51 Pegasi b, la cui scoperta fu annunciata alla fine del 1995, fu il primo pianeta extrasolare trovato in orbita intorno a una stella di sequenza principale come il Sole: il primo di una lunga serie. È anche uno dei pochi esopianeti ad avere avuto un nome vero e proprio, anzi due (Bellerofonte e Dimidium).

La scoperta del primo esopianeta in orbita intorno a una stella di sequenza principale fu il risultato di una corsa all’ultimo sangue, o meglio all’ultimo fotone, tra due team di ricercatori. La spuntarono per soli 6 giorni Michel Mayor e Didier Queloz dell’Università di Ginevra. Il 6 ottobre 1995 i due annunciarono ufficialmente alla comunità scientifica che, usando lo spettrografo ELODIE dell’Observatoire de Haute-Provence in Francia, avevano ottenuto prove convincenti dell’esistenza di un pianeta di taglia gioviana intorno a 51 Pegasi, una stella distante circa 50 anni luce dal sistema solare. Il 12 ottobre Geoffrey Marcy e Paul Butler confermarono la scoperta, sulla base dei dati che avevano accumulato in sole quattro notti di osservazione usando lo spettrografo Hamilton del Lick Observatory in California. Ironicamente, i due astronomi americani, che stavano cercando anche loro esopianeti intorno a stelle di tipo solare, avevano escluso fino ad allora 51 Pegasi dal gruppo di stelle sotto osservazione, perché il catalogo dell’Osservatorio la dava erroneamente come una subgigante, mentre era invece una stella molto simile al Sole, un bersaglio ideale per quel tipo di ricerca.

Al pianeta fu attribuito il nome convenzionale di 51 Pegasi b, con la lettera minuscola ‘b’ che indica il primo pianeta nel sistema planetario della sua stella. Gli studi che descrivevano la storica scoperta furono pubblicati rispettivamente su Nature il 23 novembre 1995 e su The Astrophysical Journal il 1° giugno 1997.

I tre pianeti della pulsar

Ma torniamo per un momento alla precisazione iniziale: il primo esopianeta in orbita intorno a una stella di sequenza principale. Il fatto è che 51 Pegasi b non è stato il primo pianeta extrasolare in assoluto a essere stato scoperto. Cinque anni prima, nell’ormai lontano 1990, l’astronomo polacco Aleksander Wolszczan aveva già annunciato la scoperta di due corpi di massa planetaria, più un terzo in attesa di conferma. I tre pianeti orbitavano però non una stella di sequenza principale come il Sole, ma una stella morta. Si trattava della pulsar PSR B1257+12, situata a circa 2.300 anni luce dalla Terra nella costellazione della Vergine. Le pulsar sono stelle di neutroni in rapida rotazione, i resti superdensi di astri di grande massa esplosi come supernovae. I tre pianeti intorno a quella pulsar – l’esistenza del terzo fu confermata nel 1994 – furono scoperti in base alle lievi anomalie temporali riscontrate nella pulsazione ritmica prodotta dalla rotazione della stella di neutroni. Le anomalie erano state rilevate con il radiotelescopio più grande del mondo: la parabola da 305 metri di Arecibo, nell’isola di Portorico. La descrizione della scoperta fu riportata in un famoso articolo pubblicato su Nature a gennaio del 1992.

I tre pianeti in orbita intorno a PSR B1257+12 potrebbero essere, per così dire, pianeti di seconda generazione, nati cioè da un disco di detriti formatosi intorno al resto stellare, dopo l’esplosione di supernova che distrusse il progenitore (ci sono indizi, trovati dal telescopio spaziale Spitzer, dell’esistenza di un disco di questo tipo intorno a una pulsar). Comunque sia, quei tre pianeti orbitanti una stella morta furono sì i primi pianeti extrasolari mai scoperti, il che li consegna di diritto alla storia dell’astronomia, ma rimasero anche una sorta di unicum: un sistema del tutto inusuale, di cui non si conoscono analoghi.

