Il monte dei miracoli.

Novella indiana.

di
Cordelia

tempo di lettura: 23 minuti


In una vasta regione dell‘India regnava molti secoli fa il re Ramun, il quale era tanto bizzarro, prepotente e crudele che spargeva il terrore in tutto il suo popolo. Egli prediligeva gli elefanti, che manteneva con cibi prelibati e ai quali usava tante cure come se fossero principi.
Uno era bianco come la neve; l‘altro nero come il carbone.
Quando il re era di buon umore, saliva sull‘elefante bianco e usciva a passeggiare per la città, e benchè tutti tremassero al suo passaggio, pure eran soliti prostrarsi fino a terra senza fuggire.
Ma quando il popolo lo vedeva avanzarsi sull‘elefante nero (ciò che significava ch‘egli era di pessimo umore) tutti scappavano al suo avvicinarsi; le porte e le finestre si chiudevano e la città si cambiava in un vero deserto. E che in quei giorni guai se incontrava un essere vivente! era tanto irritato con tutto il genere umano che quando s’imbatteva in qualche persona la faceva prendere dai suoi soldati e gettare in mare, oppure abbruciar viva o calpestare dal suo elefante; non risparmiava nè donne nè fanciulli e potevano ancora dirsi fortunati quelli che venivano cacciati in una prigione o in una cella nella torre del palazzo.
Quando il furore s‘impossessava di lui la sua ferocia non aveva limiti. Una volta che vide una folla di gente fuggire d‘innanzi all‘elefante nero e cercar rifugio in un tempio, ordinò che fosse dato fuoco a quel tempio e quando lo vide in fiamme e udì le grida di quelli che vi si erano rifugiati, il suo volto s‘illuminò di gioia crudele. Una sola persona aveva qualche volta il potere di calmare l‘ira di quel feroce e questa era la sua figlia, Luce di sole, una bella fanciulla dai capelli d‘oro, la pelle candida, trasparente, lucida come alabastro e gli occhi che alcune volte mandavano scintille, ed altre, volte erano così supplichevoli e buoni che commovevano fino nel più profondo dell‘anima.
Quando vedeva l‘elefante nero preparato per uscire essa era sempre pronta a presentarsi al padre per tentare tutti i mezzi di trattenerlo in casa; lo pregava, lo supplicava, gettandoglisi ai piedi, lo guardava cogli occhi tristi ed eloquenti, ma non sempre riusciva nel suo intento.
Essa avrebbe dato la vita perchè il padre fosse giusto e buono come il suo bisavolo, il buon re Calimano, di cui tutti narravano la bontà e la giustizia e che era scomparso in un modo alquanto misterioso. Un giorno essendo andato a caccia in una vasta foresta non fu più veduto ritornare indietro, quelli del seguito dissero che essendo scoppiato un forte temporale egli era scomparso in mezzo ad una nube; altri credevano che fosse stato incenerito da un fulmine, ed altri ancora affermarono che le bestie feroci l‘avevano divorato. Fatto sta che era scomparso e il cadavere fu cercato invano; non fu possibile trovarlo, e quando i suoi seguaci ritornarono alla reggia a portare la funesta notizia il lutto fu generale, perchè ognuno era convinto che non avrebbero mai avuto un re migliore.
Soltanto i santi che scendevano ogni anno dal Monte dei Miracoli a celebrare la festa della Primavera, affermavano che il buon re Calimano non era, morto e sarebbe ricomparso quando i delitti dei suoi successori avessero passato la misura ed il cielo per intercessione d‘un‘anima innocente si fosse mosso a pietà.
I santi ripetevano tutti gli anni la medesima promessa; il popolo sperava in segreto che tal prodigio si realizzasse, non osando manifestare ad alta voce quella speranza per timore della vendetta del feroce Ramun, il quale alle parole dei santi crollava il capo dicendo che ci voleva ben altro per far rivivere un uomo ch‘era scomparso da quasi cent‘anni.
Accanto al palazzo del re sorgeva il palazzo del principe Nadir, figlio d‘un fratello di Ramun, il quale era molto odiato dallo zio per il sospetto che volesse rubargli il trono, e invece aveva tutta la protezione e la simpatia di Luce di sole che lo amava ardentemente e avrebbe desiderato divenire sua sposa.
