Il molino del piano

di
P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)

tempo di lettura: 17 minuti


Questa non è una storia del tempo lontano. E neppure è una storia gaia.

È la recente storia di un paese di contadini, di cui, tra poco, non resterà che il ricordo: vicenda dolorosa di tutta un’umile gente, costretta a lasciare le sue case e i suoi campi per portare con sè, lungo le vie incerte del destino, il suo chiuso dolore.

Ma chi si accorge del dolore dell’umile gente?

La vita, oggi, è degli audaci. Ed anche la terra dei padri, la terra buona e materna, fecondata dall’amore e dal dolore di generazioni innumeri, va mutando, ogni giorno più, i suoi aspetti consueti e familiari, sempre più insidiata dall’irrequietezza e dall’ingordigia degli uomini, che l’hanno disertata e rinnegata per correre dietro gli ingannevoli miraggi dell’ambizione o dei facili guadagni.

Sì, oggi, la vita è ardimento e conquista.

Praticello era, oggi si può dire così, un fortunato paese di contadini: un vecchio paese, che si stringeva con le sue case, annerite dal tempo, intorno alla piccola chiesa, sormontata da una cupola graziosa; un paese, invidiato per il suo bel piano irriguo, ricco di tutti i più bei doni della terra.

Il piano di Praticello, costituito da un’ampia distesa di campi e di prati, ricavati col lavoro paziente e tenace di secoli, dal fondo alluvionale della valle, era opera oscura di intere generazioni di contadini, ciascuna delle quali aveva impresso in ogni zolla la sua orma dolorosa, tramandandone, dalle lontananze del tempo, come un mistico ricordo. E quel piano, coi suoi tre molini lungo il torrente sonoro, fiancheggiato da alti pioppi, con le sue case nuove, che crescevano, ogni anno, al margine della strada, risalente dalla stazione ferroviaria, formava la gioia di quei buoni contadini, rimasti fedeli alla terra. Perchè la popolazione di Praticello, fatta eccezione di poche famiglie, era composta, nella grande maggioranza, da piccoli proprietari, che vivevano nelle loro case e coltivavano i loro campi: gente semplice e laboriosa, legata da lunghe generazioni alla terra, contenta della propria condizione, che non avrebbe mutato per tutto l’oro del mondo.

Ma un giorno uomini sconosciuti, in tenute sportive, venuti dalla città, cominciarono a percorrere in lungo e in largo il piano di Praticello, a osservare le case, a entrare da padroni nei campi, a prendere misure, a fare domande a mezz’aria, a parlare tra loro con arie misteriose. E la gente, li guardava curiosa e insospettita; e gli uomini anziani, che erano curvi a lavorare la terra, quando li vedevano passare o fermarsi a osservare, sospendevano il lavoro e, appoggiati alla vanga, stavano a spiare le loro mosse e allungavano le orecchie per afferrare i loro discorsi.

Finalmente, si seppe, vagamente, che si trattava di impiantare a Praticello una grande «fabbrica» o qualcosa di simile: certamente qualche cosa di grosso, se, a quanto si diceva, si doveva occupare non solo la bella distesa del piano, ma lo stesso paese. E così tutta la popolazione avrebbe dovuto abbandonare le sue case e i suoi campi e prendere le vie oscure del domani, per formarsi chissà come e chissà dove la sua nuova vita, oppure trasformarsi in una grigia e anonima folla operaia: cosa questa che ripugnava alla loro fiera individualità di contadini.

Fu un gran dolore per tutti.

Ma che cosa conta il dolore dell’umile gente dei campi?

Qualcuno, per correre ai ripari, pensò di rivolgersi a qualche pezzo grosso. Ma i pezzi grossi, come se si fossero passata la parola o avessero avuto un interesse comune, menavano il can per l’aia con le medesime ciancie: che i tempi erano mutati, che il mondo cammina e che non valeva più la pena di campare la vita grama del contadino; mentre la fabbrica sarebbe stata la cuccagna per tutti.

