Il tesoro del rajah
di
H. G. Wells
tempo di lettura: 16 minuti
Sui pendii dell’Imalaia, fra Jehun e Bimabur, ƒfra l’immensa e tenebrosa jungla da una parte, ed i verdi altipiani dall’altra, governava il Rajah di non grande importanza del quale vi narrerò l’immenso tesoro. Tesoro infinito, stando a quanto diceva il popolo, perchè il Rajah non aveva fatto che accumulare ricchezze durante la vita sua.
Quando egli prese le redini del Governo, Mindapur non era che un meschino villaggio; egli lo trasformò in grande città! Al posto delle misere capanne dal tetto piatto, a poco a poco sorsero case e palazzi di varî piani, e dove un dì era il piccolo tugurio che dava ricetto ad un solo indigeno (dico: un solo indigeno!), ora s’innalza maestosamente un imponente edificio dalle marmoree colonne e dai tetti dorati. Come la perla nascosta nella ruvida conchiglia! In grazia al Rajah generoso e buono, la popolazione di Mindapur aveva acquistato un grande benessere. A monte del torrente la folla si pigiava nel grande santuario, nei giorni di festa o di celebrazione di qualche mistero. Le strade erano diventate ormai sicure, ed i negozianti, i fachiri, accorrevano numerosi in città e riunivansi, insieme agli indigeni, intorno alle fontane per trattare del loro commercio. E per ben due volte vennero uomini dalla bianca pelle a catechizzare il popolo all’ombra dei grandi pini, ed allora le vie della città formicolarono di donne e di fanciulli, di uomini e di piccoli cani dal color giallastro. E tutta quella folla esalava quegli odori acuti e svariati che generalmente si sprigionano dalle grandi agglomerazioni umane.
Ma lasciamo tutto ciò, vi basti il sapere che fu verso l’epoca della venuta degli uomini dalla pelle bianca che incominciò a crearsi la leggenda del tesoro del Rajah.
Il Rajah era un uomo corpulento, dalla faccia giallastra, con una lunga barba nera, le labbra grosse e gli occhi dallo sguardo sfuggevole. Era assai osservante delle pratiche religiose quotidiane; ma se era generoso e buono era però anche leggiero e incomprensibile in tutte le sue azioni. Però nessuno, neppure nelle minime cose, nessuno poteva resistere alla sua volontà. Golam Shah, suo primo ministro (vizir), non era altro che un servitore, un portavoce; e Samud Sing, gran mastro di cavalleria, un semplice ufficiale istruttore e schiavo sottomesso. Il Rajah ripeteva, loro, con l’insolenza del potere, che essi erano in mano sua dei semplici istrumenti, delle bacchette di fragile legno che egli poteva spezzare a suo capriccio e piacimento!
Il Rajah non aveva figli, e per conseguenza non eredi diretti al trono. Aveva bensì un cugino di nome Azim Khan; ma questi, se segretamente, in cuor suo, augurava la morte del real cugino per poterne prendere il trono, ciò non ostante lo temeva assai ed obbediva anch’egli a tutti i suoi voleri. Sarebbe cosa difficile il poter dire in che modo nacque la notizia che il Rajah della città di Mindapur andasse accumulando un grande tesoro. Nessuno seppe mai in che modo la leggenda si formò, nè donde venne. Forse i negozianti coi quali il monarca aveva fatto qualche affare ne saranno stati i primi propalatori; in ogni modo l’origine di tale leggenda è assai anteriore alla storia della cassaforte che sto per narrarvi. Dicevasi, fra le altre cose, che moltissimi rubini erano stati comprati dal Rajah e nascosti in luogo sicuro e sconosciuto; e dopo non si parlò più di soli rubini, ma altresì di ori preziosi, di perle, di diamanti di Golconda e di mille altre gioie preziose e belle. Anche il Commissario della Regina, ad Allapor, ne ebbe contezza, e la voce di tali ricchezze non tardò, finalmente, a penetrare nel palazzo stesso del Rajah di Mindapur, tant’è vero che Azim Khan, cugino ed erede, decorato del titolo di gran generale in capo, e Golam Shah, primo ministro, incominciarono a parlarne fra di loro, ma con molta circospezione e diffidenza.
— Vi è qualche cosa, vi è qualche cosa certamente! – diceva Golam Shah, – ed il Rajah me la nasconde!
