inseguendo un pecari, che è una specie di cinghiale, molto più piccolo dei nostri e la cui carne sa di muschio, trovarono nella foresta uno scheletro perfettamente ripulito e subito lo riconobbero dal ciuffo di penne di pappagallo che era rimasto colà e dalla cerbottana che si trovava a due passi, appoggiata contro un albero.
Era quello dell’implacabile Vampiro della foresta.
Il selvaggio, ferito mortalmente dalla palla di Giovanni, era caduto in quel luogo e le formiche termiti lo avevano divorato, non lasciando intatte che le ossa.
Liberi ormai da quel pericoloso avversario, i due minatori ripresero i loro lavori con maggior energia, accumulando in un mese ben quaranta chilogrammi d’oro.
La loro fortuna era assicurata. Ritornarono verso il sud col loro tesoro, giungendo felicemente nel Paraguay, dove poco dopo s’imbarcavano per la loro lontana isola, portando, come ricordo di quella strana avventura, la pelle del giaguaro.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il vampiro della foresta
AUTORE: Salgari, Emilio
NOTE: La prima edizione di questo racconto (Biondo, Palermo, 1912) è firmata con lo pseudonimo Guido Altieri, che Salgari usò per alcuni anni per sfuggire ai vincoli contrattuali con l'editore Donath.
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Il vampiro della foresta / [Emilio Salgari. - Milano : Sonzogno, stampa 1935 (Milano : Matarelli). - 32 p. : ill. ; 18 cm.
SOGGETTO: JUV001000 FICTION PER RAGAZZI / Azione e Avventura / Generale