Ah i pezzi grossi! Essi ignorano che la gente dei campi, come quella che vive più a contatto con la terra, la gran madre antica, è anche la più tenacemente attaccata alle proprie consuetudini, alle proprie tradizioni e, sia pure, ai propri pregiudizi. E non sanno che troncare una consuetudine, far cadere una tradizione, distruggere un pregiudizio è, quasi sempre, cosa assai più difficile di quanto si creda. Sì, anche il contadino può, con qualche facilità e per una qualsiasi ragione, adottare nuove abitudini esteriori; ma la vecchia anima campagnola non cambia per questo. E ciò perchè, nella psicologia del contadino, persistono, più tenaci, tradizioni di famiglia, richiami di stirpe, nostalgie di patria, rimpianti del passato, pregiudizi religiosi e sociali: insomma, tutto il vecchio bagaglio sentimentale che preme, da secoli, inesorabilmente, sull’anima delle antiche razze.

Verità troppo spesso dimenticata dagli innovatori faciloni, che credono, con un colpo di bacchetta magica, di mutare la faccia del mondo. E la dimenticavano anche i pezzi grossi, i quali non riuscivano a spiegarsi l’ostilità dei contadini di Praticello contro l’impianto della fabbrica e non capivano che strappare un’intera popolazione agricola dalle sue case, dai suoi campi e dalle sue abitudini voleva dire, tra altro, offendere l’innato senso della proprietà, così radicato nel contadino che lavora la sua terra, e far reagire, dal profondo, il suo istinto conservatore, ribelle a piegarsi, dall’oggi al domani, a nuovi modi di lavoro e di vita.

Ma quante cose non capiscono i pezzi grossi!

Così, la gente di Praticello finì per mandare al diavolo i pezzi grossi e piccini. E anche la Menga, che era una donna ardita e non aveva peli sulla lingua, un giorno che si sentì ripetete da un pezzo grosso la solita cantafera del mondo che cammina, delle fabbriche che danno lavoro e danaro a tutti e di altre simili storie, lo piantò in asso con mal garbo, masticando tra i denti, per non essere udita, questo poco cristiano augurio al suo indirizzo:

Pos’t agnir n’asidënt!

E s’allontanò, imprecando contro le fabbriche e contro chi, con le fabbriche, voleva arricchire alle spalle della povera gente.

La fabbrica, come ormai dicevano a Praticello, e la rovina che, con la fabbrica, minacciava il paese, divennero in breve l’argomento di tutti i discorsi di quei contadini.

Così, alla sera, tornando dal lavoro dei campi, gli uomini, seduti sui murelli del sagrato della chiesa, ne parlavano ancora a lungo, mentre il sole al tramonto incendiava con gli ultimi bagliori il poggio vicino, folto d’olivi, su cui si levava, nel cielo, con le occhiaie vuote delle sue finestre, la vecchia torre della «Caminà», eretta un tempo, lassù, dagli antichi signori, a vedetta e a difesa delle loro terre e delle loro genti. E i più anziani ricordavano i tempi d’una volta, quando anche i «siori» abitavano nel paese e si occupavano delle loro terre e partecipavano all’umile vita dei loro contadini. Ora, invece, i «siori» vivevano lontani e i contadini erano abbandonati a sè stessi e non c’era più nessuno a consigliarli e ad aiutarli al momento del bisogno.

E guardavano, scuotendo la testa, verso la casa dei Zambianchi, nascosta tra vecchie piante di lauri e di carpini, sporgenti dall’ampio recinto del giardino: una casa, sempre chiusa anche quella, come altre dei paesi vicini, dove i padroni non si facevano più vedere che di rado, sempre più estranei alla vita della gente dei campi e quasi sconosciuti, ormai, nella terra dei loro padri.

E tutti dicevano la loro.