— Vi ho narrato quanto ho sentito dire, – rispondeva abilmente Azim Khan, – per conto mio però non saprei dirvi altro!
— Il nostro signore e Re canterella tutto il santo giorno, – rispose Golam sopra pensiero, – si direbbe che è assai felice e contento!
— Avrà degli altri rubini ancora! – mormorò Azim come se sognasse. E ripetè non senza soddisfazione grandissima, poichè era l’erede del trono: – altri rubini! — Ma, – riprese a dire Golam, – è specialmente dopo la venuta di quell’inglese che il nostro padrone ha cambiato umore. Vi ricordate, tre mesi or sono, venne in palazzo un omaccione dai capelli rossi, dalla faccia rubiconda, con un pancione…. un vero gigante insomma! E rideva rumorosamente quell’uomo grosso e grasso, rideva tanto rumorosamente che la gente si fermava per la strada. E quando venne, vi dico, lo sentii ridere forte forte col nostro padrone.
— Ebbene? – disse Azim.
— Ebbene, quello era un negoziante di diamanti, forse; oppure un negoziante di rubini. Gli Inglesi debbono fare questo commercio senza dubbio.
— Mi rincresce di non aver visto quell’uomo.
— Egli aveva molto oro nelle mani quando andò via. E ambedue tacquero per qualche istante.
— Dopo la venuta dell’inglese, – riprese a dire Golam, – egli ha cambiato carattere. Mi nasconde qualche cosa. Scommetto che nasconde dei rubini sotto il vestito! Quale altra cosa potrebbe essere, se non dei rubini!
— Non ha sotterrato l’oggetto? – domandò Azim.
— No; ma lo sotterrerà. Ed allora egli farà scavare la terra per rivedere il tesoro, – disse Golam che era un uomo assai furbo, – allora forse sapremo qualche cosa. Alcune volte cerco di sorprenderlo quando è in giardino, ma invano.
— Invecchia il nostro padrone, e diventa nervoso.
— Però, prima della venuta dell’inglese non era così invecchiato e così nervoso!…
Questo dialogo avvenne prima dell’arrivo in Mindapur della famosa cassaforte. Questa giunse in una grandissima cassa di legno, una cassa non mai vista nell’Imalaia poichè in pianura rappresentava un carico completo per un elefante, e per trasportarla fino a Mindapur furono necessarie parecchie settimane e più d’un elefante, e la fatica e le difficoltà non furono poche.
Alla stazione di Allapur vi era folla di curiosi accorsi per veder passare l’immensa, la colossale cassa.
Quando finalmente giunse nel palazzo dei Rajah, e più precisamente nella sala d’onore, numerosi operai dovettero mettersi all’opera per aprirla. Apparve allora l’immensa cassaforte in ferro, una cassaforte non mai vista in Mindapur. Dicevasi che fosse stata fabbricata in Inghilterra da stregoni, e appositamente per il Rajah, affinchè egli potesse rinchiudervi il suo tesoro, e dormire sonni tranquilli.
Le pareti metalliche di quel mostro di ferro erano così dure e resistenti, che neppure una cannonata, sparata a bruciapelo (supponendo, bene inteso, che il metallo abbia peli), avrebbe potuto arrecarvi danno.
In quanto alla serratura, niuno avrebbe potuto aprirla senza sapere la parola magica. La chiave non serviva a nulla, se non si conosceva la parola magica. E la conosceva solamente il Rajah, e solamente il Rajah portava la piccola chiave appesa al collo, e nessun altri fuorchè lui avrebbe potuto aprire la cassaforte.
Egli volle che detta cassaforte fosse murata in una stanza vicina alla sala d’onore e ne sorvegliò egli stesso, con occhio avido e geloso, i lavori necessari.
Una volta al giorno, almeno, il Rajah entrava nella stanza della cassaforte, e quando ne usciva i suoi occhi brillavano in modo assai strano. Ed il suo modo di agire incominciò da allora in poi stranamente a cambiare. Diventò meditabondo e silenzioso, il carattere suo si fece oltremodo difficile; si irritava per un’inezia, e tutti i suoi atti parevano improntati di avarizia e di sospetto. Ma accadde un fatto ancor più strano; egli incominciò ad odiare suo cugino Azim Khan, a tal punto che un bel giorno non si peritò di dichiarare ad alta voce nella sala d’onore ed in presenza di tutti i dignitari di Corte, che Azim era un uomo inetto non solo, ma indegno di qualsiasi fiducia.
