Il mistero.
di
Egisto Roggero
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La casa ove mio padre aveva stabilito che io e mio fratello passassimo il tempo che lui doveva impiegare nel suo viaggio in Germania, era un vecchio fabbricato nobiliare costruito senza risparmio alcuno, come se ne vedono tanti nelle nostre città di provincia: vasto portone d’entrata, immenso cortile, stanzoni senza ciclo nè confine, e, in alto, sopra tutto, una sequela interminabile di soffitte, soppalchi, bugigattoli, stanzini buj senza fine.
Gli abitatori di questo antico palazzone – vecchi amici di mio padre, ai quali noi eravamo stati affidati durante la sua assenza – erano i conti di *** ora alquanto decaduti dal primitivo splendore, sebbene ancora benestanti, ma un giorno ricchissimi e potenti in quella cittaduzza e per quelle campagne. Ricordo la famiglia composta dal conte Gerolamo, il padre; sua moglie – una placida signora grassa, silenziosa e tutta chiesa – e un’antipaticissima (per noi ragazzi) contessina, mantenutasi nubile sino ai trent’anni, magra, pallida e vibrante tutta per nervosismo acuto in maniera disperante.
Il buon signor Gerolamo prendendoci in consegna da nostro padre ci aveva mostrato l’immenso cortile, vuoto e silenzioso, pieno d’erba che sbucava di tra le commessure delle pietre, come in un prato, e ci aveva detto:
— Qui avete ove correre, saltare, rotolarvi a vostro piacimento. Nessuno vi dirà nulla. Quando il sole sarà troppo caldo e sentirete il bisogno di giuocare all’ombra, avrete a vostra completa disposizione le soffitte….
Noi battemmo le mani contenti a queste parole del buon conte.
— Lassù – proseguì egli – non vi manca posto per isbizzarrirvi. Però mi raccomando, ragazzi, di non farvi troppo sentire da Adalgisa (era la nubile e magra figliuola). Ella soffre orribilmente il rumore…. compatitela, è molto nervosa, oh molto, sì, veramente!… e non fatela mai inquietare, vi raccomando.
Così prendemmo possesso assoluto, io e mio fratello, dell’immenso cortile e delle sconfinate soffitte del nobiliare palazzo dei conti ***.
Si può immaginare come noi due ragazzi, approfittammo largamente e con entusiasmo della parte del suo dominio concessaci dal buon conte Gerolamo. Però io, sin dai primi giorni, sentii una spiccata preferenza per le soffitte piuttosto che pel cortile, luogo preferito invece da mio fratello per le sue galoppate libere e senza freno. Mio fratello aveva undici anni ed io quattordici; e sin d’allora in me la fantasia e la tendenza a pensare accennava a prendersi una buona parte di predominio sulle altre mie facoltà. Era per ciò appunto che io, alle libere corse sul mal connesso lastricato erboso del cortile, preferiva, come ho detto, il silenzio, il mistero, il buio e la polvere, anche, delle sconfinate soffitte di quella casa.
Mentre mio fratello si abbandonava alla suprema voluttà della più completa indipendenza, giù nel cortile che pareva una piazza d’armi, io me ne andava su per la lunga scala di legno tarlata e vacillante che dalle ultime stanze abitabili del palazzo conduceva nel polveroso e decrepito regno delle soffitte. Una volta là sopra, io era propriamente nel mondo de’ miei sogni. Che meraviglioso materiale per le mie fantasticherie c che sconfinato alimento per la mia fantastica curiosità!…
Un buon numero di quegli stanzoni bui erano ingombri di vecchie seggiole rotte, di decrepiti seggioloni di tutti gli stili dei secoli passati, di enormi armadi tarlati – immense abitazioni d’intere generazioni di topi – di cassapanche, di mobili indecifrabili di tutti i generi, morti e sepolti sotto uno strato di polvere che i secoli avevano depositato.
Quanta polvere!…
Era veramente una cosa spettacolosa la polvere che, padrona assoluta, dominava quel morto regno di cose di altri tempi e di un’altra vita. Qua e là si era solidificata; aveva formato croste, prati, valli, piane di terreno, sui quali il fungo della decrepitezza si sviluppava a suo piacimento.