Toninon da la Casella, un vecchio contadino all’antica, indurito nel lavoro della terra, che amava i campi lavorati col suo sudore, come se fossero i suoi, raccontava che era stato dal suo padrone, che abitava in città, perchè cercasse, lui che aveva tante conoscenze in alto, di evitare quella rovina al paese. Ma il padrone, che era un volpone alla moderna e, nella terra, non vedeva che un modo come un altro per cavar danaro e che, per giunta, sperava di combinare un buon affare con la cessione dei suoi terreni per l’impianto della fabbrica, lo aveva ascoltato con aria sorniona e indulgente, battendogli una mano sulla spalla. E gli aveva detto che, purtroppo, non c’era niente da fare, che bisognava rassegnarsi; ripetendo, anche lui, la solita canzone che i tempi erano cambiati, che lavorare la terra era un affare sempre più magro e che la fabbrica sarebbe stata, in definitiva, una cuccagna per tutti. Così, Toninon da la Casella aveva dovuto tornarsene al paese, scontento e avvilito. — È finita per noi! – diceva – «I siori» d’oggigiorno non sono della razza dei loro vecchi. Non amano più la terra e non sanno che cosa farsi di noi. Io ormai sono vecchio; ma dovrò andarmene anch’io e portare le mie ossa chissà dove.

E allora Isep da la Mistá un uomo di poche parole e così peloso e barbuto, che quelli che erano stati negli alpini e avevano fatto la guerra con lui, avevano battezzato col nome di Sacco a Pelo, diceva forte:

— È tutta una camorra! E chi ci rimette siamo sempre noi. Ma so io quel che bisognerebbe fare…

— Sacco a Pelo ha ragione – aggiungeva qualcuno dei più riscaldati. Ed erano quelli che, come lui, avevano la piccola casa e qualche campo al sole. E tra essi il più accanito era Sarvestar, il mugnaio del Molino del Piano; uno dei tre molini del paese, nascosto laggiù, tra le file dei pioppi, lungo il torrente dalle acque limpide e scroscianti, che davano gioia e fecondità al piano.

È facile immaginare ciò che quei contadini, in quei convegni sul sagrato della chiesa, dicevano dei pezzi grossi e dei pezzi piccini e di quelli che volevano arricchire alle spalle degli altri senza fatica e di tante altre cose, che, qui, non è il caso di ripetere.

Solo i giovani di Praticello (i giovani amano sempre le novità) e quelli che avevano lasciata la vanga per darsi ad altri mestieri davano, qualche volta, sulla voce ai vecchi. E, allora, il mugnaio si riscaldava più che mai:

— Vagabondi! – gridava – Si vergognano di essere nati contadini e hanno paura di sporcarsi le mani, lavorando la terra. Ma chi dà il pane a voi e a tutti i vagabondi come voi? È la vanga del contadino. E se tutti facessero come voi, chi resterebbe a lavorare la terra?

E a un ragazzotto di pelo rossiccio, lanuginoso e paffuto, dai piccoli occhi porcini e dal grifo all’insù, che chiamavano «al Porchët» e che, a chiacchiere, dava del filo a tutti, il mugnaio replicava, agitando le mani, come se avesse voluto picchiarlo:

— La fabbrica? Può andar bene per te, che non hai voglia di lavorare. Non per noi che abbiamo i calli alle mani e non abbiamo paura del lavoro. Tutto viene dalla terra, a cominciare dal pane, che anche tu mangi a tradimento.

E giù contumelie che facevano restare interdetto il «Porchët» e sbellicare dalle risa tutto il crocchio dei contadini.

Qualche volta, saltava su a dire la sua anche Giulin da la Caminà, uno dei più vecchi del paese: un uomo curvo e rinsecchito, nodoso e rugoso come una vecchia pianta di fico, che, anche lui, nella sua lunga vita di lavoro, non aveva avuto altro amore che per la sua casa e altra ambizione che per la sua terra, senza cercare altra gioia e senza desiderare altro bene. E diceva:

— E di noi vecchi che cosa faranno? Nella terra c’è posto per tutti, per i ragazzi e per i vecchi… Ma, senza terra, noi finiremo la vita a sbadigliare dalla noia e creperemo come tanti cani al margine della strada…

E tutti tornavano a farsi serî.

