Il polso.
di
Adolfo Albertazzi
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Nel settecento: per i mariti d’oggidì.
Difficile dire se il conte La Fratta amasse più sè stesso o la marchesa Arnisio; ma poichè per acquistarsi dal mondo e dalla marchesa la lode di cavaliere perfetto e per secondare gli stimoli del cuore insisteva da un anno a servire con cura paziente e con indulgente costanza una dama così mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava troppo sè stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava l’Arnisio.
A dire il vero, e a sua scusa, ella esercitava tuttavia su di lui l’attraenza dell’ignoto e del nuovo; la virtù quasi d’un fascino arcano; quantunque, a dire il vero, egli in un anno n’avesse conosciute molte singolarità e usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse bene contrapporsi e quando fosse meglio accondiscendere a quello che alla dama piacesse affermare; già aveva appreso a distinguere su le sue labbra rosate tutti i gradi di sprezzante pietà e d’ironia sottile che vi segnasse il sorriso; già comprendeva tutto quanto comandasse o esprimesse dalla sua abile mano il ventaglio irrequieto: anche, tra lui e lei, quand’ella aveva l’emicrania – ed era spesso – l’esperienza e la consuetudine avevano sancita una specie di prammatica ai modi e ai discorsi d’entrambi; e a lui toccava parlare di mille cose per divagarne il pensiero doloroso e pesante, e a lei bastava rispondere, a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sì, sempre sì.
Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non sapeva: se ella avesse il cuore o non l’avesse. «L’ha o non l’ha?» egli si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno più nella ricerca dell’ignoto n’era più avvinto dal fascino; cosicchè ogni giorno più s’innamorava della dama e di sè, che con sua gloria resisteva a servirla.
Finalmente l’Arnisio, agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e alle arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi, cominciò ad accarezzarlo di certe occhiate tanto lunghe e sentimentali ch’egli credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore; dunque il cuore l’aveva! Nè il cuore della marchesa doveva battere per altri che per lui, che da un anno la serviva con cura paziente e con indulgente costanza; non per altri. Ond’ecco La Fratta a studiare di quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto della graziosa Arnisio. Perchè ella non aveva con lui quelle espansioni compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o spontanei di gelosia che tutte le donne amando, o fingendo d’amare, sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò così i suoi occhi e il suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che, ahimè!, troppo credette d’apprendervi.
Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni di donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan forse cagione non solo dall’indole bizzarra, ma da un intimo, segreto travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei, spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta, dicevan forse che il suo spirito vagava dietro un inafferrabile bene, finchè, con uno sforzo mal nascosto di volontà, non le riuscisse di riaversi o mentire; e allora abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un tempo e vezzosa. Anche, l’assiduo disturbo dell’emicrania, invece che la simulazione d’un malanno alla moda, poteva essere la dissimulazione di un urgente rovello; gli sdegni di lei contro lui non erano forse, come egli aveva sempre creduto, modi di civetteria sagace, ma più tosto non rattenuti impeti di sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate, quelle occhiate lunghe e sentimentali, potevano non essere tardi e magri compensi alle fatiche della sua servitù, ma, tutt’al più, segni di compassione per lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore l’ho, oh se l’ho!; ma non per voi, povero conte!» Or bene, il conte La Fratta non disse alla marchesa Arnisio come Publio a Barce nel melodramma del Metastasio:
Se più felice oggetto
Occupa il tuo pensiero,
Taci, non dirmi il vero.
Lasciami nell’error!
È pena che avvelena
Un barbaro sospetto;
Ma una certezza è pena
Che opprime affatto un cor;
no: i due amori, l’uno della dama e l’altro di sè, che premevano l’animo del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo sospingevano ad accertare la verità; l’uno, perchè chi è innamorato talora dubita a torto; l’altro, perchè, se non dubitasse a torto, egli ritraendosi a tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di cavaliere di spirito.
Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d’un patito che con zelante servitù e con dabbenaggine inconscia facesse riparo all’amore ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire. O, dunque, la marchesa amava alcuno di quelli che le farfalleggiavano intorno, il quale, come minore del conte, ella non potesse assumere a servirla senza scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva, incurante o ignaro di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa. E come ella avrebbe lasciato La Fratta nel dubbio, ed egli non voleva restarci, egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma invano: tal donna era l’Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna circostanza perdeva il predominio di sè; nè mai, appuntando i suoi sospetti su questo o su quello che a lei fosse d’intorno, il conte riusciva a sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore, di smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto, fosco, quasi spaventevole; e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a diventare ridicolo.
Ond’eccolo a richiedere di consiglio l’abate Fantelli: un abate di umore giocondo e di mente arguta, caro a tutte le dame di cui conosceva le corde più sensibili al tocco delle sue allusioni e de’ suoi frizzi, nè men caro agli amici, cui giovava d’esperienza e di senno.