Tutta la storia di casa *** si poteva dire raccolta là dentro, fra quei seggioloni, un tempo dorati, che perdevano a brandelli il broccato che un tempo li aveva resi preziosi; fra quelle cassapanche di noce tutto buchi, dagli ornati mangiati dai tarli e rosi dai topi; fra quelle vecchie stoviglie, fra quella miriade di oggetti misteriosi e incomprensibili sepolti sotto la polvere.
Io passava molte ore fra quei vecchiumi che appena tòcchi sollevavano un nembo acre e turbinoso che mi entrava negli occhi, nelle narici, nella gola; e mi faceva tossire e starnutare a più non posso. Bisognava vedere, quand’io usciva di là, quando ritornavo alla luce, le traccie lasciate sui miei poveri abiti! Parevo uscito da cento mulini, caduto in cento fosse di melma, rotolato su cento strade provinciali di campagna dopo parecchie ore di sole d’un meriggio di luglio!
V’eran però altri stanzoni sgombri da vecchi avanzi e rottami, ma perfettamente al buio. Alcuni ricevevano sprazzi di luce pallida e incerta da feritoie e fenditure prodottesi nei mattoni e nei tegoli sull’intelaiatura del soffitto. Io mi fermava talvolta là, solo, nel silenzio profondo, a sentir cantare il vento fra le tegole smosse, insieme col cinguettio dei passeri che sulla mia testa, fra quelle tegole, avevano il nido…. Talvolta io faceva in modo di arrivare con l’occhio ad una di quelle fenditure luminose del soffitto, e allora al mio occhio si apriva un tratto di campagna piena di sole e susurrante, e guardavo a lungo con uno strano sentimento: come se mi si rivelasse la visione di un mondo nuovo, di terre mai vedute, di un cielo diverso da quello ch’ero pur solito scorgere tutti i giorni. E rimaneva a fantasticare lungo tempo, vinto da uno strano sentimento che non so spiegare; come un misterioso desiderio d’ignoto, un vago bisogno di scoprire cose nuove, che non sapevo nel mio cuore precisare in mezzo a quelle muraglie grigie, fra quei mobili che cadevano a pezzi, fra quelle stoffe che si dissolvevano, sotto quella polvere che copriva tutto.
⁂
Le sere erano molto noiose, per noi ragazzi. Mio fratello, appena cenato, si addormentava subito: effetto delle interminabili corse del giorno, e bisognava condurlo subito a letto. Io mi sedeva qualche volta in un angolo, mentre il conte Gerolamo leggeva il giornale e la contessa diceva il rosario per conto suo, vicino alla scarna Adalgisa; la quale quando i nervi non la tormentavano troppo si compiaceva di narrarmi molte vecchie storie di casa *** che pare fosse molto ricca di coteste storie e leggende.
Una specialmente di esse mi aveva colpito.
Si trattava di una vecchia zia del conte (andavamo al principio del secolo) la quale sembra non fosse troppo in odore di santità. Era però molto ricca e, venuta a trovare i suoi amati parenti, aveva condotto con sè una ancella, o dama di compagnia, o servente che fosse, la quale mai non l’abbandonava un momento. Ora, pare che una notte – non si seppe mai come nè in che modo – la signora e la serva scomparvero, improvvisamente, non volate al cielo ma, si supponeva, sprofondate nei più profondi baratri dell’inferno per quella loro vita disordinata e peccaminosa.
La contessina Adalgisa si fermava qui, nella sua storia; ma – lo seppi dopo – ben altrimenti correvano i commenti che allora, e per molto tempo ancora, si vociferarono insistenti in paese e ne’ dintorni sulla misteriosa sparizione. Si diceva che la vecchia zia, carica d’oro e di gioie di grande valore, era stata invitata con secondo fine al palazzo dei *** dove le facoltà già cominciavano a declinare per gli scialacqui…. ed era stata fatta sparire: la ragione si comprende bene. I più dicevano ch’era stata sepolta viva in qualche secreta del palazzo, lei e la fantesca. Se ne era parlato molto a lungo: ma i conti di *** erano ancora potenti e la cosa, come succedeva allora, era stata agevolmente messa in tacere, almeno palesemente.
Senonchè, la fosca leggenda viveva ancora in paese, vecchia e polverosa anch’essa come le soffitte di casa ***, ma viveva.
E qualcuno, capitando l’occasione, la rievocava e, alludendo alla decadenza della nobile famiglia, soleva finire ricordando la solita farina del diavolo….