Ma a conclusione dei loro discorsi e di tutte le loro discussioni era sempre la medesima: nessuno riusciva a capire come mai, con tanto spazio al sole, per impiantare quella fabbrica ci fosse proprio bisogno di distruggere quella bellezza di terra coltivata e di abbattere un intero paese, strappando alle sue case e ai suoi campi tutta una fedele e laboriosa popolazione di contadini. Cose, come diceva il mugnaio, da offendere il buon Dio e che non si erano più viste dal tempo dei tempi.

E allora uno di essi, detto «al Ross», un uomo attempato, che, sotto i folti cespugli dei suoi sopracigli, nascondeva, negli occhi, la sua diffidenza di contadino e che, silenzioso come un filosofo, di solito, non partecipava alle discussioni se non con qualche sorda imprecazione, lasciava traboccare la disperazione, chiusa dentro al suo cuore, e vuotava il sacco contro tutto e contro tutti. Era costui un antico mezzadro, che, col lavoro e con la tenacia di tutta la sua vita, aveva saputo elevarsi alla condizione di piccolo proprietario; e non si rassegnava al pensiero di doversene andare anche lui, abbandonando il suo campo e la sua casa, nella quale aveva sognato di finire in pace i suoi vecchi giorni.

Ma era questa la sorte di tutti i contadini di Praticello.

Un giorno, e fu un brutto giorno per la gente di Praticello, arrivò l’ordine di cominciare i lavori. E i prati dai lunghi filari di pioppi, svettanti al vento, e i campi ben lavorati, dalle ricche «pindane» di viti, che erano l’ambizione della gente di Praticello, cominciarono a essere messi sossopra da squadre d’operai; e furono divelte le viti, abbattute le piante, tracciate strade e stesi binari e alzati, qua e là, i primi mostruosi edifici, in modo che, dopo qualche tempo, il bel piano non si riconosceva più.

Una vera rovina da far piangere il cuore a quella povera gente, che non aveva mai avuto altro orgoglio che quello della propria terra!

Poi, un altro giorno, e quello fu un giorno più brutto ancora, si fecero i primi sfratti dalle case, cominciando da quelle sparse nel piano; e furono intere famiglie, buttate sulla strada e rimaste, d’un tratto, senza nido e senza terra. Una cosa da perdere la testa!

Anche la Menga, che abitava nell’interno del paese, quel giorno fu più ardita che mai e ne ebbe per tutti, per i pezzi grossi e piccini e per chi voleva arricchire a spese di chi lavora e per quelli che non avevano più voglia di lavorare; e chi più ne ha più ne metta.

— Birboni! – ripeteva con i pugni sui fianchi e rossa in viso per la collera – voglio vedere chi sarà capace di farmi uscire di qui. In questa casa sono nata, in questa casa sono morti i miei vecchi ed io non me ne andrò.

Eh no, povera Menga! Anche tu te ne andrai, come tutti gli altri; e finirai i tuoi giorni, come e dove Dio solo lo sa. E anche tu ti rassegnerai al tuo destino, come tutti gli altri, dopo aver spremuto, dal tuo vecchio cuore, l’ultima lacrima e l’ultima imprecazione.

Ma chi, contro il suo solito, non si ribellò e non andò sulle furie, quando anche a lui venne l’ordine di andarsene, fu il mugnaio del Molino del Piano. Questa volta non protestò e non imprecò.

Sentì che, ormai, era finita.

Pensò a tutta la sua vita, passata lì, nel vecchio molino; d’inverno, quando, nelle notti senza fine, fuori faceva un freddo da lupi e soffiava la tramontana, fischiando attraverso le porte e le finestre mal connesse; d’estate, quando, dopo lunghe giornate, passate tra il lavoro dei campi e quello del molino, era solito riposare sul rustico sedile, davanti alla porta, guardando il cielo al tramonto, che fiammeggiava come un incendio, e le nubi vaganti, che s’accendevano di colori fastosi con frangie di porpora e d’oro.