Rappresentazione artistica della pulsar PSR B1257+12 e del suo insolito sistema planetario. L'aurora visibile sul polo nord del pianeta più lontano è un possibile effetto della pioggia di radiazioni a cui sono esposti quei pianeti, causata dal potentissimo campo magnetico rotante della pulsar. Credit: NASA/JPL-Caltech
Rappresentazione artistica della pulsar PSR B1257+12 e del suo insolito sistema planetario. L’aurora visibile sul polo nord del pianeta più lontano è un possibile effetto della pioggia di radiazioni a cui sono esposti quei pianeti, causata dal potentissimo campo magnetico rotante della pulsar. Credit: NASA/JPL-Caltech

Una stranezza inattesa: i gioviani caldi

51 Pegasi b fu invece tutt’un’altra cosa. Non solo fu il capostipite di un’intera classe di pianeti – i cosiddetti gioviani caldi – di cui non si sospettava l’esistenza, ma fu il primo di una lunga schiera di pianeti extrasolari orbitanti stelle di sequenza principale, una schiera che cresce di giorno in giorno con una progressione apparentemente inarrestabile. L’Atlante dei Nuovi Mondi (New World Atlas) tenuto dal JPL della NASA conta, al 25 gennaio 2016, 5.636 esopianeti, dei quali 1.935 risultano confermati attraverso almeno due diversi metodi di rilevazione.

Tra i tanti pianeti finora scoperti, ben 1.121 sono dei gioviani caldi come 51 Pegasi b. Ma cosa significa esattamente «gioviano caldo» (Hot Jupiter in inglese)? Sono chiamati così pianeti di massa e raggio simili a Giove che orbitano intorno alle loro stelle a distanza ravvicinatissima: pochi milioni di chilometri, che si traducono in anni della durata di circa una settimana terrestre o spesso meno. A causa della grande vicinanza alla loro stella, sono bloccati in rotazione sincrona (rivolgono sempre la stessa faccia alla stella) e sono sottoposti a una potentissima irradiazione. Soffrono pertanto di condizioni climatiche estreme: temperature superficiali ben superiori ai 1.000 gradi, forti venti che distribuiscono il calore anche nell’emisfero non illuminato, atmosfere «gonfie» come soffici palloni, che avvolgono questi pianeti rendendo difficile la determinazione delle loro esatte dimensioni.

I gioviani caldi sono anche un mistero per la planetologia: secondo le teorie correnti, non è possibile che dei giganti gassosi si formino a così breve distanza da una stella. Gli astronomi pensano, invece, che questi pianeti nascano oltre la cosiddetta linea del ghiaccio (frost line) e che solo successivamente, per via di interazioni gravitazionali non ancora ben comprese, migrino nella strana posizione in cui, grazie alle moderne tecnologie, sono stati scoperti.

Il metodo della velocità radiale

Per tornare a 51 Pegasi b, la sua scoperta si deve al metodo della velocità radiale, basato sulla spettroscopia Doppler. Alla base di questo metodo ci sono gli sviluppi tecnologici compiuti tra gli Anni ’80 e ’90 del secolo scorso nella costruzione di spettrografi di altissima precisione, in grado di misurare variazioni minuscole nella posizione delle righe spettrali associate alla luce stellare, spostamenti nell’ordine di poche parti per milione. Quando una stella si avvicina alla Terra, la posizione delle sue righe spettrali vira leggermente verso il blu. Ciò perché la lunghezza d’onda della luce diminuisce per via del cosiddetto effetto Doppler. Viceversa, se la stella si allontana da noi, le righe si spostano verso il rosso, perché la lunghezza d’onda della luce che ci arriva dalla stella aumenta.

Se una stella è sottoposta all'attrazione gravitazionale di un pianeta, ruota intorno al baricentro del sistema stella/pianeta, avvicinandosi alla Terra e allontanandosene periodicamente. La luce che ci arriva dalla stella mentre si avvicina a noi ha una lunghezza d'onda minore (è spostata verso il blu), mentre la luce che la stella ci invia mentre si allontana ha una lunghezza d'onda maggiore (è spostata verso il rosso). Questo fenomeno prende il nome di effetto Doppler e può essere utilizzato per determinare il periodo orbitale e altre caratteristiche del corpo non luminoso che influenza con la sua gravità il moto della stella. Credit: ESO
Se una stella è sottoposta all’attrazione gravitazionale di un pianeta, ruota intorno al baricentro del sistema stella/pianeta, avvicinandosi alla Terra e allontanandosene periodicamente. La luce che ci arriva dalla stella mentre si avvicina a noi ha una lunghezza d’onda minore (è spostata verso il blu), mentre la luce che la stella ci invia mentre si allontana ha una lunghezza d’onda maggiore (è spostata verso il rosso). Questo fenomeno prende il nome di effetto Doppler e può essere utilizzato per determinare il periodo orbitale e altre caratteristiche del corpo non luminoso che influenza con la sua gravità il moto della stella. Credit: ESO

L’esatta quantificazione degli spostamenti verso il blu e verso il rosso permette di tracciare nel tempo una mappa delle variazioni della velocità radiale della stella, cioè di quanti metri al secondo essa si avvicina alla Terra o se ne allontana periodicamente.