Nadir, pel timore d‘incontrarsi con Ramun, non usciva mai dal suo giardino ove si divertiva a coglier fiori, e ad ascoltare il canto degli uccelli che cercava d‘imitare colla voce bella e melodiosa. Nella sua vita triste e solitaria aveva una grande consolazione, ed era di veder spesso la principessa Luce di sole scendere in giardino, per intrattenersi con lui in giochi piacevoli ed innocenti.
In quei giorni gli pareva che il giardino s‘illuminasse d‘un nuovo splendore e si sentiva tanto lieto e felice come se fosse padrone dell‘universo.
Egli si divertiva ad intrecciare corone di fiori che metteva sul capo della bella fanciulla e spesso fabbricava colle sue mani vesti e manti tessuti coi fiori più belli e più odorosi e si compiaceva di avvolgerli intorno alla cugina dicendole:
— Eccoti trasformata nella dea dei fiori.
Poi si metteva in ginocchio per adorarla.
Essa invece si sdraiava spesso sopra un sedile formato di erbe sottili e morbide come il velluto, e gli diceva:
— Canta, Nadir.
Ed egli cantava gorgheggiando come l‘usignuolo e il suo canto saliva al cielo assieme al profumo dei fiori, e Luce di sole inebbriata ripeteva:
— Ancora, ancora, Nadir. Che delizia, che sogno! Vedi, vorrei addormentarmi in mezzo a quest‘incanto e non risvegliarmi più mai.
Un giorno stava appunto nel giardino inseguendo assieme a Nadir una farfalla dalle ali d‘oro quando udì presso il cancello un rumore e s‘accorse che il Re si preparava a salire sull‘elefante nero. Essa uscì dal giardino e s’avvicinò al padre in atto di preghiera.
— Re possente, – disse, gettandosi ai piedi di lui. – Perchè uscire mentre intorno a noi é così bella la primavera?
— Scostati, – rispose Ramun con una voce forte che fece tremare gli alberi del giardino, – scostati se non vuoi essere calpestata dai piedi dell‘elefante.
Essa s‘indugiò prostrata sperando che il padre venisse a miglior consiglio, e quasi il piede della bestia enorme stava per alzarsi e schiacciarle il capo, quando Nadir che s‘accorse del pericolo, le fu vicino in un lampo, la prese fra le braccia e la strappò da quel luogo pericoloso.
— Chi ardisce toccare mia figlia? – disse Ramun, dando un‘occhiata feroce a Nadir. – Quel giovane sia tosto preso e rinchiuso nella torre più alta del mio palazzo, – ordinò alle guardie.
E mentre il barbaro comando veniva eseguito, egli, salito sull’elefante, s‘avviò verso il centro della città portando la desolazione lungo il suo passaggio.
Quando Luce di sole ebbe udito l‘ordine del padre si aggrappò così fortemente a Nadir, che dovettero separarli a viva forza, e nella lotta i capelli della principessa si sciolsero e cadde svenuta. Nadir fu lieto nel vedere che un capello di Luce di sole lungo lungo, sottile e morbido come la seta e lucido come l‘oro, era rimasto attaccato all‘anello che portava sempre in dito e poteva così avere nella prigione il conforto di possedere qualche cosa che aveva appartenuto alla bella fanciulla.
Egli venne rinchiuso in una piccola cella nella torre del palazzo dove non poteva vedere che il cielo da un pertugio, e ne provò tanto dolore che avrebbe voluto morire, se non avesse pensato a Luce di sole e al modo di farle avere sue notizie.
Prima di tutto incominciò a cantare; ma a quell‘altezza nessuno lo udiva, venivano soltanto gli uccelli a svolazzare intorno alla torre. Però aveva il presentimento che la cugina pensasse a lui e non cessasse di guardare la sua prigione. Aspettò la notte per non farsi scorgere e pensò di servirsi del capello che non cessava mai di contemplare, per mandarle un messaggio; fortunatamente era lungo, lungo e risplendente, vi attaccò il suo anello e lo fece scendere dalla finestra adagio,tenendone un capo in mano.
