Il suicidio del maestro Bonarca.
di
Adolfo Albertazzi
tempo di lettura: 16 minuti
I.
Felicità è una vana parola? – Persona alta e forte; baffi neri e fieri; voce baritonale e, se bisognava, imperiosa; eppoi: un pennacchio bianco al kepì; spada al fianco e assisa quasi militare; saluto alla militare dai subalterni; dominio sul palco in piazza a dirigere la banda nei giorni di festa; precedenza a tutti nelle processioni e nei trasporti funebri; direzione dell’orchestra in teatro; autorità di maestro sui cittadini idonei alla musica; autorità di cittadino notevole; stipendio sufficiente per una vita tranquilla; tranquillità di scapolo: tutto ciò dovrebbe pur bastare a rendere felice un uomo!
Che se il maestro Bonarca incolpava i creditori dell’essere caduto in miseria da tanta sua felicità, egli era ingiusto appunto perchè ogni creditore, benefattore con o senza usura, corre il pericolo che il beneficato ponga fine al debito ponendo fine alla vita.
Ah! vana parola è la gloria; e rovinosa passione l’ambizione; e debolezza la confidenza nel nostro ingegno, non meno che fallaci, insani sono i sogni dell’anima nostra; e morbo la poesia e la melodia di cui risuoni l’anima nostra. Infatti quando il maestro Bonarca non avesse dato ascolto ai cattivi amici e a sè medesimo, non si sarebbe incamminato mai verso il canal Torbo con il proposito d’affogarvi.
Fu così: In poco tempo aveva composta la Sposa selvaggia (centocinquanta lire al poeta del libretto: prima spesa), e i giornali cittadini avevano preannunciato il capolavoro (sovvenzioni ai cronisti: seconda spesa); poi (altre spese) il maestro era andato a Milano, a Torino, a Bologna in cerca di un editore, di un mecenate, di un impresario. Quindi aveva avuta la sciagurata idea di assumere per sè l’impresa al teatro della sua città. Gli amici incitavano; qualcuno prometteva aiuto e, sebbene il Comune ricusasse la dote teatrale, uno stimato commerciante accondiscese a firmare l’avallo nelle cambiali di lui, che sacrificava alla gloria tutte le economie del passato e molte economie dell’avvenire. E la Sposa selvaggia aveva ottenuta fortuna quasi uguale a quella desiderata. Se non che i cittadini d’una città piccola non vanno a teatro tutte le sere; nè i paesani delle vicinanze, ignoranti che sarebbero accorsi in folla a udir la Traviata o il Trovatore, si lasciaron persuadere da una costosissima réclame e dalla fama dell’opera nuova. Inoltre, ammalatasi la prima donna, l’altra, chiamata d’urgenza a sostituirla, aveva messo voce e opera a caro prezzo. E infine, dopo tante angustie che solo un uomo di coraggio eroico poteva dissimulare; dopo tante contese, vinte a fatica di polmoni strepitosi e di occhi biechi, con i cantanti, i suonatori, i pittori, i macchinisti, i coristi che non rimettevano a dopo il sabato il pagamento della mercede, era avvenuta la catastrofe: il commerciante dell’avallo contro ogni previsione era fallito e fuggito. Avevano sparsa nel giorno la tremenda notizia: fuggito con i quattrini! Canaglia! ladro! assassino! Socio al maestro Bonarca. Sul quale si riverserebbero l’odio e le calunnie dei creditori; le cambiali protestate; il disprezzo della cittadinanza; la diffidenza della patria tutta. L’infelice, per colpa della sua Sposa, si vide perduto; si credè abbandonato; si sentì solo al mondo, solo con la Sposa selvaggia e col disonore….
Ond’ecco, a pochi passi, il canale e la morte.
II.
Dal ponte il maestro Bonarca guardava l’acqua che trascorreva lenta e cheta, e della luna, attraverso la tenue nebbia, non riceveva luce bastevole per rifletterne a specchio l’imagine. Similmente la sua vita poteva forse trascorrere placida ed uguale, non accogliendo dall’arte maggior lume che quello sufficiente a una capacità mediocre. Ah sì! Gli parve ora d’essere rinsavito; di saper con giustezza misurare il proprio ingegno; di comprendere ch’egli s’era illuso e che l’avevano illuso; e, a convincersene, riandava ancora una volta, l’ultima volta, coraggiosamente e disperatamente, l’opera sua. L’adagio della sinfonia era soltanto una povera nenia; piacevole per il volgo. Nient’altro.