Un giorno giunsero in palazzo alcuni mercanti. Il Rajah si rinchiuse con essi nella stanza della cassaforte, e Golam Shah, Azim Khan e Samud Sing, che erano rimasti nella sala d’onore, fecero di tutto per poter vedere ed udire quello che succedeva nella stanza vicina, ma invano! La porta era troppo ben chiusa, ed il Rajah ed i mercanti parlavano a voce troppo bassa perchè essi potessero vedere od udire qualcosa.
— Sapete quello che si dice? – incominciava Azim, – si dice che un negro, muto, viene ogni tanto in palazzo, dalla lontana pianura, e porta seco alcuni pacchi misteriosi.
— Ancora un diamante!
Ed ogni giorno correva voce, nella città, che il Rajah aveva aumentato il suo tesoro con una nuova gemma. — La formica tesoreggia, – esclamava ogni tanto Azim Khan, l’erede al trono. – Vedremo un po’ come l’andrà a finire!
Azim Khan era vile, più che perfido.
Un giorno vennero alcuni mercanti del Beccan e come al solito, s’intrattennero segretamente col Rajah. Invano, come sempre, Azim Khan e Golam Shah cercarono di scoprire qualcosa intorno alle ricchezze della cassaforte. Il Rajah chiudeva troppo bene la porta; e quando entrava solo nella famosa stanza, aveva cura di chiudere con doppio giro la serratura. Ma ciò che più impressionava i ministri ed i cortigiani era lo strano cambiamento fisico e morale del Rajah.
— Invecchia! Come invecchia presto! È quasi spacciato, – esclamava Samud Sing.
Le mani del Rajah, infatti, avevano ora un tremolìo incessante, la sua andatura era incerta, quasi come persona alticcia, e la sua memoria soffriva ogni tanto di strane assenze. Usciva egli dalla stanza del tesoro? La sua mano febbrilmente ne chiudeva la porta e ne tirava la tenda pesante, e camminando come un uomo trasognato andava ad inciampare nei gradini del trono nella sala d’onore.
— La sua vista si fa ogni giorno più debole, – diceva Golam. – Guardate! ha il turbante sulle ventiquattro. Gli vien sonno prima di sera ed i suoi ragionamenti sono più puerili di quelli d’un bambino!
Era cosa assai penosa il vedere quell’uomo quasi incretinito stare a capo di un regno.
— Un sovrano ha egli il diritto di accumulare ricchezze su ricchezze e di lasciare senza paga i suoi soldati?
Tale era la domanda che maliziosamente faceva ShirAli ai suoi ufficiali.
Era il principio della fine. Tutti oramai erano persuasi che il tesoro ingrossava alle spalle dei militi, degli eunuchi e della popolazione.
— Tesoreggia per vizio! Tesoreggia per renderci miserabili, e sarà contento solamente quando saremo nudi, – insinuava Samud.
Ed un bel giorno, improvvisamente ma fatalmente, scoppiò la rivoluzione in palazzo. Il Rajah fu ucciso come un cane in una stanza buia buia; Azim gli segò la gola con un coltellaccio. Poi, colle mani lorde di sangue, seguìto da Golam e Samud e dagli eunuchi, si avviò nella sala d’onore. Finalmente era lui il sovrano, il padrone del grande, dell’immenso tesoro. Senza por tempo in mezzo si avviò con numeroso seguito verso la stanza del tesoro.
Un eunuco portava una grossa sbarra di ferro per sfondare la porta, e Samud una pistola per sparare contro la serratura, nel caso avesse resistito.
Sfondata la porta, tutti si precipitarono nella stanza, con tale impeto che lo stesso Azim non potè entrarvi che a mala pena. Siccome tutto ciò avveniva di notte, la stanza era buia. Fu inviato un eunuco a cercare una torcia. Costui obbedì a malincuore, temendo che gli altri aprissero la cassaforte in sua assenza. Ma ciò non accadde, e la sola cosa, che veramente risultò palese e lampante, fu la dimostrazione evidente, indiscutibile della solidità a tutta prova delle casseforti della casa Chobb e C.~~o~~, solidità che non temeva concorrenza.
Il tumulto che successe fra i soldati e il popolo di Mindapur non è affar nostro; ci basti il sapere che il popolo non amava il nuovo Rajah.