Luce di sole, rinvenuta dallo svenimento, stette tutta la giornata piangendo ai piedi della torre, dove sapeva che avevano rinchiuso il principe Nadir, e pensava al modo di soccorrerlo. Vedendo che non dava nessun segno di vita temeva da principio che l‘avessero ucciso, ma poi vide gli uccelli che giravano intorno alla torre, comprese ch‘erano attratti dal prigioniero e avrebbe voluto aver anch‘essa le ali per poter recargli conforto.
Il sole era tramontato e la notte incominciava a farsi buja, quando lo sguardo di lei fu colpito dalla vista d‘un filo luminoso che scendeva dalla torre. Il cuore le palpitò di gioia, e aspettò che il filo venisse ad un punto dove potesse prenderlo colle mani.
Il filo, quantunque lungo, non toccava il suolo. Essa non si sgomentò, trovò una scala, vi salì senza esitare, prese in mano quella cosa lucente che vedea scendere dalla finestra, e riconobbe uno dei suoi capelli e l‘anello di Nadir: fu sorpresa e contenta del gentile messaggio; staccò l‘anello e se lo mise in dito, tenne per molto tempo in mano il filo sottile, e scuotendolo leggermente disse tante cose alla mano che lo teneva dall‘altro lato. Era tutto un linguaggio muto, ma Nadir riuscì a comprenderlo benissimo.
— Coraggio! – gli disse, – non temere, penso a salvarti, – e diede una scossettina al capello che volea dire: a rivederci.
— Tin tin, – rispose Nadir, e tirò a sè il capello, che Luce di sole aveva abbandonato dopo avervi attaccato un fiore.
Essa aveva già, nella testa il suo disegno e a costo di arrischiare la vita voleva salvare Nadir, rinchiuso nella torre per causa sua; perciò decise d‘aspettare il tempo propizio per mettersi all‘opera.
Tutte le sere il filo luminoso scendeva dalla finestra della torre, ed era preso dalle manine di Luce di sole,e i due giovani attraverso quel filo si comunicavano i loro pensieri.
Una sera Nadir, nel tirare a sè il filo prezioso, lo sentì più pesante del solito, e vi trovò legata una foglia di magnolia, sulla quale, al lume della luna, potè leggere le seguenti parole:
“Luce di sole all‘amico Nadir.
“Se per qualche giorno Luce di sole non verrà ai piedi della torre, Nadir non tema. Luce di sole dovrà andare lontano per preparare la sua salvezza; Nadir pensi a Luce di sole, come Luce di sole pensa a Nadir.”
Nadir appena ebbe decifrato quel profumato messaggio divenne mesto all‘idea di non avere più il conforto di comunicare colla sua amica; e temendo che dovesse andare incontro a pericoli, si rivolse al cielo invocando per lei la protezione degli esseri superiori che dirigono l‘universo.
Tutte le volte che Luce di sole avea implorato pietà per Nadir, il re si era sempre irritato, quindi pensò di salvarlo con altri mezzi. Un giorno che vide il padre sull‘elefante bianco, gli si avvicinò per chiedergli una grazia.
— Tutto ti concedo, – le disse il re, – tranne la liberazione del principe Nadir.
— Non oserei più chiederla dopo tanti rifiuti, – rispose la fanciulla; – soltanto vorrei che mi si concedesse una scorta per salire la Montagna dei Miracoli.
— Non sai a quali pericoli potresti andare incontro?
— Non ho fatto male a nessuno e non ho paura.
— E a che scopo vuoi salire quella montagna?
— Per cercarvi il frutto dell‘immortalità e della sapienza.
— Tu credi a tali chimere?
— Lasciami andare, – disse la principessa, e gli rivolse uno sguardo tanto supplichevole, che il re non poté negarle quanto desiderava.