Atto primo. Vi balenava, nell’iniziale oscurità, qualche lucida frase; v’appariva un pensiero melodico, che cadeva subito come un volo cui mancò la possa dell’ali; e il duetto…; il duetto sarebbe stato bello se non avesse ricordato troppo l’Ernani. Dunque: a giudizio di critica giusta, serena, coraggiosa, il primo atto valeva poco, o nulla. Per fortuna era breve!
Atto secondo. Stringi e stringi…. Vuoto! vuoto! vuoto! L’introduzione?… Quale le promesse di certi amici. Dopo, la preghiera; che non commoveva neppure la platea e che appunto per ciò i critici avevano definita un canto di sirena nordica, senza rammentarsi che la Sposa selvaggia era affricana. Poi, il coro; elaborato senza dubbio per quella rispondenza degli ottoni al richiamo degli archi, ma privo di originalità; lento; fiacco; lungo; eterno. E il terzetto?… Il terzetto…. Ah il terzetto, vivaddio, no e poi no! Questo era bello; c’era tant’anima! c’era il cuore del pubblico che sobbalzava rapito quasi una volta a quello dei Lombardi! Bellissimo! Un pezzo simile sfidava la critica, sfidava la malignità degl’invidi, sfidava il tempo; nè chi l’aveva scritto moriva! No e poi no! Non morirebbe quantunque s’annegasse, umilmente, nel canal Torbo!
Un tal pezzo bastava a ribattere l’accusa di vanità al secondo atto; come la romanza del tenore, nel terzo, bastava a render celebre un nome!
Sposa selvaggia, addio!
Io morirò per te!
Così soave e così semplice, questa soave e semplice e limpida sorella della «Casta Diva» attesterebbe al mondo che nella terra di Bellini, non ostante le diavolerie dei wagneriani e i disaccordi che mortificano ingegni, anime e gusto; nella terra di Bellini nulla, mai, nessuno, mai, spegnerà il senso della melodia, l’amore dell’armonia, lo spirito dell’amore meridionale, il fuoco della nostra passione. Mai e poi mai! Viva l’Italia!
E morire! Ma il dì dopo, alla notizia, quella divina romanza, che tutti avevano imparata la prima sera, tornerebbe come invocazione di pietà alla memoria di tutti, anche dei nemici; e si piangerebbe il giovane maestro, che una sorte diversa avrebbe condotto a rinnovare l’antica e pura arte della patria….
Morire!… Morire, perchè il maestro Bonarca anteponeva l’onore alla gloria; perchè il mondo non dicesse che del commerciante fuggito con i quattrini il maestro Bonarca era stato complice; perchè egli riconosceva i suoi debiti e prevedeva che non avrebbe potuto pagarli mai più; perchè insomma lo superava un destino crudele e non voleva si credesse da alcuno della cittadinanza onorata e dal sindaco che egli avesse paura di morire!
Perciò era pronto; tutto era pronto! In tasca, la lettera al questore: «Mi uccido per ragioni che è inutile rivelare….» (Infatti chi non se le imaginerebbe?) Ringrazio i miei concittadini per la loro benevolenza alla mia Sposa selvaggia….»
Erano due righe, ma animose; di un uomo senza paura. Qual rammarico tuttavia nel pensare che la sua tragica fine servirebbe di réclame, e l’opera presto data alla Scala o al Regio o al San Carlo solleverebbe il pubblico, entusiasta del terzetto e della romanza, a chiamare il maestro, che, essendo morto annegato, non potrebbe assistere alla rappresentazione!