Pensò ai suoi vecchi che, per tante generazioni, di padre in figlio, erano nati, avevano lavorato ed erano morti lì, nel molino; e provò come un nodo alla gola.

No; lui non avrebbe finito lì i suoi giorni, cullati, fino all’ultimo, dalla nota canzone del suo molino!

Ad un tratto, sì ricordò che, da più mesi, e cioè da quando erano cominciati i lavori per l’impianto della fabbrica, le macine erano ferme. Nessuno, ormai, portava più il grano da macinare; e sul ruolino pareva che pesasse un silenzio di morte, interrotto, di notte, dal lamento di una civetta, che veniva dall’alto della casa. Segno di cattivo augurio!

Allora, il mugnaio fu preso da un desiderio folle e improvviso di ascoltare ancora, per l’ultima volta, la nota canzone. Scese giù, nel locale delle macine, a dare l’avvio all’acqua e a rimettere in moto le ruote. Le macine ripresero a girare veloci sui loro perni, come un tempo, e ancora il vecchio molino, come scosso per tutte le sue ossature da un brivido di gioia, fu pieno del rombo della sua antica canzone.

Il mugnaio ebbe un lampo di luce negli occhi. Ma, ahimè!, le macine giravano a vuoto e dalle ampie tramoggie, scosse come da una mano invisibile, non scendeva più il grano in lunghi rivoli d’oro, nè più si spandeva intorno quella tenue velatura di farina, che si posava sui muri e sulle ragnatele della stanza.

Per tutto il giorno, il mugnaio non si mosse di lì, intento a guardare le macine, che turbinavano senza tregua e ad ascoltare, in quel luogo, ove, ormai, regnavano la miseria e l’abbandono, la vecchia canzone del suo molino.

La moglie (chi non conosceva a Praticello la Marianna?) lo osservava in silenzio e si sentiva morire.

La mattina dopo, la povera donna, non si alzò: disse che non stava bene.

Il marito capì. Uscì dalla stanza, si allontanò di buon passo dal molino e andò a chiamare il Priore.

C’la dona la sta par morir! – gli disse asciutto, appena fu davanti a lui.

— Che cos’ha? – chiese il Priore.

— Non ha nulla – rispose il mugnaio – Stamattina non si è alzata. Succede così a noi: quando, non ci si alza più, vuol dire che è venuta l’ora di andarsene.

E aggiunse:

— Lavorava come un uomo. E ha allevato otto figli, tutti contadini, e tutti padri di famiglia. E tutti hanno fatto il soldato. Ma armai l’è fnì anca lé…

— E il dottore l’ha veduta?

— Per morire non c’è bisogno dei dottore – disse rassegnato il mugnaio.

Il Priore lo seguì; e quando, poco dopo, entrò, con lui, nella modesta stanza da letto, la Marianna lo aspettava.

Gli sorrise. Respirava con difficoltà. Il suo povero corpo non aveva più carne. Teneva la mano distesa sulla coperta; ed era una mano nodosa e disseccata come un ramo avvizzito. Solo gli occhi erano ancora vivi e conservavano la fiamma di cinquant’anni di lavoro e di fede. Attendeva la morte senza turbarsi. Sapeva che, per la povera gente, ci vuol più coraggio a vivere che a morire.

Quando il Priore se ne fu andato, la donna si sentì più tranquilla. Guardò con tenerezza il suo uomo, che era stato, per tutta la vita, il compagno fedele dei giorni lieti e dei giorni tristi e gli disse con semplicità:

— Sarvestar, sento che me ne vado.

E volse gli occhi buoni e fiduciosi a un rozzo Crocifisso di legno, appeso alla parete. Anche Lui aveva sofferto; e aveva sofferto per tutti.

Guardò ancora il marito. E poichè, in gioventù, era stata gaia e arguta di spirito, aggiunse con un sorriso:

— Sai? Appena arriverò lassù, domanderò una scranna per sedermi. Non mi sono mai seduta in tutta la vita…

Ma era stanchissima; e smise di parlare. Chiuse gli occhi e parve addormentarsi. Non si udiva che il suo respiro sempre più affannoso.