⁂
Ora, un giorno io mi trovava precisamente in uno de’ più reconditi stambugi sotto i tetti: nero come una notte invernale, silenzioso come l’antro della morte. Stavo fantasticando, là dentro, preso più che mai dall’ignoto sentimento che ho detto – la smania misteriosa di scoprire qualche secreto, qualche lembo ignorato di palazzo, qualche trabocchetto, qualcosa di strano, di nuovo, di fantastico che mi solleticava arcanamente come quando, fanciulletto sentiva a raccontare del pellegrino smarrito nella caverna che scopre il regno del Sole, passando per cento stanze luminose e scintillanti d’un fulgore che acceca gli occhi.
Intorno a me, dunque, buio e silenzio. Io non udiva altro, sulla mia testa, che il rodere lento e continuo di un tarlo invisibile, sepolto in qualche vecchia trave. A un tratto, mi colpisce la vista un filolino di luce, lungo e continuo per un certo tratto sulla muraglia. Mi accosto: il filo della luce, piuttosto alto sopra la mia testa, sembra delineare la parte superiore di una porticina che non si vede, infitta nel muro. Picchio con la mano: è una porta. Il mio cuore batte fortemente: il mistero, l’ignoto, il palazzo incantato forse, la scoperta, insomma, vagamente intuita e tanto desiata, sta forse per rivelarsi a me?… Mi cerco in tasca; non ho che un piccolo temperino. Tento, tasto, cerco di scrostare il muro: dopo un buon quarto d’ora di lavoro riesco, seguendo una linea perpendicolare a quella luminosa, a scoprire realmente la commensura di una breve porta. Corro di sotto, vo’ a chiamare mio fratello e lo metto a parte della scoperta. Egli vien su, piuttosto spaventato che incuriosito della cosa. Gli fo coraggio, e ci mettiamo a lavorare in due.
Avevo preso con me, nel cortile, una lunga asta di ferro che ci poteva servire benissimo come leva, Si prova, si tenta, si fa forza: dopo molti tentativi e molti sforzi la porticina cede e si apre. Una viva luce ci abbarbaglia la vista, costretta sino a quel momento alla oscurità della soffitta. Entriamo. È un breve stambugio vuoto, con una finestrella ferrata: in terra alcuni rottami di vasi di terra. In fondo, ben visibile questa, è un’altra porticina di ferro, tutta irrugginita; è chiusa da un saliscendi. Proviamo ad aprire: non ci riesce dapprima. I due ferri irrugginiti si eran come incastrati l’un nell’altro.
Riusciamo finalmente a staccare la leva del saliscendi dall’incastro. La porticina di ferro si muove. Ci si apre davanti un vuoto nero e pauroso: qualcosa d’informe, di strano, d’incerto biancheggia là in fondo. Mio fratello dà un grido di spavento: io colpito dalla sua voce, sono preso dall’istesso suo folle terrore e via, a gambe, giù a rompicollo, sino in salone dove il conte Gerolamo leggeva tranquillamente il suo eterno giornale.
⁂
Il conte Gerolamo salì lui, di sopra, solo.
Lo vedemmo ridiscendere, poco dopo, molto turbato. Ci fece cenno di andare a giuocare in cortile e si avviò in cerca della contessa. Io però rimasi, e feci in modo di poterlo osservare. Lo vidi parlare a lungo alla moglie: questa ascoltò molto maravigliata, dapprima, poi spaventata: infine si fece il segno della croce o mormorò:
— Gesummaria!
Il giorno dopo il conte in persona, con Domenico, il vecchio servo di casa, andò secretamente su in soffitta con calce e mattoni, e, di sua mano stessa, aiutato da Domenico, murò la porticina da noi aperta nel bugigattolo.
Da quel giorno le soffitte furon chiuse per noi. Ma io dopo, ripensando bene, mi andai convincendo sempre più che qualche rapporto fra la vecchia storia di casa *** narratami dalla scarna e nevrotica contessina Adalgisa e la mia scoperta ci dovea pur essere stato.
Fine.
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TITOLO: Il mistero
AUTORE: Egisto Roggero
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA:I racconti meravigliosi / Egisto Roggero. - Milano : La poligrafica, 1901. - 257 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC000000 FICTION / Generale