Essa sapeva benissimo a quali pericoli si esponeva; aveva udito parlare molte volte di persone che, avevano tentata la salita di quel monte, e non erano più ritornate indietro. Ne avea spesso chiesto notizie ai santi e ai bramini che scendevano ogni anno ad inaugurare la festa della Primavera, e le avevano risposto che solo potevano salire il monte gli esseri veramente buoni, quelli che avevano la grazia divina; gli altri erano destinati a girare intorno al monte per tutta la vita, senza poterlo salire e senza poter uscirne mai più, e dopo aver aspirato invano ad una meta inaccessibile morivano disperati. Luce di sole era piena di fede nel successo della sua impresa, aveva sempre aspirato a salire il Monte dei Miracoli, vi si sentiva spinta da una forza quasi superiore, che la speranza di salvare Nadir aveva centuplicata. Ormai era destino; doveva andare.
Sapeva che la scorta, concessale dal padre non poteva condurla che alle falde del monte e dopo era costretta a continuare sola la strada; ma avea coraggio, e si trattava di salvare Nadir, sicché affrettava con ansia la partenza. La scorta si componeva d‘un gran numero di guerrieri vestiti di bianco colle lance d‘argento che scintillavano mandando lampi ai raggi del sole di dieci elefanti bianchi colle gualdrappe d’argento, ricamate di diamanti e di perle, sopra gli elefanti v‘erano delle torri imbottite di stoffe e adorne di pietre preziose con soffici sedili, che dovevano servire per la principessa Luce di sole, e per le sue schiave, e dietro, doveva esser seguita da una quantità di carri coi viveri, e da tutto il necessario per un lungo viaggio.
Quando tutto fu pronto, Luce di sole andò a salutare il padre che quasi era pentito del permesso che le avea dato e disse alle persone del seguito:
— Se non riconducete salva, mia figlia, ne va della vostra vita..
Poi si prostrarono tutti fino a terra, compresa la principessa, in segno di saluto, e si misero in cammino.
Cammina, cammina, andarono avanti per molti giorni senza nessun incidente spiacevole, ad un certo punto arrivarono ad una foresta popolata da bestie feroci che, mandavano ruggiti così forti da far tremare la terra.
Un leone si fece avanti come se volesse dire: – Di qua non si passa. – E subito fu colpito dalle freccie dei seguaci della principessa. Ad un secondo toccò la medesima sorte,e così ad un terzo, finché gli altri, vedendo che quegli uomini erano più forti di loro, si ritrassero e li lasciarono passare senza più molestarli.
Cammina, cammina, cammina, il corteo si vide sbarrare la strada da un lago.
Bisognava passarlo, perchè il Monte dei Miracoli si trovava al di là, eppure non v‘era ponte nè barca. Tutti si guardarono in faccia, non sapendo che cosa fare, e la principessa incominciò a temere di non poter raggiungere la meta sospirata.
Stettero incerti un giorno ed una notte, qualcuno parlava di tornare indietro; ma la principessa diceva che voleva proseguire a costo di passare il lago a nuoto, quando vide in distanza qualche cosa di bianco che si avanzava verso di lei, una cosa che prima pareva un fiocco di neve, ma mano mano che s‘avvicinava prendeva la forma d‘un uccello, finchè divenne un cigno grandissimo, come la principessa non ne aveva mai veduto.
— Ecco chi mi porterà dall‘altra parte, – esclamò battendo le mani dalla contentezza.
— Ma noi, e gli elefanti? – dissero le persone del seguito.
— Voi accampatevi qui ad aspettare il mio ritorno, – ordinò Luce di sole, – sono io che devo salire il monte.
Tutta quella gente si guardò incerta su quello che dovesse fare, ma intanto la principessa rapida come il baleno saltò sul cigno, ne circondò il collo flessuoso colle braccia delicate, appoggiò il capo sulla testa di lui con atto grazioso, e il cigno si diresse nuotando maestosamente verso l‘opposta riva, mentre i seguaci stavano estatici a seguire cogli occhi la loro signora, che si dileguava in lontananza.
Il cigno la portò ai piedi del Monte dei Miracoli. Ma qui un‘altra difficoltà si presentò alla principessa. Il monte la cui cima luminosa in distanza pareva una stella che si staccasse dal cielo, era tutt‘intorno avvolto in una fitta nebbia, tanto nera e densa che non lasciava scoprire alcun sentiero; e l‘avventurarsi in mezzo a quell‘oscurità, senza conoscere la strada, avrebbe messo spavento anche nel cuore dei più coraggiosi.