I cospiratori si erano intanto impadroniti della chiave della cassaforte che era appesa al collo del cadavere, ormai freddo, del vecchio Rajah, e cercarono invano di aprirla. Le parole magiche, necessarie, indispensabili per tale apertura, erano ignorate da tutti i presenti. Samud-Sing cercò nella sua memoria, ma non trovò nulla; provò almeno un migliaio di parole, ma inutilmente, la cassaforte rimaneva sempre chiusa.
Allora fu deciso che bisognava incominciare a smurare la cassa, e piovvero i colpi di mazze ferrate e di picconi nel muro; ma tutto questo lavoro non ebbe alcun esito soddisfacente perchè il mostro di ferro rimase chiuso ed inviolato. E il furbo Golam ebbe un bel da fare per spiegare ai soldati la cagione di tanto ritardo ad impossessarsi del tesoro. In caso di rivoluzione, è assai opportuna una generosa distribuzione di denaro da parte del nuovo sovrano. Ma qui come fare se nessuno sapeva le magiche parole?!
Le cose, in Mindapur, si fecero assai serie per parecchi giorni. Era nota a tutti la debolezza del nuovo Rajah, Azim-Khan, ed i suoi soldati non vollero credere alla resistenza della cassaforte; mandarono in palazzo una deputazione, come si usa fare in Occidente, onde verificare l’asserto del sovrano e dei primi ministri. Vi fu di peggio: la popolazione incominciò a riunirsi innanzi alla reggia ed a urlare ed a fischiare, e ben presto si sparse la notizia che il Commissario della Regina non avrebbe tardato a giungere a Mindapur, scortato da soldati, per verificare i rapporti sulla rivoluzione, rapporti speditigli da Golam e da Samud.
Quest’ultima notizia provocò in palazzo una controrivoluzione. Il nuovo Rajah non ne ebbe sentore; se ne accorse solamente quando udì nelle sue stanze passi precipitati e quando si vide puntato contro il viso la fredda canna di una pistola!
Quando arrivò il Commissario della Regina, in palazzo giacevano due cadaveri: i due Rajah! Quell’abile uomo di Stato che era Golam Shah, e quell’onesto soldato di Samud Sing con qualche testimonio si trovarono pronti a ricevere il rappresentante della Regina ed a narrargli una storiella di loro pura invenzione.
Dichiararono al Commissario che Azim aveva sollevato una ribellione militare allo scopo di detronizzare ed uccidere il loro amato Rajah, e che essi stessi avevano soffocato (ahimè! troppo tardi ma pur sempre a tempo!) detta ribellione, e che avevano dovuto uccidere Azim per porre fine ad uno stato di cose insopportabili, e ciò per il bene del paese.
Il Commissario, che non era nè furbo nè intelligente, prestò fede a tale storiella. Se si fosse un po’ guardato intorno, avrebbe visto subito la verità, e Golam Shah se la sentiva sospesa sul capo da un tenue filo! Ma il Commissario non capì nulla per tre o quattro giorni, durante i quali Golam e Samud andavano predicando pace, promettendo l’apertura della cassaforte non appena l’inglese avesse lasciato Mindapur.
Ma ecco che incominciò a correr voce nel popolo che i due ministri avevano aperto la cassa e trafugato il tesoro.
— Questa città, – disse allora Golam a Samud, – questa città non è per noi un soggiorno sicuro. Questo tesoro ha fatto impazzire il popolo. Golconda non sarebbe sufficiente per esso.
Il Commissario incominciò allora a intravedere la verità dei fatti, ed ordinò subito una inchiesta (intelligente quanto lo può essere l’intelligenza inglese) per dimostrare che egli non era poi tanto credulo quanto lo si supponeva, ma la conclusione fu che il buio continuò a regnare in quest’affare. Egli aveva sentito dire di una cassaforte, e Golam e Samud ne avevano anche sentito parlare; ma nessuno sapeva dire ove era nascosta.
Se il Commissario della Regina avesse avuto un po’, dico un poco, di accorgimento, avrebbe osservato il polverio persistente che invadeva la sala d’onore; e se avesse fatto minutamente visitare tutte le stanze del palazzo, non avrebbe tardato a scoprire quella, ove giaceva la famosa cassaforte, circondata da pezzi di calcinaccio, di pietra, di legno, ma sempre inviolata ed ermeticamente chiusa.