D’improvviso Bonarca si chiese: «Se aspettassi?…» Un’idea gli balenò nella tempesta dell’anima come suscitata da sentimenti opposti: un po’ di pietà, che finalmente aveva di sè stesso, e il coraggio ch’egli era convinto di poter spingere fino all’audacia. «Se aspettassi…. a vedere cosa i giornali diranno, domattina, della mia morte?» Certo, dopo morirebbe più volentieri; sia che i giudizi postumi gli confermassero meriti e compianto, sia che la pubblica giustizia, fatta libera dalla morte, lo condannasse senza pietà. Ma non era un’idea da matto? Per riflettere si strinse il capo tra le palme. E un birocciaio che transitava, lo vide; e una vecchia, la quale passava con un cesto al braccio, si volse indietro a riguardarlo. Egli si rivolse tranquillo e fiero; giacchè la sua idea non sarebbe da matto quando riuscisse a sfuggire a ogni altro sguardo fino all’ora dei giornali, e a provvedersi dei giornali. Non esitò più. Dopo tutto, ai condannati a morte è lecito soddisfare, qual si sia, l’ultima voglia!
Ed essendo impossibile che qualcuno non passasse di là, non vedesse il paletot, non leggesse la lettera e non la portasse in questura prima della notte, egli si tolse il paletot e lo pose sul parapetto del ponte; gettò il cappello alla corrente livida, e quasi a scorgere, così travolta, la sua testa o quella d’un fedele amico, ne distolse subito gli occhi per non commuoversi; quindi scese lungo la riva in cerca d’un nascondiglio. Ricordava che alla distanza di forse un chilometro, fra le canne e i giunchi, era la casupola d’un piccolo mulino abbandonato; oltre il quale il canale tornava fosso e, per esser diruto l’argine a sinistra, impaludava il piano. Si avviò per il sentiero all’abitacolo; v’entrò da una porticella, e al lume d’un fiammifero vide ove mettersi: su poco strame, dietro un pezzo di macina; nè egli chiedeva più tenero letto a riposare dalla dura battaglia. Ivi attenderebbe il giorno: per i giornali manderebbe il primo ragazzo o galantuomo che transitasse per la via e a cui farebbe credere, ridendo, che gli era caduto il cappello dal ponte. Freddo gli sembrava assai, ma sopportabile a chi non temeva il freddo della morte…. Così, nell’attesa, si mise a pensare a cose che lo distraessero. Le altre sere a quell’ora, se non aveva teatro, giocava a biliardo col marito di…. «Non pensiamoci!» (Non voleva pensare a donne, per non intenerirsi)…. Ma quel marito, via!, non giocava mica male; anzi, da competitore formidabile…. E il delegato Rosta?… Un bravo amico, questo; sincero, sebbene questurino; giocatore mediocre a suo confronto, eppure vincitore in una classica partita…. Che meraviglia! Era stato al tempo delle prove…. Oh le sudate prove della Sposa!…; con quei violini che non andavano; con quella cornetta…. Benvoluto da tutti, però; rispettato; temuto. Gli artisti di vaglia hanno in sè qualche cosa che fa perdonare ogni scatto. Per esempio. egli qualche volta era stato feroce; e mai un lamento. Solo Camandri, il bombardone, aveva detto a un compagno, dopo la seconda prova: – Se torna a darmi della bestia in orchestra, lo fracasso con lo strumento. – Ma lui, alla terza prova: – Camandri: è un la! un la! un la!, corpo di!…; e Camandri, giù gli occhi e il bombardone a posto; frenato e impaurito da quello sguardo….
Sparsasi la triste notizia fra i suonatori e i discepoli, quanti non direbbero, con certo orgoglio: – Bravo maestro! Gli uomini di fegato e di carattere fanno così; non scappano come quel mercante traditore…. – A proposito! (fe’ Bonarca) I tre soldi per i giornali?» – Li aveva; aveva il resto dell’ultima lira, che si era tratta di saccoccia per l’ultimo cognac…
Dunque?
Dunque, poichè si fu riacconciata la paglia addosso ed ebbe appoggiato il capo alla pietra…., a poco a poco, senza perdere il coraggio, s’addormentò.
III.
«Il nostro valente capobanda, l’esimio maestro, il fortunato autore della Sposa selvaggia, nel quale tante speranze riponevano gli ammiratori concittadini, l’arte e la patria, ierisera si è miseramente ucciso gettandosi nel canal Torbo. Povero, illustre amico! Quale fu la causa che ti condusse al triste passo nel fiore della balda giovinezza destinata a uno splendido avvenire? Noi, a cui la commozione e l’ora d’andare in macchina impediscono d’enumerare adesso tutti i meriti del perduto amico, noi non solleveremo il velo della sua tomba. Noi rispettiamo il segreto e il desiderio del maestro Bonarca. Solo per debito di cronaca accenneremo che, appena sparsasi l’infausta notizia, si è vociferato in città di un amore infelice….»