Sono proprio queste periodicità che costituiscono l’essenza del metodo della velocità radiale. La gravità, infatti, è una forza che agisce su tutti i corpi in base alla loro massa: i pianeti sono costretti a orbitare intorno alle stelle, molto più massicce, ma anche queste subiscono una trazione gravitazionale da parte dei pianeti che girano loro intorno. Più un pianeta è massiccio e vicino alla sua stella, più nitida e riconoscibile sarà l’impronta lasciata sulla velocità radiale di quest’ultima. Giove, che non è particolarmente vicino al Sole ma è molto massiccio, impone una variazione di 12,4 metri al secondo alla velocità radiale della nostra stella, seguendo un ciclo di 12 anni, che corrisponde alla durata di un anno gioviano.

I moderni spettroscopi sono in grado di misurare variazioni della velocità radiale di pochi metri al secondo su stelle lontane decine o addirittura centinaia di anni luce, permettendo così di scoprire pianeti della massa di Giove e spesso anche minore, in grado di produrre oscillazioni periodiche nel moto stellare. 51 Pegasi b fu scoperto appunto in questo modo: misurando la periodicità nelle variazioni della velocità radiale della sua stella ed escludendo che tali variazioni potessero essere causate da qualcosa di diverso da un pianeta (pulsazioni o macchie stellari, una compagna binaria, una nana bruna). In sostanza, 51 Pegasi b non fu mai osservato direttamente dai suoi scopritori, ma – nonostante l’iniziale scetticismo, poi rientrato, dell’astronomo David F. Gray – sappiamo al di là di ogni dubbio che c’è; e, sempre grazie alla spettroscopia, sappiamo anche diverse cose su come è fatto.

Il grafico delle variazioni della velocità radiale di 51 Pegasi, tratto dallo studio di Marcy, Butler e altri. Credit: The Astrophysical Journal, 481:926-935, 1/6/1997
Il grafico delle variazioni della velocità radiale di 51 Pegasi, tratto dallo studio di Marcy, Butler e altri. Credit: The Astrophysical Journal, 481:926-935, 1/6/1997

Il grafico riporta le misurazioni della velocità radiale di 51 Pegasi, eseguite su un arco di dieci mesi dal gruppo di Marcy e Butler. Ogni pallino nero corrisponde a un campionamento della velocità radiale. Come si vede, tutti i campionamenti si dispongono quasi perfettamente lungo una linea sinusoidale, che rappresenta un’orbita pressoché circolare di un corpo planetario molto vicino alla stella e relativamente massiccio, in grado di produrre su quella una variazione della velocità radiale – dal punto zero alla massima ampiezza in un senso o nell’altro – di 56,04 metri al secondo, con un periodo ricorrente di 4,23 giorni (equivalente alla durata di un anno su 51 Pegasi b).

L’errore medio di ogni misurazione riportata nel grafico è intorno ai 5 metri al secondo: un rapporto segnale/rumore che non lascia adito a dubbi quanto all’interpretazione planetaria, tanto più perché i dati ottenuti da Marcy e colleghi non facevano che confermare i risultati molto simili ottenuti poco tempo prima da Mayor e Queloz in Europa.

La stella 51 Pegasi

51 Pegasi, nota anche come HD 217014, si trova nella costellazione del cavallo alato Pegaso, a una distanza dal sistema solare calcolata in 15,361 parsec, pari a 50,1 anni luce. È classificata con il tipo spettrale G2 V, esattamente come il Sole, ma è leggermente più grande e massiccia della nostra stella: il diametro è pari approssimativamente a 1,53 milioni di km (circa il 10% in più del Sole), mentre la massa è di circa 1,04 masse solari. L’accelerazione di gravità al livello della fotosfera è di 229 metri al secondo per secondo.