Conclusione: il Commissario insediato nel palazzo inviava rapporti erronei al quartier generale inglese, ed aspettava istruzioni in proposito; la cassaforte era sempre intatta; i cortigiani e gli eunuchi mormoravano sempre più minacciosamente, e Golam e Samud tremavano dalla paura che un giorno o l’altro la verità dovesse venire a galla.
Una notte, finalmente, il Commissario fu svegliato da un rumore insistente di lime e di colpi di martello. Egli era assai coraggioso, si alzò di botto, ed armatosi di pistola attraversò in punta di piedi, all’oscuro, la sala d’onore. Ben presto si accorse donde veniva il rumore, e vide un raggio di luce penetrare nella sala da una porticina, lasciata semiaperta, porticina che durante il giorno era sempre nascosta da una pesante tenda. Si avvicinò pian piano ed osservò, non visto, nell’interno della stanza del tesoro. Ivi erano Golam e Samud innanzi alla cassaforte, e mentre uno di essi con una lanterna illuminava il mostro di ferro, l’altro cercava di aprire, con varie chiavi riunite in mazzo, la serratura magica. Ambedue erano scalzi, ma completamente vestiti, onde poter fuggire inosservati. Così almeno speravano.
Il Commissario aveva, per quanto possa averne un funzionario del Governo, una potenza di spirito meravigliosanota 1. Si ritirò velocemente quasi scivolando nell’ombra. Cinque minuti dopo Golam e Samud, che sempre tentavano invano di aprire quella benedetta cassa, udirono un rumore di passi e videro dei lumi nella sala d’onore. Istintivamente fecero per fuggire ma era troppo tardi. Un ufficiale inglese armato di pistola e scortato da due soldati anch’essi armati si presentarono sulla soglia della, porta: Golam e Samud erano presi in trappola.
All’indomani tutta Mindapur conobbe il tradimento dei due ministri. L’ira del popolo giunse al colmo, poco mancò non fosse fatta giustizia sommaria su quei due miserabili. Il Commissario conobbe solo allora, perchè glielo narrarono alcuni cortigiani, il vero filo della trama, e si decise finalmente ad entrare nella stanza del tesoro. Questa era in uno stato da far credere che il palazzo avesse subito un vero e lungo assedio. L’ufficiale inglese che accompagnava il Commissario osservava la cassaforte crivellata di buchi inutili, quando ad un tratto il Commissario disse:
— Cosa, strana! Finalmente abbiamo la chiave del mistero!
— La chiave? – rispose l’ufficiale. – La chiave? è appunto la chiave che manca!
— Strana alleanza del moderno e dell’antico, – riprese a dire il Commissario, – una cassaforte brevettata che contiene il tesoro del Rajah.
— Bisognerà, io credo, inviare qualcuno ad Allapur per telegrafare alla casa Chobb e C.o.
Il Commissario rispose che tale infatti era la sua intenzione. Furono quindi poste delle sentinelle intorno alla cassa e davanti alla porta della stanza in attesa di istruzioni precise.
Fu in tal modo che la civilizzatrice Albione prese possesso ufficialmente del tesoro del Rajah.
A Simla tutti giubilarono, e non pochi invidiarono il Commissario. La sua prontezza di spirito, la sua decisione rapidissima ed il suo coraggio furono grandemente elogiati, e già si vociferava che Mindapur sarebbe stata annessa ai beni della Corona Britannica ed amministrata dal valoroso ed intelligente Commissario.
Un uomo solo, un uomo vecchio e grosso, inglese, un certo Mac-Turk che abitava Allapur, un uomo che rideva quasi sempre e che faceva segretamente commercio con certi Rajah del paese; solo costui ignorava quasi per intero tutto ciò che abbiamo narrato. Aveva avuto sentore, è vero, dell’uccisione del vecchio Rajah; ma non sapeva altro, ed era cosa assai dolorosa, perchè era appunto quest’uomo che aveva venduto al Rajah la cassaforte! Egli solo avrebbe potuto dire la parola enigmatica, necessaria per l’apertura di detta cassa!