— Un amore infelice? – esclamò Bonarca, stupito, non comprendendo, da prima il perchè di quella invenzione. – Infelice in amore lui, che delle amanti ne aveva avute tre in una volta: una nubile, una maritata e una nè maritata nè nubile? Infelice in amore un uomo della sua forza (con quei baffi)? Alla prima rappresentazione della Sposa, quando si voltava indietro a ringraziare il pubblico, non vedeva che, volendo, tutte le signore dei palchetti, in isplendide toilettes, sarebbero state sue? Ma di fra le righe della necrologia gli venne la luce; afferrò la ragione della pietosa menzogna; si commosse fino alle lagrime.
Per la ragione stessa gli parve anche più nobile e felice la trovata del Radicale, che gli dedicava un articolo di due colonne.
«Sposa selvaggia, addio!
«Io morirò per te!
«Lui! lui!, il povero compositore, è morto per la sua sposa; e la sua sposa – noi lo sappiamo – era l’arte. Un artista tanto più è grande quanto più è grande il concetto che ha dell’arte sua. Povero Bonarca! Aveva appena colti i recenti allori e non ne godeva; ne soffriva anzi, perchè gli sembrava di non aver fatto nulla in confronto a ciò che fecero Rossini e Verdi, Beethoven e Wagner: a ciò ch’egli temeva di non poter fare! E la bell’anima seguendo la mente alata che volava alla gloria, su in alto, nell’armonia dei cieli, si è sbigottita, è caduta, è precipitata nel canal Torbo.
«Io morirò per te!
. . . . . .
Più breve, sebbene prodigo anch’esso di lodi, il Vero cattolico concludeva:
Il nostro cordoglio è grande, avvegnachè nemmeno per il maestro Bonarca possiamo trovare un’eccezione alla regola della religione e della coscienza. Ripetiamolo a norma dei nostri lettori dilettissimi: Ogni suicida è un peccatore che o mancando di fede ha patito l’influenza del demonio, o è soggiaciuto a una improvvisa demenza.»
Proprio così: nell’opinione dei giornali, cioè nell’opinione pubblica, egli poteva, doveva essersi annegato o per il diavolo, o per il cervello voltosi sossopra, o per la donna, o per l’arte; non per la causa vera, nota a tutti. Come dire: che un artista il quale s’ammazza per i debiti non è artista. E questa era la ragione di quelle menzogne.
Ma artista e grande lo proclamavano tutti; con sincerità evidente, perchè essendo morto, nessun interesse lo legava a quei giornalisti; e perciò annegandosi egli compirebbe una corbelleria. E questa era la ragione del buonsenso.
Ecco l’efficacia d’un giusto conforto! ecco la necessità della logica! Doveva lamentare d’aver deposto il paletot con in tasca la lettera, sul ponte. Ma se non avesse deposto il paletot, non si sarebbe convinto della sua postuma gloria. Doveva lamentare di non essersi annegato subito. Ma se si fosse annegato subito non avrebbe appreso che annegarsi per debiti è una corbelleria. E, d’altra parte, non impunemente si scrive a un questore «mi uccido»; giacchè il ridicolo è anche peggio dell’onta, nè v’è cosa che più muova a disprezzo e a riso del venir meno per viltà a una faccenda seria come il suicidio. Ah! che errore non essersi buttato nell’acqua la sera innanzi mentre passava il birocciaio! Buttarcisi ora, in vista a qualcuno il quale lo salvasse, sarebbe peggio che peggio! A quest’ora nell’opinione pubblica egli era morto; cadavere era, quando a mente fredda (e si sentiva tutto intirizzito dal freddo della notte) rifletteva che alla fine il diavolo non è brutto come si dipinge e i creditori non sono crudeli quanto s’imagina; che agli artisti meritevoli della stima universale non mancò mai, alla fine, un insperato soccorso; che se egli, da quell’uomo coraggioso che era, avesse vinta l’ultima battaglia, l’avvenire l’avrebbe consolato di gloria e di quattrini. Morire, misero Bonarca, quando a’ suoi occhi d’artista natura e vita apparivano così belle, pur nel grigio mattino autunnale, tra i miasmi del padule e nella desolazione dell’abituro ov’egli era tornato a gemere! Oh la natura! Udiva il cinguettare dei passeri; un lontano abbaiare; un lontano scampanare a festa e, giocondo, lo squasso dello sciacquatoio. Oh ammirare ancora una volta il sole, il verde!