Luce di sole si fermò un momento incerta, e il suo sguardo si posò sopra una pietra, dove vide scritto con parole di fuoco:
VOI CHE CERCATE LA LUCE: BADATE DI NON PERDERVI FRA LE TENEBRE.
Era un avvertimento del cielo? Doveva proseguire o retrocedere? Volse il pensiero a Nadir che era prigioniero nella torre, si sentì animata da nuovo coraggio ed affrontò senza esitare l‘oscurità.
Appena ebbe fatti pochi passi vide come un bagliore risplendere sul suo capo, in modo che distingueva se qualche sasso le ingombrasse la via, quantunque non riuscisse a scoprire il sentiero che doveva condurre sul monte. Alzò il capo per vedere donde veniva quel bagliore e s‘accorse che erano i suoi capelli dorati che illuminavano l‘oscurità; fatta quella scoperta, li sciolse e li lasciò cadere sulle spalle, tanto che si vide tutto ad un tratto avvolta in un nembo di luce. La strada che la circondava ne era illuminata; e al bagliore delle sue chiome fluenti trovò senza fatica il sentiero, e andò su su per la montagna, attraverso la nebbia, con passo lesto. Mano mano che saliva diventava più leggera, e le pareva che i suoi capelli si facessero più luminosi, e saliva su su spinta dal desiderio d‘arrivare, tanto che le pareva d‘esser portata in alto da una forza superiore; e quanto più saliva, la nebbia che le aveva tolto la vista del monte, s‘andava diradando, e già vedeva la cima luminosa risplendere come un faro immenso in mezzo all‘oscurità.
Quello splendore era ancora lontano, ma Luce di sole saliva lesta e leggera come se avesse le ali, quando udì una musica deliziosa echeggiare per l‘aria e si sentì avvolta in un nembo di profumi; più ascendeva e più le melodie si facevano distinte e l‘aria era più imbalsamata di profumi. Prima di toccare la cima dovette attraversare un bosco, in cui sopra alberi fioriti ed odorosi si posavano uccelli rari, colle ali dipinte dei più vaghi colori dell‘iride, che gorgheggiavano tanto soavemente, che Luce di sole dovette sostare per ascoltarli. Si fermò soltanto pochi minuti, spinta dal desiderio di andar sempre più in alto, e quando il bosco s‘aperse alfine sulla cima del monte, nuove meraviglie la fecero rimanere estatica. Sopra il monte v‘era un immenso spazio di cui non si vedevano i confini che si dileguavano nell‘orizzonte. In quello spiazzo v‘erano parecchi edifizii, uno più maestoso dell‘altro, e in mezzo un tempio grandissimo colle mura di diaspro e le colonne formate da cristallo di rocca sfaccettato, più scintillanti del diamante, e co’minareti coperti d‘oro. Il tutto era illuminato dall‘alto da un immenso faro che rifrangeva i raggi sugli archi e sulle colonne, che mandavano bagliori indescrivibili.
Davanti al tempio vide una lunga scalea, dalla quale scendeva una processione di santi e bramini vestiti di bianco coi turbanti adorni di pietre preziose, che scuotevano turiboli di profumi. S‘avanzavano salmodiando ad incontrare la principessa, che, collo sfondo del bosco, col vento che le sollevava i capelli d‘oro, sembrava un‘apparizione del cielo.
Appena Luce di sole vide la processione si gettò a terra implorando perdono.
— Siate la benvenuta, – disse uno dei bramini, – chi giunge fino a noi è un favorito del cielo.
Quindi la sollevò e la pose in mezzo a loro per condurla nel tempio che pure era pieno di luce, di canti e di profumi. Essa era stordita e non sapeva in che mondo fosse; le fecero bere alcune gocce di liquore che doveva ristorarla dalle fatiche della lunga via, e la invitarono a sdraiarsi sopra un divano morbido, formato di penne di struzzo, perché potesse riposarsi prima d‘esser presentata al gran santo, che le rivelerebbe i misteri del Monte dei Miracoli.
