Il signor Pietro

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 11 minuti


Mio padre morí che avevo sei anni e io giunsi a venti senza sapere come un uomo si comporta in casa. Continuai già diciottenne a scappare nei prati, convinto che senza una corsa e una monelleria la giornata era perduta. Mia madre aveva cercato di tirarmi su duramente come farebbe un uomo, e ne aveva ottenuto che tra noi non usavano né baci né parole superflue, né sapevo che cosa fosse famiglia. Fin che fui debole e dipesi da lei ne ebbi soprattutto paura – una paura che non escludeva le fughe e i ritorni – e quando fui uomo la trattai con impazienza e sopportazione come una nonna.
Adesso avevo pure un lavoro, e anche questo lo dovetti a lei che non solo mi fece studiare ma mi costrinse a correre il rischio di un concorso. Toccò a lei spiegarmi che alla mia età dovevo rendermi indipendente. Beninteso, continuammo a stare insieme e abitavamo in una casa della periferia che mi piaceva perché davanti aveva il viale e la città, dietro – dai finestroni delle scale – certi prati e, piú lontano, macchie d’alberi. Fino a qualche anno prima vivevamo in campagna e per me un orizzonte verde, stradette nei prati, le case fra boschi e canneti, volevano dire libertà e vacanza. Ora che il giorno lo passavo a tavolino, m’accontentavo rientrando la sera di gettare un’occhiata dalle scale sul gran vuoto di cielo e di prati, per assicurarmi che c’erano sempre. Ma, benché quando lasciavo il lavoro mi restassero diverse ore di luce, non passeggiavo mai da quella parte. Mi soffermavo piuttosto alla Stazione Centrale di cui mi piaceva il via-vai, o mi aggiravo in certi rioni lontani dal nostro, dov’erano fabbriche, frastuono, e solitudini improvvise.
Un giorno che rientrando di buon’ora sentii parlare in salotto e la mamma mi disse vivamente attraverso la porta: – Vieni vieni a vedere chi c’è –, ero in uno dei miei umori scontrosi. Esitai sulla porta del salotto e tesi l’orecchio: capii che tacevano nell’attesa di vedermi comparire. Ciò m’irritò tanto, che avrei voluto essere ancora sulle scale. Indietreggiai, gridai qualcosa dal pianerottolo e ridiscesi di corsa.
Sbollito il primo impeto ero già lontano, e ritornando passo passo nell’imbrunire immaginavo senza volerlo la scena. La mamma mi avrebbe accolto a tavola, imbronciata. A quei tempi mangiavamo in cucina, e una cena in due è presto finita, ma io sarei rimasto seduto finché lei non si fosse mossa per sparecchiare. Allora mi sarei cacciato nella mia stanza e seduto alla finestra, fumando nel buio avrei fatto notte. Non avrei osato uscire come al solito lasciandola sola, e di là dalla parete avrei sentito le sue mani sciaguattare nell’acciottolio dei piatti.
Invece trovai la casa illuminata e imbandito in salotto, e la mamma e il signor Pietro che parlavano di me. Da quindici anni non veniva a casa nostra e lí per lí non lo riconobbi, ma lui subito mi chiese di una certa Ninina, di cui pare ero innamorato ai suoi tempi. La mamma aggrottava le ciglia ma sorrideva. Quando ci mettemmo a tavola, avevano già ricordato tante prodezze della mia infanzia che mi pareva di rivivere nella villa dove facevamo campagna, le sere d’estate, quando lui e il babbo arrivavano insieme gridando e ridendo sulla stradetta del cancello, e io li aspettavo correndo a incontrarli e frugando nelle tasche del babbo, finché la mamma non compariva alla balaustra del giardino e si salutavano e discorrevano cosí a distanza, e io tiravo lui per il braccio perché non andasse a casa ma venisse a cenare da noi.
Tra un piatto e l’altro la mamma si alzava per andare in cucina, e lui una volta le tenne dietro continuando a parlare. Io non sapevo intrattenerlo, e quella foga non mi dispiacque. Ci parlò di sua moglie – un’argentina che doveva raggiungerlo a Genova, dove volevano stabilirsi. Del babbo il signor Pietro era stato tanto amico, che da noi si diceva che fosse stata la sua morte a indurlo a girare il mondo. Ma adesso era vecchio – ci disse – era vecchio e voleva fermarsi. Notai che gli occhi scuri e vivaci erano pieni d’energia, e alto stempiato vigoroso com’era tutt’ora, piú che invecchiato il signor Pietro appariva uno di quegli uomini che hanno raggiunto un equilibrio cosí solido da durarci inalterati.