Per vedere, si affacciò alla finestra…. Ma si ritrasse d’urto, atterrito: due carabinieri, preceduti da un signore nero, in abito nero…. (Forse l’amico Rosta? Il delegato Rosta? il compagno delle partite a biliardo?…) si avvicinavano al mulino. Ad arrestar chi? lui? per i debiti? per simulato suicidio?… con le pertiche? Rosta! Confuso, spaventato quasi, il maestro s’avvolse nella paglia, si ritrasse in sè….
Le voci s’avvicinavano sempre più; si fermarono proprio sotto la finestra, chiarendosi benissimo la voce dell’amico Rosta. Ma non entrarono.
…. — Che imbecille! poteva ammazzarsi in altro modo. Cinque ore di perlustrazione, signor delegato: siamo proprio stanchi!
— Certo, poteva impiccarsi!
— O farsi saltare il cervello.
E la voce del delegato amico gridò, forse a quelli delle pertiche:
— Spicciatevi, ragazzi!
Poscia:
— Se avesse posseduto un revolver, caro brigadiere, l’avrebbe venduto in piazza….
A chi si riferivano tali parole? Per fortuna l’amico s’interruppe di nuovo a chiedere con voce più alta:
— Si sente? C’è?
Da lungi uno rispose:
— Niente!
Proseguiva il dialogo, mentre proseguiva la misteriosa ricerca.
— Dicono che avesse da dare anche duecento lire al trattore….
— ….E cinquanta alla padrona di casa – fece la seconda voce ignota, del carabiniere. Allora Bonarca fu certo di chi discorrevano.
Rosta aggiunse: – Sfido! Non ne aveva nemmeno da pagare i debiti di gioco. A me, mi doveva le ultime tre partite che gli ho vinte a biliardo.
Ah cane! ah vigliacco! Che voluttà arrivargli addosso con un paio di schiaffi da rovesciarlo e dirgli: – Eccoti la paga delle tre partite, questurino mentitore! – Invece, no, non poteva muoversi; doveva restar lì rannicchiato nella paglia! «Mentitore infame!» Una delle partite, ne aveva vinta: una sola! per caso! «T’insegnerei io a calunniare i morti!»
Di nuovo l’amico s’interruppe a chiedere:
— Niente?
Silenzio. Quando risposero, ripeterono:
— Niente!
Il delegato ripigliava:
— In fondo, però, era un buon diavolo. Ebbe il torto di dar retta ai giornalisti, che per quattro pezzi rubati qua e là e cuciti insieme alla meglio, gli avevano fatto credere che diventerebbe un Mascagni!
Gridarono: – Non c’è!
Non ci poteva essere: Bonarca già si era ricordato che al mulino del canal Torbo si pescavano i cadaveri degli annegati. Coloro che gridavano non c’è erano senza dubbio i suoi becchini.
— Cercate ancora! Cercate!
Il brigadiere frattanto preferiva la Cavalleria Rusticana al Nabucco e stancava vieppiù il delegato; il quale propose:
— Se andassimo a sedere qui dentro? Parve a Bonarca che il pertugio dell’abitacolo si oscurasse all’interporsi d’una faccia e si sentì, con un brivido, perduto. Ma il brigadiere sconsigliava:
— Non sente che tanfo?
E i tre si mossero verso i ricercatori; lasciando il misero in una disperazione così grave e violenta che fu per fracassarsi la testa su la macina. Certo si sarebbe impiccato se si fosse sovvenuto della cinghia con cui usava reggersi i calzoni.
Ma in verità era un dilemma atroce: egli avrebbe dovuto vivere per dimostrare che tutti i calunniatori, come quell’amico infame, avevan torto e che avevano ragione i giornalisti; e vivere non poteva senza meritarsi il disprezzo universale!