La magnitudine visuale è di 5,46. A una distanza di 50 anni luce, ciò corrisponde a una magnitudine assoluta di 4,52 e a una luminosità 1,32 volte maggiore della luminosità solare. La temperatura effettiva è di 5.787 ± 25 K, praticamente uguale a quella del Sole. Il contenuto di metalli è invece circa 1,58 volte maggiore rispetto alla nostra stella ([Fe/H]=0,20 ± 0,05]). Anche la velocità di rotazione di 51 Pegasi è abbastanza simile a quella del Sole: 2,6 ± 0,3 km/s, secondo il valore riportato in un articolo del 2013, basato sullo studio dell’attività cromosferica. Il periodo di rotazione presunto è di 28,7 giorni, anche questo molto simile al periodo solare. 51 Pegasi è però, a quanto sembra, più evoluta della nostra stella: la sua età è stimata in 6,89 miliardi di anni (contro i 4,57 miliardi di anni del Sole), con un’incertezza di circa mezzo miliardo di anni.

La velocità radiale intrinseca, al netto dell’influenza del pianeta che le ruota intorno, è di -33,152 km/s: si avvicina, cioè, al sistema solare a poco più di 33 chilometri al secondo.

La stella 51 Pegasi ripresa nella luce visibile dal telescopio spaziale Hubble il 7 agosto 1998 con lo strumento WFPC2. Credit: STScI/NASA
La stella 51 Pegasi ripresa nella luce visibile dal telescopio spaziale Hubble il 7 agosto 1998 con lo strumento WFPC2. Credit: STScI/NASA

51 Pegasi b in cifre

Il primo dato su 51 Pegasi b che emerge dalla misurazione della velocità radiale della stella è il periodo annuale: il pianeta descrive un’orbita completa in esattamente 4,231 giorni, pari a 4 giorni, 5 ore, 32 minuti e 38 secondi (il suo anno è oltre 86 volte più breve di un anno terrestre).

Dal periodo si ricava il semiasse maggiore dell’orbita, che è di 0,052 unità astronomiche, cioè appena 7,8 milioni di km. A causa della grande vicinanza alla stella, le forze di marea che agiscono sul pianeta hanno circolarizzato nel tempo la sua orbita, annullandone quasi completamente l’eccentricità, il cui valore attuale è di appena 0,013 ± 0,012.

51 Pegasi b ruota così vicino alla sua stella che, se potessimo osservarla dalla distanza del pianeta, ci apparirebbe nel cielo come un disco abbagliante del diametro di 10 gradi: lo stesso di una palla da tennis tenuta davanti agli occhi con il braccio teso (un diametro angolare 20 volte maggiore di quello del Sole osservato dalla Terra). L’irradiazione che 51 Pegasi b riceve dalla stella orbitando a così poca distanza è 480 volte maggiore dell’irradiazione solare a cui è esposta la Terra. Ciò dà un’idea di quale inferno di calore avviluppi questo pianeta, la cui temperatura è stimata in quasi 1.300 K.

Per quanto riguarda la massa di 51 Pegasi b, la misurazione della velocità radiale della stella permette di stabilirne solo il limite inferiore, che è di circa 0,45 masse gioviane (143 volte la massa della Terra), nel caso di un’orbita inclinata di 90 gradi rispetto al nostro punto di vista. Questa incertezza è dovuta al fatto che non conosciamo l’esatta inclinazione dell’orbita del pianeta rispetto alla Terra. A proposito della massa e dell’inclinazione, però, sono stati fatti di recente degli importanti passi in avanti. In uno studio pubblicato ad aprile 2015 su Astronomy & Astrophysics, J. H. C. Martins e gli altri 13 autori spiegano infatti di essere riusciti per la prima volta, grazie a una sofisticata procedura di elaborazione dei dati, a rilevare la luce riflessa di 51 Pegasi b negli spettri ad alta risoluzione della stella, acquisiti nel 2013 con lo spettroscopio HARPS del telescopio da 3,6 metri dell’ESO in Cile.

Ciò ha permesso loro di ottenere delle informazioni più precise sul pianeta. Innanzitutto hanno potuto determinare la velocità del moto orbitale di 51 Pegasi b, che è risultata di 132 km/s. Da questo dato, combinato con la massa della stella, stimata in 1,04 masse solari, hanno poi derivato la massa reale del pianeta. Il valore ottenuto è stato di 0,46 masse gioviane con un’incertezza di 0,06 in più e 0,01 in meno. Si tratta di un valore molto vicino alla massa minima di 0,45 masse gioviane, derivata dal solo calcolo della velocità radiale della stella. Ciò pone un vincolo sull’inclinazione dell’orbita di 51 Pegasi b rispetto all’osservatore terrestre, che gli autori hanno così potuto finalmente definire in 80 gradi, con un’incertezza di 10 gradi in più e 19 in meno.