Il mugnaio accese, sotto il rozzo Cristo di legno, una piccola lucerna a olio. Poi, si accostò alla finestra e guardò, attraverso i vetri, il piano di Praticello.

Nella torrida sera d’agosto, neri nuvoloni, spinti dal vento, si accavallavano nel cielo, annunciatori di tempesta. L’aria si era fatta scura. Sull’Orsaro, con un frastuono di carri giganteschi, rumoreggiava il tuono e si faceva sempre più vicino. Raffiche di vento scuotevano i pioppi, intorno al molino. Al di là di essi, si scorgevano le case scure di Praticello e la piccola chiesa con la cupola. Il cielo, sempre più minaccioso, era solcato da bagliori rossastri.

Ad un tratto, un barbaglio improvviso e uno scroscio enorme dettero il segno dello scatenarsi della bufera. L’oscurità era ormai completa. Rovesci violenti di pioggia a diluvio scrosciarono, con furore, sul tetto sconnesso del molino e squassarono i pioppi in un tumulto crescente di raffiche, di sibili, di schianti. Era un balenìo continuo di lampi; ma, ogni tanto, un lampo più grande accendeva l’orizzonte, scoprendo, nel bagliore improvviso, una fuga fantastica di nubi; poi, uno schianto vigoroso e prolungato, come se, a un tratto, volesse crollare il cielo.

La tempesta durò a lungo; finchè a poco a poco si calmò. I tuoni si fecero più radi e lontani. Solo il torrente, gonfio da quel diluvio, continuava a rumoreggiare paurosamente, con un rotolìo di massi, travolti dalla furia della corrente, dominando il rumore delle macine in moto. Ma, improvvisamente, rotta la gora dall’impeto delle acque, il mulino si fermò, come un gran cuore, che avesse cessato i suoi battiti, restando muto per sempre.

E aveva cessato di battere anche il piccolo cuore della donna.

Ormai, tutto era proprio finito!

Il mugnaio, col cuore che gli batteva forte, lasciò la camera, rischiarata dalla fiamma della piccola lucerna e uscì fuori all’aperto.

Anche lui si sentiva morire.

Nel cielo, tornato sereno, splendeva un gran disco di luna. Come un sonnambulo, il mugnaio s’incamminò verso quella rovina dei campi e dei prati, che erano stati l’umile orgoglio della gente di Praticello. Ma, presto, si fermò. Nel terso chiarore lunare, egli guardò, a lungo, il piano devastato e sconvolto dalle nuove mostruose costruzioni, che lo rendevano ormai irriconoscibile ai suoi stessi occhi. Più lontano, la chiesa di Praticello, col profilo della sua cupola, vegliava ancora, nella notte, le piccole case ormai vuote. Allora, come improvvisamente impazzito, il mugnaio protese i pugni nell’aria e li agitò furiosamente in atto di minaccia, urlando, nella notte, uno spaventosa imprecazione contro chi era stato la causa di tutta quella rovina.

Gli fece eco, da lontano, un cane randagio, che ululò lamentosamente nella notte, imitando il richiamo del lupo.

La luna, intanto, si era nascosta, dietro il monte opposto, che proiettava sul piano la sua ombra enorme, come per non vedere più quello spettacolo di desolazione e di morte.

Il mugnaio tornò, a passi lenti, verso il molino.

Da un botro vicino saliva, a tratti, un roco cantare di rane.

L’uomo, ormai sperduto e senza nessuno, risalì, per l’ultima volta, nella stanza silenziosa e rimase, solo, a vegliare la sua morta.

Ed era cessata, per sempre, anche la canzone del vecchio molino.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il molino del piano
AUTORE: P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Novelle di Valdimagra / P. da Pontelungo.
- Pontremoli : Artigianelli, 1944. - 226 p. ; 23 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)