Quando, poco dopo, coloro tornarono indietro.
…. — Vuol scommettere che invece d’annegarsi è scappato anche lui?
— Non credo. Non era uno da farcela così da furbo. Dite piuttosto che si sarà buttato giù, con una pietra al collo, in altro sito, per non essere pescato. Del coraggio ne aveva….
Meno male!
— Andiamo, ragazzi! – E i ragazzi – i becchini – trascorsero anch’essi. Uno sbadigliò:
— M’è venuto appetito.
….Indi a poco, per finirla, Bonarca uscì di soppiatto; si diresse non alla parte del borro pieno e profondo, perchè i manigoldi avrebbero forse udito il tonfo, ma alla parte dove per l’acquitrino o per lo scolare di poc’acqua, imputridiva una gora. Ivi non era possibile annegarsi. Se non che ci si affoga anche nel pantano. E d’un salto, deciso com’era, vi balzò.
Giù…. giù…. Nera e fetida l’acqua gli affluì intorno, alla superficie; e sotto, adagio adagio, i piedi, e poi i polpacci, e poi i ginocchi, e poi le coscie erano invischiate, impeciate, prese, strette dalla tenace poltiglia. Giù…. giù….
Egli tendeva gli occhi ai manigoldi che se n’andavano per l’argine opposto. Nè poteva fermarsi: se avesse voluto, non avrebbe avuto ramo o tronco a cui aggrapparsi; nè i piedi incontravano sasso o fondo sodo. Che morte!
Giù…, sebbene più piano; giù…. Gli premeva il ventre quel brago in cui forse pascevano i più schifosi vermi; gli fasciava lo stomaco; gli saliva al petto. Oh Dio!; nè si fermava. Al petto! aveva la pegola al petto! Gli toglieva oramai il respiro; e se gli arrivava alla gola, alla bocca….
Che orribile morte! E ancora giù, adagio adagio…. Maledetta la Sposa selvaggia! … Addio, Elena (la maritata)! Addio, Teresa (la nubile)! addio, Lilì, per sempre!
Non si fermava ancora…. Ancora?
Quando gli parve d’aver toccato fondo, chiuse gli occhi per non vedere la sua morte, così. Ma a voce alta emise il grido degli estremi spiriti:
— Oh Dio!
Non chiedeva aiuto. lui! Nè fu udito. Infatti, non voleva morire?
Più forte gemettero gli spiriti vitali: – Diooò oh! E fu un urlo che finì in modo straziante; atroce, acuto, lungo. Egli però non capiva più nulla. Non volle capire più nulla. Finchè con l’aiuto di Dio, dopo un secolo….
— È lui! Corriamo!
— È Bonarca!
— Là! presto! affoga! – Correvano.
— È lui! Chi sa da quante ore!
— È già spacciato! – Arrivavano.
— No; non vedete? Muove la testa come una galana….
— Una corda…. Le pertiche!
— Maestro! maestro!
Senza dir nulla egli intravvedeva a pochi metri il delegato, i carabinieri, i becchini; e udiva battere il suo cuore, ton, ton, ton, a grande velocità.
— S’attacchi!
— S’attacchi alla pertica!
— Attáccati, amico!
— Forza!
— Coraggio, caro maestro!
Niun dubbio che per essere salvo gli sarebbe bastato afferrarsi alle pertiche. Ma non voleva morire?
— Coraggio! – Forza! – Bravo!
— Tira!
— Viene!
Salvo? Non doveva morire? Sì, ma che colpa n’ebbe lui?
Gli spiriti vitali si aggrapparono essi a quelle pertiche. Alle pertiche, prima; poscia a quelle braccia. Egli si lasciò trascinare e afferrare….
E salvo, ma svenendo davvero nelle braccia dell’amico, balbettò:
— Lasciatemi morire….
Fine.
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TITOLO: Il suicidio del maestro Bonarca
AUTORE: Adolfo Albertazzi
NOTE: Il testo è tratto da una copia in formato immagine presente sul sito Internet Archive (http://www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (http://www.gutenberg.org/) tramite Distributed proofreaders (http://www.pgdp.net/).
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DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Novelle umoristiche : / di Adolfo Albertazzi – Milano : F.lli Treves, 1914 – 314, 8 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)