In base al rapporto tra il flusso della luce stellare e l’intensità della luce riflessa attribuita al pianeta, i ricercatori hanno potuto infine stabilire dei limiti approssimativi anche sulle dimensioni di 51 Pegasi b, basati su assunzioni ragionevoli circa la sua albedo (cioè la capacità di riflettere la luce proveniente dalla stella). È risultato che, per una albedo di 0,66, il raggio del pianeta è di 1,6 ± 0,2 raggi gioviani, mentre per una albedo di 0,5, il raggio aumenta fino a 1,9 ± 0,3 raggi gioviani. Insomma, meno riflettente è il pianeta, maggiore è il suo raggio.

In conclusione, 51 Pegasi b è con molta probabilità un gigante gassoso molto più grande di Giove, ma anche molto meno denso, avendo una massa pari a meno della metà di quella del nostro pianeta gigante. I suoi strati esterni sono probabilmente gonfi ed estremamente rarefatti, in virtù della tremenda irradiazione a cui il pianeta è sottoposto (un destino comune, del resto, a buona parte dei gioviani caldi). Gli astronomi pensano che, a causa del grande calore accumulato e trattenuto, 51 Pegasi b emetta un bagliore rossastro e che abbia un’atmosfera percorsa da nubi di silicati.

Rappresentazione artistica di 51 Pegasi b. Credit: NASA JPL
Rappresentazione artistica di 51 Pegasi b. Credit: NASA JPL

La questione del nome

Non c’è niente di più triste dei nomi convenzionali degli esopianeti: il nome della stella, seguito da una lettera alfabetica minuscola, a partire dalla ‘b’.

Per un oggetto di importanza storica come 51 Pegasi b, il primo pianeta extrasolare scoperto intorno a una stella di sequenza principale, ci voleva qualcosa di più di un nome convenzionale. A battezzare informalmente questo gioviano caldo con un nome meno asettico pensò uno degli autori dello studio che confermava la scoperta, Geoffrey Marcy, divenuto in seguito il più prolifico cacciatore di esopianeti in attività. Lo chiamò Bellerofonte, dal nome dell’eroe della mitologia greca che, cavalcando il cavallo alato Pegaso, sconfisse la mostruosa chimera.

L'eroe Bellerofonte cavalca il cavallo alato Pegaso. Illustrazione di Mary Hamilton Frye (1905 circa)
L’eroe Bellerofonte cavalca il cavallo alato Pegaso. Illustrazione di Mary Hamilton Frye (1905 circa)

Ma alla fine del 2015 51 Pegasi b ha ottenuto un vero e proprio nome ufficiale, sancito dalla IAU, l’Unione Astronomica Internazionale, al termine di un concorso che era partito nel 2014. Al concorso, nato per battezzare 15 stelle e 32 esopianeti, sono pervenuti alla fine oltre 573.000 voti validi. Nel caso di 51 Pegasi b e della sua stella, la IAU ha scelto le proposte formulate da un club astronomico di Lucerna, in Svizzera. Così, adesso 51 Pegasi b si chiama ufficialmente Dimidium, una parola latina che significa ‘metà’: il nome fa riferimento alla massa del pianeta, che è pari all’incirca alla metà di quella di Giove. La stella è stata chiamata invece Helvetios, dal nome latino della tribù celtica degli Elvezi, che abitava la Svizzera durante il Medioevo.

Un’ultima curiosità: al termine del concorso hanno ricevuto dei nomi propri anche la pulsar PSR 1257+12 e i suoi tre pianeti, i primi in assoluto scoperti al di fuori del sistema solare nella storia dell’astronomia. Come si addice a una stella morta, la pulsar è stata chiamata Lich, da una parola dell’inglese antico che significa ‘cadavere’ e che, nell’immaginario fantasy moderno, indica una creatura non-morta dotata di poteri magici. I tre pianeti, invece, sono stati chiamati rispettivamente Draugr, Poltergeist e Phobetor, altri tre nomi che hanno a che fare con creature e fenomeni che sfidano la morte e le leggi fisiche.

Credit: Science Photo Library
Credit: Science Photo Library

Michele Diodati scrive sul blog astronomico Media Meraviglia.