Essa s‘addormentò tranquilla; il liquore che aveva bevuto sembrò averle affinato i sensi, tanto che le pareva di udire la voce di Nadir che la chiamasse dalla sua cella, e quei suoni che sentiva intorno a sè le parevano voci lontane, di persone conosciute. Il suo cuore era tanto calmo che in mezzo a quella gente ignota si sentiva sicura e tranquilla, come un bambino nelle braccia della mamma. All‘alba fu svegliata da un suono che si ripercosse su tutti i minareti del tempio, in tutti gli echi del monte; trovò pronto un bagno profumato, e ricche vesti per abbigliarsi, poi, accompagnata da alcuni sacerdoti, volle fare un giro per ricrearsi in quel luogo delizioso.
Vide piante dalle forme bizzarre, fiori con petali immensi, dei quali uno solo sarebbe bastato per vestire un essere umano; poi quelli che l‘accompagnavano le mostrarono l‘albero della scienza, che dava il sapere a quanti si cibavano dei suoi frutti, quello dell‘ebbrezza e quello del sonno, e tante altre piante, i cui frutti avevano virtù meravigliose. In mezzo al bosco v‘era l‘albero dei cent‘anni, ma di quello le avrebbe spiegato il mistero il santo supremo.
— E quando potrò vederlo, questo santo? – chiese Luce di sole.
— Ecco la processione che s‘avanza per accompagnarvi, – dissero i bramini.
Infatti si vedeva in distanza una lunga schiera di santi vestiti di bianco che s‘avanzavano con atteggiamenti diversi. La principessa interrogò collo sguardo quelli che l‘accompagnavano per sapere il significato di tali atteggiamenti. Dissero:
— Quelli che danzano e cantano hanno gustato il frutto dell‘albero dell‘ebbrezza, quelli che s‘avanzano a passo lento si cibarono del frutto della sapienza, e quelli che vedi sorridere così contenti si sono nutriti del frutto dell‘albero della salute.
Luce di sole si trovò circondata da quella processione e sentì una forza che la spinse a seguirla. Camminarono per un po’di tempo in quel giardino incantato finchè giunsero davanti ad una porta d‘oro che si spalancò al loro passaggio e penetrarono in un vasto tempio che avea la vôlta azzurra e trasparente come il cielo, seminata di punti luminosi che parevano stelle.
In mezzo al tempio, seduto sopra un trono, stava un vecchio dall‘aspetto venerando, colla barba bianca che risplendeva come fosse d‘argento.
— Gloria al santo, al nostro faro di luce! – cantarono tutti, prostrandosi fino a terra.
Luce di sole, rimasta per un momento muta ed attonita, cadde ai piedi di lui implorando pietà.
Il santo aperse le braccia dicendo:
— Accostati, figlia mia, sii la benvenuta, e i voleri del cielo si compiano. Che cosa cerchi?
— Pace e giustizia, – disse Luce di sole.
— E giustizia avrai, – dissero in coro i santi e i bramini.
Quindi il gran santo la prese per mano, e le disse quello che tutti aspettavano da lei spiegandole il mistero dell‘albero dei cent‘anni.
Quella pianta cresceva nel bosco e dava un unico frutto ogni cent‘anni, che aveva la virtù di sospendere la vita in una persona eletta dal cielo in modo che poteva dormire cent‘anni; e poi un altro frutto della medesima pianta aveva il potere di risvegliarla sana e robusta come quando si era addormentata. Ora, cent‘anni prima, il miracolo s‘era operato a favore del re Calimano designato dal cielo, perchè buono e giusto, e dai bramini era stato rapito, condotto sul Monte dei Miracoli e addormentato, poi lasciato come sacro retaggio a lui dal suo antecessore.
— Ora, – disse il vecchio, – un altro frutto è maturato sull‘albero dei cent‘anni, e servirà per risvegliare il re Calimano; non si aspettava che la venuta d‘una fanciulla innocente degna di assistere ad un simile prodigio.
La principessa era sorpresa.