L’abate consigliò: — Tastale il polso.
Come La Fratta non comprendeva, quegli aggiunse:
— Nè i palpiti del cuore nè i battiti del polso si possono frenare. Allorchè ricorderai alla marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo cuore batterà più forte, e non potrai sentirlo, ma il suo polso batterà più in fretta e tu potrai sentirlo.
Al conte questa parve un’invenzione mirabile. L’abate continuò:
— Non si falla; ma ricordati che io confido la ricetta alla tua segretezza.
— Son cavaliere! – rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio.
Essa, all’entrare del conte, era abbandonata sul canapè con la testa reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi. Ai passi lievi dell’amico non si mosse; e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua destra, rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso.
— L’emicrania, eh? – domandò La Fratta.
— Sì – rispose ella in tono flebile.
La Fratta sospirò triste pur godendo d’un’emicrania almeno quel giorno opportuna a’ suoi fini.
— Chi l’avrebbe detto ierisera? – seguitò egli, non per rammentare il tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Prima però chiese: – Desiderate un po’ di melissa?
— Sì – ripetè la marchesa, perchè di prammatica quel giorno era il sì; e trasse un breve sorso dalla boccettina che l’amico le accostò alle labbra.
— Che sguardo febbrile! – disse il conte prima ch’ella riabbassasse le pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio di lei su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso attentamente.
Toc…. toc…. toc…: nelle arterie, che rigavano d’una trama azzurrina la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando all’avambraccio in misura placida ed uguale.
— Chi l’avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino). Corgnani giurava di perdere a tarocchi perchè lo costringevate a guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d’avervi ravvisata a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard; Terenzi proclamò che nessuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di voi il paspié. – E ristando, per prudenza: – No – disse – non avete febbre. – Pure, come più d’una volta aveva profittato dell’emicrania per tenere a lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece il polso, e riandando le vicende della sera innanzi, passata con lei alla conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e pettegolezzi, con abile arte potè nominare coloro di cui aveva maggior sospetto. Ma il polso batteva sempre uguale e placido.
«Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La Fratta a sè stesso. «Quello non può essere: proviamo quest’altro.»
Proseguì nell’esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto sinchè ebbe percorsa invano la via che si era proposta. Oramai retrocedeva; s’ingarbugliava in nuove ipotesi; s’imbrogliava in nuovi dubbi. Infine, s’appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero:
— Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l’Arboldi; sdilinquiscono tutt’e due, il duchino e vostro marito.
Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse; gli era parso; ma non era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente! Per altro, la marchesa era così strana….
— Io credo – riprese egli – che l’Arboldi non preferirà quel bamboccio a un cavaliere qual è vostro marito. – Non c’era più dubbio! La marchesa amava il duchino; amava – strana donna! – il frutto acerbo!; il polso che aveva confessato era lì pronto a ripetere la confessione. Il duchino! Per prima vendetta il conte volle discorrere e burlarsi di lui affinchè, magari, la capricciosa dama arrabbiasse o magari, piangesse, svenisse. Ma il sangue nell’arteria rifluì placido ed uguale…. E solo allora, trasecolando, La Fratta ebbe un’idea, un lampo, quasi un fulmine: – il marito?… – Parlò del marito.
E nessun dubbio: a parlare del marito e dell’Arboldi il polso precipitava, martellava, scottava! Come scottato, il conte abbandonò il braccio della dama e balzò in piedi. Stupito, stordito, non sapeva più che si dicesse. Diceva:
— Dunque, se l’abate Fantelli…. No, non è possibile! – Ed era possibile!… Appena si fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserì: – Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, non è vero?
— Sì – rispose la dama; ma poteva essere il sì di prammatica.
— Siete innamorata di…. vostro marito!
La Fratta s’aspettava una risata dinegatrice. Invece la dama, la quale, meravigliata anch’essa, era per gridare — Chi ve l’ha detto? – , la dama ebbe tant’ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal conte, e sentì tant’odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque.
— È vero? – incalzava l’altro – : di vostro marito?
— Sì! – E questo non fu il solito sì; fu un sì aspro, secco, trafiggente. L’altro continuò:
— E voi fino ad oggi avete sofferta la mia servitù solo per la moda?
— Sì!
— ….e io vi ho annoiato sempre, sino ad oggi, senza accorgermene?
— Sì!
La Fratta divenne rosso. Ma era cavaliere, e si contenne.