Il Commissario amava assai le pompe esterne ed i colpi di scena. Fece condurre in prigione con abbondanza di guardie i ministri malfattori, ed appena la casa Chobb e C.o ebbe mandate le istruzioni, fece portare la cassaforte nella sala d’onore, allo scopo di aprirla con maggiore solennità. Sedette quindi sul trono del Rajah ed ordinò ad un ingegnere di incominciare il lavoro di apertura. Nel mezzo della sala, colma di spettatori, era stato disteso in terra un grande drappo di color celeste e tutto questo apparato ricordava al Commissario un quadro che egli aveva visto in in museo a Londra, un quadro dal titolo: «Alessandro il Grande riceve in Damasco i doni di Dario!»
— Vi sarà certamente dell’oro in gran copia, – udivasi dire nella sala. – Chissà quante gemme! Chissà che tesoro immenso!
L’ingegnere introdusse la chiave nella serratura ed aprì prontamente lo sportello di metallo.
Tutti gli occhi degli spettatori fissaronsi avidamente sulla cassa, tutti gli occhi, ad eccezione di quelli del Commissario. Egli aveva coscienza della propria responsabilità e seduto sul trono, cercava di parere in quell’istante supremo il vero e fedele rappresentante di Albione civilizzatrice.
— Mille bombe! – esclamò ad un tratto l’ingegnere respingendo lo sportello.
Un mormorio generale di sorpresa accolse quell’esclamazione.
— Forse sarà un serpente! – disse qualche spettatore.
Il Commissario, alzandosi di botto, domandò sorpreso anch’egli:
— Cosa c’è?
L’ingegnere si appoggiò alla cassaforte e mormorò due parole precedute da una potente bestemmia.
— Ma cosa c’è?! – ripetè il Commissario.
— Dei vetri, dei vetri rotti! – rispose l’altro furibondo. – Dei pezzi di bottiglia! A centinaia, a centinaia.
![IL TESORO DEL RAJAH.
— È del whisky! e di quello buono, – disse l’ingegnere, osservando da conoscitore le numerose bottiglie.](wells_il_tesoro_del_rajah_img/wells_il_tesoro_del_rajah.jpg “IL TESORO DEL RAJAH. — È del whisky! e di quello buono, – disse l’ingegnere, osservando da conoscitore le numerose bottiglie.”)
IL TESORO DEL RAJAH.
— È del whisky! e di quello buono, – disse l’ingegnere, osservando da conoscitore le numerose bottiglie.
— Vediamo, – disse il Commissario sconcertato completamente.
— È del whiskhy! e di quello buono, – disse ancora l’ingegnere, osservando da conoscitore le numerose bottiglie ripiene di quel liquore.
— Il diavolo lo porti all’inferno! – esclamò il Commissario.
E guardandosi intorno vide sulle labbra degli spettatori un sorriso ironico e beffardo.
— Signori, – disse allora completamente annichilito, – signori! io…. io…. la seduta è sciolta.
***
— Che figura! che figura da imbecille! – esclamò Mac-Turk che non poteva soffrire il Commissario. – Che bestia!… ed era cosa così semplice il sapere.
— Sapere che cosa? – domandò il capostazione.
— Il Rajah beveva di nascosto, – rispose Mac-Turk. – beveva del whiskhy! Sono io stesso che l’ho consigliato a berne. Ma il pover’uomo non voleva confessare che ne beveva. Il Mindapur è uno degli Stati più fanatici delle montagne dell’Imalaja. Ed il pover’uomo beveva sempre di nascosto per paura dei suoi sudditi. Egli comprò quella cassaforte per nascondervi l’oggetto della sua passione. Egli avrà rotto le bottiglie vuote per poter accatastare i rottami e fare così posto alle bottiglie piene. Per tutti i diavoli, avrei dovuto immaginarlo! Ma quando mi si parlava del tesoro non avrei mai sognato di vedere in esso relazione alcuna colla cassaforte ed il whisky. Ed è tanto semplice…. E che figura ha fatto il Commissario! Dei pezzi di bottiglia accatastati da parecchi anni!… Dio mio! avrei dato due anni di vita per poter vedere il Commissario all’apertura della cassaforte.
Fine.
nota 1 – Così in originale: «The Deputy-Commissioner was, for a Government official, an exceedingly quick-witted man.» [Nota per l’edizione elettronica Manuzio].
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il tesoro del rajah
AUTORE: Wells, Herbert George
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Novelle straordinarie / H. G. Wells ; [illustrazioni di Celso Ondano]. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 211 p., [10] c. di tav. : ill. ; 27 cm.
SOGGETTO:
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)
FIC028040 FICTION / Fantascienza / Brevi Racconti