Da quella sera venne spesso a trovarci. Diceva che dovevamo aver pazienza ma era solo, e che noi gli facevamo da famiglia. La mattina la passava a organizzare una certa impresa che doveva dargli stabilità; scriveva lunghe lettere d’affari e aspettava telefonate nel suo albergo. Io passavo a mezzogiorno a salutarlo e fargli l’invito di venire da noi. Lo attendevo seduto nella grande poltrona, tra il va e vieni della gente, e capivo che un uomo che è sempre vissuto all’albergo, nelle stazioni e in viaggio, doveva avere quella faccia e quell’energia. Ne aveva viste di ogni sorta nella sua vita, il signor Pietro, e i primi giorni ne parlò volubilmente con me e la mamma, facendo un gesto della mano come a dire che quel tempo era finito. Ma a me pareva che la sua voce, il suo passo, lo scatto con cui congedava gli interlocutori, e il piglio stesso che usava con me, serbassero il tono della sua vita recente.
Sinora gli avevo nascosto che lavoravo per il Municipio. Ma una volta mentre ci accompagnavamo a casa, vertendo il discorso su mio padre, non potei fare a meno di confidargli il mio impiego. Lui disse distratto: – Fai bene, – e tornò all’argomento che lo interessava.
In casa nostra si era sempre detto che il babbo, se fosse vissuto, voleva fare di me un marinaio, un comandante, perché girassi e vedessi il mondo. Dentro di me gli ero riconoscente per avermi destinato a una vita bella, e se anche la sorte aveva voluto altrimenti non lasciavo per questo di fantasticare mattino e sera, da solo, quando uscivo di casa, che finalmente cominciava il mio gran viaggio, che mi bastava camminare camminare fino in fondo alla città, fino agli incolti dei sobborghi, e qualcosa sarebbe accaduto: voltato l’angolo dell’ultima casa, nel cielo fresco o nei rossori della sera, mi sarebbe apparso il mare, un mare mai visto, immenso e fumante di porti, di spiagge, di fragori. Nella mia idea, anzi, l’immagine di questo spettacolo si mescolava al ricordo svanito del babbo, e sempre ero stato avidissimo di notizie su di lui, di aneddoti, di singolarità sue: non mi stancavo per esempio di ascoltare dalla mamma il racconto della fuga dal collegio, quando mio padre quindicenne aveva dormito per due notti sotto un ponte, e intorno nevicava. Adesso so che frugavo nei miei ricordi, nei miei istinti, in tutta la mia coscienza, per scoprire alla radice le identità della mia natura con la sua, soltanto perché sentivo in lui prefigurato il mio destino.
Che la mamma fin dalla prima sera lodasse al signor Pietro il mio attaccamento per il babbo, mi aveva seccato. Tuttavia non seppi trattenermi e parlando con lui ci tornai. – Tuo padre, – disse allora il signor Pietro, – era un uomo che vedeva giusto e avrebbe anche dato un calcio al Municipio, ma sapeva di dover morire presto. Ciò gli tolse ogni iniziativa –. Rimasi male e m’indussi a tacere. La notizia che il babbo in quegli anni che io uscivo dall’infanzia aveva presentita la morte, non mi era nuova. Lo ricordavo agitato e rosso in faccia, una sera lontana che si era messo alla finestra e vociava rauco che si sentiva soffocare, che per lui non c’era piú aria.