— Dunque vive ancora il mio bisnonno, il re Calimano? – disse. – Dov‘è? fate che venga a redimere il mio paese.
— Venite con me, – disse il santo, – io vi condurrò, e voi sarete la prima persona che assisterà al suo risveglio.
Così dicendo si mosse e le fece attraversare una fila di sale colle porte che si aprivano e si chiudevano in silenzio man mano che passavano, finchè giunsero in una camera tutta coperta di tappeti così morbidi, che i piedi vi si affondavano senza fare il minimo rumore. Dalla vôlta pendeva una lampada velata che spargeva nella stanza una luce tranquilla. In mezzo, adagiato sopra un vasto letto coperto di stoffe ricamate, stava il re Calimano, pallido, cogli occhi chiusi; intorno a lui v‘erano dodici bramini…. incaricati di bagnargli ogni ora le labbra con un liquore per tenerlo in vita, ogni mese si cambiavano e quelli che avessero dimenticato il loro ufficio erano puniti colla morte.
Luce di sole, al vedere il corpo quasi inanimato del re Calimano, suo avo, che avea sentito tanto lodare per la sua bontà, nel trovarsi in quella stanza cupa e silenziosa, si sentì commossa, e s‘inginocchiò accanto al letto piangendo.
— Coraggio, – le disse il santo, – fra pochi minuti egli sarà altrettanto vivo quanto noi.
Poi trasse dalla veste un frutto della forma d‘un dattero e ne spremette il succo nella bocca del re Calimano, e ordinò ai bramini di dare il segnale del grande avvenimento. S‘udirono tutto ad un tratto suoni ed inni che andavano al cielo, la finestra si aperse come per incanto, e un‘onda di luce penetrò nella stanza tranquilla ed inondò il letto del dormiente.
Il re Calimano incominciò a scuotersi e a far qualche movimento, poi aperse gli occhi e si guardò intorno trasognato.
Dopo aver osservato la stanza e fissato in volto le persone che lo circondavano in atto rispettoso, il suo sguardo si fermò sulla faccia di Luce di sole e mormorò con una voce fioca e con un sorriso sulle labbra:
— Irandol!
Gli astanti si guardarono in faccia sorpresi.
— Era la mia bisavola, – disse Luce di sole, – la moglie del re Calimano.
— Irandol! – ripetè il re, e stese le mani per accarezzare la fanciulla.
— Irandol é morta, – disse, – io sono Luce di sole, la nipote di Irandol.
Il re chinò il capo quasi piangendo, e poi chiese:
— E Sarib dov‘è?
— Sarib, il ministro! – disse il santo, – è morto.
— E Nala, il mio valoroso generale?
—Morto anche lui.
— Perchè mi avete fatto rivivere se tutti son morti? – disse il re Calimano, coprendosi colle mani la faccia, – voglio morire.
— Dovete vivere, – disse il santo, per far risorgere nel vostro regno la giustizia. Riposatevi ora, domani vi metterete in cammino con Luce di sole, il vostro popolo vi aspetta.
Per quel giorno e la notte lo lasciarono tranquillo, facendogli servire un pasto copioso perché ristorasse le forze e si preparasse ancora alle lotte della vita.
Il giorno dopo lo fecero adagiare in una lettiga, e un lungo corteo si mise in cammino per scendere la montagna e accompagnare il re e la principessa. Ai piedi della montagna trovarono sul lago delle navi colle vele bianche preparate a riceverli. Era stabilito che il re Calimano facesse un lungo giro nel suo regno, prima d‘arrivare alla reggia a farsi riconoscere dal suo popolo. Intanto i bramini e i santi avrebbero sparsa la notizia del prodigio avvenuto.
Egli parlava poco e si guardava intorno, non conoscendo più nè i luoghi nè le persone; soltanto accarezzava sempre Luce di sole chiamandola spesso Irandol perché gli rammentava la moglie che aveva amato tanto e che gli avevano detto esser morta.
Alcuni bramini lo accompagnavano, e gli davano spiegazione di tutto quello che vedeva.
Una notte che era stanco arrivò in una bellissima città dove non si vedevano che palazzi grandiosi e gente ben vestita che si divertiva.