— Dunque – conchiuse solennemente – non vi annoierò più, signora marchesa! Solo permettetemi l’ultimo consiglio: se non volete far ridere il mondo, non riferite questo nostro colloquio all’abate Fantelli. – E per un supremo sforzo di galanteria cercò di baciare la destra dal polso febbrile e loquace. Ma la marchesa ritrasse la destra; ond’egli, senza guardarla, di corsa uscì dalla camera.
La tenda era appena ricaduta dietro di lui quando la dama, alzatasi vispa e gaia come quella che da un mese non aveva avuta emicrania, con un lungo sospiro di soddisfazione esclamò: — Finalmente!
Indi si chiese: «Perchè non dir tutto all’abate Fantelli?»
Egli solo, infatti, avrebbe saputo spiegarle da che mai il conte avesse ricevuto la rivelazione improvvisa. «Gli dirò tutto – fece – ; e che egli rida e il mondo rida! Anzi!»
Infatti porgendosi vittima volontaria alla derisione del mondo, ella dava al marito una prova d’amore sublime fino al sacrificio, e, sollecitato e disposto da quella al suo amore, il marito non avrebbe più resistito – n’era certa – alle altre prove e più seducenti prove del suo amore.
Intanto La Fratta, di ritorno dalla dura battaglia, contemplava la gravità della propria sconfitta e cercava rimedio a quello de’ suoi affetti che dolorava ferito: l’affetto di sè; giacchè l’altro pareva rimasto estinto di colpo. Rifletteva il conte che raccomandando alla dama di tacere, aveva obliato la natura di lei, e che s’ella parlasse – e parlerebbe – il mondo riderebbe di lui e non di lei, della quale, tanto era stramba, nulla poteva sorprendere. Anzi, mentre egli considerava fra sè il capriccio di lei, si stupiva di non essersene accorto prima; e si rassegnava a giudicar quel capriccio meno enorme di quanto l’aveva giudicato prima.
Il marchese Arnisio era un bel giovane, alto, pallido per sangue nobile da secoli, con modi di secolare nobiltà. Che meraviglia se la moglie, gelosa della dama la quale egli serviva, se n’era accesa a dispetto del mondo e del cavalier servente?
E l’orgoglio del conte dolorava; e l’altro affetto, quello della dama, che ancora non era spento del tutto, sussultava d’un ultimo spasimo. Peggio, assai peggio che la derisione del mondo, sarebbe la derisione della marchesa quand’ella innamorasse e seducesse il marito!
Perciò il battuto, fugato, disperato La Fratta concepì il disegno di salvare il suo decoro e la sua dignità nella stima del mondo e nella stima della marchesa.
Ond’eccolo in cerca del marchese Arnisio. Lo trovò per istrada; e al saluto di lui non fece nè parola nè cenno. L’Arnisio gliene chiese la causa, e della risposta fu così poco contento da ammonire La Fratta che non salutare chi merita rispetto e onore è villania. Ma poichè la taccia di villania a chi merita rispetto e onore è grave ingiuria, il conte trasse la spada: trasse la spada il marchese; e al terzo colpo la lama del conte segnò di rosso la destra dell’avversario.
Pronto il marchese strinse con la pezzuola di batista il taglio che non era profondo; poi domandò, senz’ira:
— Ora mi direte perchè un cavaliere come siete voi ha voluto attaccar briga con un cavaliere come sono io.
— Per provarvi – rispose La Fratta alla dimanda che s’aspettava – ; per provarvi che se da oggi in avanti non servirò più vostra moglie e non entrerò mai più nella vostra casa, la colpa è vostra.
Il marchese, udita tal spiegazione del fatto, ne capì meno di prima. Ribattè:
— Spiegatevi!
E il conte:
— Vostra moglie è sdegnata con me e infastidita della mia servitù perchè io, e non voi, ho scoperto ch’essa è innamorata di voi.
Allora l’Arnisio rimase proprio quale era rimasto La Fratta alla rivelazione del polso; fors’anche con uguale timore volse il pensiero al riso del mondo, e chiese, con tono e impeto d’incredulità e di sorpresa:
— In che modo l’avete saputo? Ne siete sicuro?
— Il modo – rispose dignitosamente La Fratta – è un segreto dell’abate Fantelli; ma di ciò sono tanto sicuro, che solo per ciò un cavaliere come sono io ha potuto attaccar briga con un cavaliere come siete voi!
A tali parole il marchese sorrise, e porgendo la mano ferita all’amico:
— Conte La Fratta – esclamò contento – , io vi ringrazio!
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il polso
AUTORE: Adolfo Albertazzi
NOTE: Il testo è tratto da una copia in formato immagine presente sul sito Internet Archive (http://www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (http://www.gutenberg.org/) tramite Distributed proofreaders (http://www.pgdp.net/).
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle umoristiche : / di Adolfo Albertazzi – Milano : F.lli Treves, 1914 – 314, 8 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)