— Sei innamorato? – mi chiese il signor Pietro guardandomi di sfuggita, e fu tanto il mio dispetto che andai lí lí per piantarlo e scapparmene a casa. Ma andavamo appunto verso casa, me lo sarei ritrovato davanti e le sue canzonature sarebbero durate di piú. M’accontentai quella sera di rimetterli sul discorso dei loro tempi, e la mamma che mi aveva sempre insegnato a non cedere all’ira portandomi l’esempio del babbo che, pur sapendo di dover morire, era vissuto sopportando, disse quella sera che, se Enrico avesse fatto la vita di Pietro, non sarebbe forse morto perché ciò che l’aveva ucciso era stato il rassegnarsi, l’incaponirsi in un lavoro sedentario, senza prendersi mai uno svago. Mi sorprese la voce diversa dal solito, piú energica e quasi astiosa, con cui finí questo discorso. Pareva che sfogasse un rancore. Meno male che il signor Pietro cominciò a raccontare di quando mio padre la corteggiava, e a lui toccava intrattenere il cane mentre il babbo saliva nientemeno che una scala a pioli per deporre un bigliettino in una certa colombaia. Poi si trovavano ai balli. La mamma allora aveva un celebre vestito celeste che voleva dire qualcosa; quando invece compariva in bianco, voleva dire il contrario. La mamma adesso non se ne ricordava piú; né ritrovarono, per quanto cercassero, il senso del messaggio. – Forse Enrico lo saprebbe, – osservò il signor Pietro, – se fosse con noi.
Una cosa che non avrei osato dire a nessuno, e meno che mai al signor Pietro, era che lo invidiavo specialmente perché viveva all’albergo. Lui c’entrava e ne usciva senza farci caso, ma in quei pochi minuti che passavo ad attenderlo io studiavo avidamente le persone e i bagagli, piú i bagagli che le persone, giacché queste, a uno a uno, erano le solite facce che si vedono per strada o sul tram, mentre certe valige multicolori, tempestate di etichette, mi parlavano come vive. Del signor Pietro non vidi neanche una valigia perché lo incontrai sempre nell’atrio, né lui amava raccontare dei suoi viaggi tranne il poco indispensabile. Era piuttosto preoccupato per le sue telefonate, e un giorno che il portiere gli diede una lettera, di cui vidi a volo che il francobollo era esotico, la guardò appena e se la cacciò in tasca. Due giorni dopo, all’improvviso, disse fermandosi sulla porta dell’albergo che sua moglie era a Genova. L’indomani sarebbe partito.
Venne a fare la cena d’addio a casa nostra e portò lo spumante, per tenersi allegro, disse, perché sua moglie non tollerava l’allegria e quello era l’ultimo che avrebbe bevuto. La mamma ci guardò bere preoccupata, ma quando il signor Pietro brindò all’avvenire, levò anche lei con le dita ossute la coppa e toccò la sua, e poi la mia, con molta gravità. Non la vidi negli occhi, perché avevo già sorseggiato e nuotavo in altri pensieri. Né la guardai in faccia quando dissi che uscivo col signor Pietro per accompagnarlo all’albergo, ma ricordo che ci raccomandò a tutti e due di non prendere freddo.
Era notte di nebbia e non so perché avessi voluto uscire col nostro ospite. Probabilmente, siccome l’avevo già fatto altre volte, seguii l’abitudine. Ma anche mi pareva impossibile che se ne andasse cosí, come una visita, senza tornare sul discorso di mio padre e del mio avvenire. Dentro di sé pensava certo che io dovessi cambiar vita.
La strada era allineata di cumuli di neve, e tra un banco e l’altro di nebbia scintillava qualche stella. Feci notare al signor Pietro che l’indomani sarebbe stato sereno, un’alba rossa di nebbia e di sole. Lui fiutò il freddo e mi chiese a che ora me ne andassi all’ufficio. Gli risposi che uscivo di casa sul presto, perché, prima di chiudermi nel mio sotterraneo, mi piaceva girare per le strade deserte. Lavoravo al pianterreno, ma pronunciai sotterraneo quasi con le lacrime agli occhi. – Fa freddo, – brontolò il signor Pietro. – Beviamo qualcosa?
La prima insegna di caffè fu la nostra. Io tendevo a sedermi ma il signor Pietro ordinò due vini caldi al banco. – Diamine, – disse, – per scaldarsi non bisogna sedersi. Alla tua età non facevo cosí. Se mai si gira, come fanno i marinai, da un caffè all’altro.
Tracannai quel vino. Il signor Pietro lo sorseggiava adagio sporgendo il labbro dal colletto di pelliccia, e per tutto il tempo ch’ebbe in mano il bicchiere non disse parola. Era davvero vecchio, ma i capelli biondicci e gli occhi pronti ne facevano un uomo vivo. La donna anemica e scura che ci aveva serviti, lo guardava con la coda dell’occhio, come incantata.