— Dove siamo? – chiese Calimano.
— Nella città della ricchezza, – disse un bramino, – gli abitanti sono tutti generali, visir e ministri dello Stato, che si sono arricchiti col danaro del popolo.
— Ai miei tempi non si faceva così, – disse il re, con un sospiro. – Allontaniamoci subito da questa gente perversa.
Dopo qualche giorno approdarono in un‘isola, la quale era popolata quasi tutta di donne che corsero incontro ai nuovi arrivati col sorriso sulle labbra, e tutte in festa. Il re Calimano domandò che cosa significasse quella popolazione femminile.
— Sono le vedove, – disse il sacerdote, – che invece di abbruciarsi come un tempo sul medesimo rogo dei loro mariti, mettono un simulacro in loro vece, e fuggono in quest‘isola dove sono certe di trovare compagne, e quando arriva qualche straniero lo festeggiano, sperando di trovare in lui un nuovo marito.
— E devo essere vissuto tanti anni per assistere a simili sacrilegi! – disse Calimano. – Dov‘è andato l‘amore coniugale? dove è la fede antica? Andiamo avanti.
E così camminarono molto tempo, ma il re vedeva troppe cose che non gli piacevano, gli uomini erano più sapienti, ma il loro cuore era diventato perverso. Ognuno pensava a sè e l‘egoismo regnava in tutti.
Intanto la notizia della risurrezione di Calimano era giunta fino al re Ramun, il quale tremava dalla paura che si vendicasse di tutto il male che aveva fatto, e purchè gli lasciasse la vita, era rassegnato a perdere il regno. Il popolo era impaziente di liberarsi dal giogo del re crudele e già insorgeva e si preparava ad incontrare il re risorto e a fargli festa.
Lungo la strada, Luce di sole aveva trovato il corteggio che aveva lasciato alla riva del lago dei Miracoli,che si unì a quello del re Calimano, e fecero l‘ingresso trionfale in città.
Quando giunsero alle porte si videro venire incontro il re Ramun sull‘elefante bianco, ma colla testa bassa e tanto avvilito che non era più riconoscibile. Luce di sole pregò Calimano di esser generoso e perdonare a Ramun.
— Hai molto peccato, ma il cielo è clemente, – disse, – e non ti sarà fatto alcun male a patto che tu faccia uccidere l‘elefante nero che è sempre stato una bestia di cattivo augurio.
Ramun promise di ubbidire per aver salva la vita. Poi il primo pensiero di Luce di sole fu di liberare Nadir che presentò al re Calimano come lo sposo eletto dal suo cuore.
— Ebbene, sposatevi e regnate, – disse il re Calimano, – se tu sei il ritratto di mia moglie, egli è quello del mio figlio prediletto, a voi cedo il regno, ed io mi ritirerò nella foresta dei ricordi, dove gli alberi furono piantati dalle mie mani, e sebbene cresciuti li riconosco come vecchi amici; la, c‘è la casa dove vissi felice, colla mia Irandol, e benchè diroccata mi rammenta ancora il tempo passato. Il mondo pensa troppo diversamente da me e non lo capisco più, mi par troppo brutto e voglio fuggirlo. E voi, disse rivolto ai nipoti, – quando avrete bisogno di consiglio, venite a trovare il vecchio ed infelice re Calimano.
Il re Ramun, che, perduto il potere, comprese quanto era stato cattivo, si ritirò a finire la vita nell‘isola del Pentimento.
Nadir, lieto e felice di poter sposare Luce di sole, appena fu re, per consiglio di Calimano, ordinò che si facesse sradicare la pianta dei cent‘anni, riguardando come un triste dono la vita quando si sopravvive a tutte le cose che si sono amate.
E Nadir e Luce di sole vissero per molti anni felici e contenti; ebbero molti figli, ma da quel tempo ebbero fine i miracoli.

Fine.


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TITOLO: Il monte dei miracoli
AUTORE: Cordelia

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Nel regno delle chimere : novelle fantastiche / di Cordelia - Milano: Fratelli Treves edit, 1898 - 283 p. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FIC004000 FICTION / Classici
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)