— Ti piace, eh? stai meglio? – mi disse quand’ebbe finito, e una volta in strada parve piú allegro. Si strinse nella pelliccia e osservò melanconico: – Se ne fan tante a questo mondo per restare a galla, e invece basterebbe un bicchiere di vino –. Quando fummo davanti all’albergo, parlava ancora del vino e diceva che per chi non ha terre è difficile farsi una buona cantina. Di qui venne a toccare della villa che voleva comprarsi, di cui sinora aveva parlato soltanto con mia madre, e mi spiegò che, se non fosse stato della moglie, lui si sarebbe relegato in campagna. Ma sperava di farne per lo meno una casa vinicola, e da Genova vendere per mare dove sapeva lui. Intanto eravamo entrati, e lui disse: – Vogliamo assaggiare che vino hanno qui?
A un tavolino della trattoria annessa, si fece portare una bottiglia vecchia da un cameriere che chiamava Giacomo. Sotto il paralume, il morbido colore del vino risaltava sul candore della tovaglia. Anche il signor Pietro aveva gli occhi ammorbiditi. Soltanto accostando il bicchiere smise di chiacchierare.
— Noi non facciamo come i marinai, – dissi guardandolo. – Noi non ci siamo seduti.
Non so perché parlai quella sera. La mia timidezza scontrosa andò fusa a quel calore cordiale e all’improvvisa benevolenza del signor Pietro. Se avevo ancora gli occhi umidi, non era certo per la pena del distacco. Chiesi di punto in bianco al signor Pietro se non aveva per me un posto di marinaio, di cameriere su qualche sua nave. Gli dissi che o lui mi liberava da quella vita o io finivo come il babbo. Parlai con foga, e ricordo che non osavo fermarmi per paura dell’inevitabile risposta.
Ma il signor Pietro mi guardò gravemente, e versandomi dell’altro vino ebbe l’aria addolorata. Storse la bocca e borbottò ch’ero uno stupido. Perché non gliel’avevo detto prima? – Io non sono padrone di navi, – disse. – Ma conosco chi le comanda. Non ti conviene imbarcarti da mozzo. Chi comincia dal basso non combina mai niente –. Mi guardò di traverso, con soddisfazione. – Mi pare di vedere tuo padre, – brontolò. – Di cos’hai paura? Si comincia coi soldi e poi si viaggia in prima classe.
Gli dissi che io chiedevo soltanto di lasciare la riva, di respirare con un altro fiato e raccontai del vecchio sogno di mio padre, raccontai dei miei sogni, a lui che mi guardava fisso, sporto nell’alone di luce, con un sorriso tra incredulo e macchinale.
Di tanto in tanto gravemente interloquiva. Gli parlai di velieri e di porti d’approdo, e anche lui, riscaldato, mi parlò dei suoi porti, dei suoi arrivi, dei suoi guadagni. Discutemmo se era meglio un veliero o una motonave. Mi spiegò, ma già lo sapevo, che i velieri sono ormai mosche bianche, ruderi da museo, navi-scuola. Quando sentí che il mare non l’avevo mai veduto, cambiò faccia di botto, fu costernato. Mi strinse la spalla e mi chiese perché l’indomani non partivo con lui. Ci mettemmo d’accordo che avrebbe scritto da Genova non appena mi avesse trovato un buon posto. Subito dopo, mi parve stanco, lo vidi assonnato e mi alzai per andarmene. Brontolò senza muoversi, poi mi tese la mano.
Quella notte non tornai a casa. Entrai invece nel caffè della Stazione, per godermi, da solo, il mio avvenire e gustare la mia nuova indipendenza. Ero ubriaco ma non di vino, sentivo anzi in me una chiarezza e un ardire che poi non ho provato mai piú. Verso l’alba ero stanco, e tuttavia non avevo sonno. Rientrai di buon umore.
Non fu facile calmare mia madre, ma il pensiero che tra poco avrebbe dovuto abituarsi a un’assenza ben diversa mi rese buon figliolo. Naturalmente non voleva credere che avessi passato la notte da solo, e questa sua idea mi divertiva. Sarebbero venute anche le donne, piú tardi.

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Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il signor Pietro
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)