Il fuggiasco

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 7 minuti


Sui fienili e nelle stalle da un pezzo non volevano piú nessuno, perché poi succedeva che venivano gli altri a far rappresaglia. Davano un piatto di minestra e del pane solo a chiederlo, ma dicevano di andarselo a mangiare lontano; ci voleva un discorso ben grosso per trattenerli sulla porta. Ogni tanto pioveva e bisognava ripararsi sotto i ponti. Quando trovai quella cappella abbandonata non dissi niente a nessuno e, ficcata della foglia nel sacco, mi ci misi a dormire. Di scappare e ascoltare ne avevo abbastanza.
Mi svegliai ch’era ancor notte piú che giorno e dalla finestretta non entrava tanta luce da vederla. S’era rimesso a piovere forte, e qualche spruzzo m’arrivava in faccia. Stavo disteso dentro il sacco e mi godevo il tepore. Non lontano, un cane abbaiava e lo immaginavo randagio sotto l’acqua e dolorante di fame. In quel buio invernale sembrava la voce di tutta la terra. Nel dormiveglia sussultavo.
La pioggia all’alba si schiarí e mi vidi intorno delle vigne vendemmiate. Tutto era fango e foglie rosse. Della cappella restava ancora un vetro rosa screpolato e da quel vetro si vedeva la campagna. Nella buona stagione dovevano starci per guardia dell’uva.
Qualunque cosa succedesse, era un posto fuorimano. Passai la giornata in paese. Era domenica e giocavano alle bocce. Io me ne stetti contro il muro a guardare le facce e conoscerli; li ascoltavo scherzare e gridare. Di lassú s’intravedeva nella nebbia tutta la vallata e la strada grande e le colline in faccia che calavano a Po. Un paese di quella valle era stato bruciato, e della gente uccisa. I piú dicevano per dire, ma un piccolotto che ascoltava disse subito: – Per passare è meglio di là; dove han bruciato non c’è piú sorveglianza.
Col buio tornai nella cappella e, inquieto com’ero, avrei voluto che piovesse. S’era invece levato un gran vento che sbatteva le stelle e rifaceva quella notte ch’ero uscito sulle colline. Nel vento tutto era nitido e nero e si sentivano le foglie rotolare. Dormii appena.
Il vento durò qualche giorno. C’era di buono che asciugava la campagna. Non sapevo risolvermi a lasciare il paese. Quell’ultima barriera di colline mi faceva paura.
Mi ritrovai col piccolotto delle bocce. Parlava poco ma capiva al volo. Mi aveva condotto nel suo cortile, dietro casa, e qui d’accordo con le donne portato un piatto di minestra. Poi a queste avevo dovuto raccontare delle storie, perché volevano sapere quando la guerra finiva. – Durasse anche un secolo, – dicevo, – chi sta meglio di voi? – C’era ancora sotto il portico la chiazza di sangue dove avevano ucciso il maiale. – Vedete com’è, – disse il mio giovanotto, – questa fine la dobbiamo far tutti.
Piú tardi, in cortile, gli avevo chiesto se non si vergognava di parlare soltanto. Lui mi aveva guardato ridendo e fatto un cenno alla casa e alla finestra illuminata.
— Avevo anch’io una casa, – gli dissi.
A lui lasciai vedere dove dormivo la notte. Mi accompagnò ch’era già buio e mi disse che, se bastasse dormire in chiesa per stare al sicuro, le chiese sarebbero piene. – Qui non è piú una chiesa, – dissi, – sull’altare ci han pestato le noci e acceso il fuoco per terra.
— Ci venivamo da ragazzi a giocare, – mi disse.
Poi mi disse com’era in paese e che tutti vivevano nella paura che sullo stradale toccasse una fucilata a un soldato o fermassero un camion. – A O… hanno incendiato anche la chiesa, – dissi.
— Bruciassero queste soltanto, – disse lui, – sarebbe una cosa.
Ma di tutte le chiese che avevo veduto, la mia cappelletta era la piú sicura. Raccogliemmo tutti i rami che trovammo, e coi cartocci della meliga buttati accendemmo un po’ di fuoco nel cantuccio sotto la finestra. Poi seduti davanti alla fiamma fumammo nella pipa, come fanno i ragazzi. Dicevamo scherzando: – Per dar fuoco, sappiamo anche noi –. In principio non ero tranquillo, e uscii fuori a studiare la finestra, ma il riflesso era poco e, di piú, parato da un rialto. – Non si vede, no, no, – disse Otino.
Allora parlammo un’altra volta delle facce del paese e di quelli che avevano paura piú di noi. – Anche loro non vivono piú. Non è vivere. Lo sanno che verrà il momento.
— Siamo tutti in trincea.
Otino rideva. Lontano scoppiò una fucilata.
— Incominciano, – dissi.
Tendemmo l’orecchio. Ora il vento taceva e i cani abbaiavano. – Andate a casa, – dissi.
Spensi subito il fuoco. Passai la notte nel puzzo di fumo, tremando ai pensieri. Mi pareva, rivoltandomi nel sacco, che il suo scroscio riempisse la notte.
L’indomani studiai risoluto la barriera di colline che mi attendeva. Erano brune e disseccate dal vento e dalla stagione, limpide sotto il cielo. Il pericolo non era lassú, ma di là, sulle strade d’accesso ai ponti e alla piana. Nessuno sapeva dirmi la libertà di quelle strade. I nostri che battevano i boschi avevan certo provocato una cintura di terrore agli sbocchi. Era prudente abbandonare la cappella per cacciarsi laggiú?
Salii la stradicciuola a comprare del pane in paese. La gente mi guardava dagli usci, sospettosa e curiosa. A qualcuno facevo un cenno di saluto. Dalla piazza in alto, si vedevano altre colline quasi azzurre. Mi fermai contro la chiesa, sotto il sole. Nel tepore e nel silenzio ebbi un’idea di speranza. Mi parve impossibile tutto quel che accadeva. La vita avrebbe un giorno ripreso, sicura e ferma com’era in quest’attimo. Da troppo tempo l’avevo dimenticato. Il sangue e il saccheggio non potevano durare per sempre. Stetti un pezzo con le spalle alla chiesa.
Ne uscí una ragazza. Si guardò intorno e discese la strada. Per un istante entrò anche lei nella speranza. Scendeva guardinga sui ciottoli scabri. Ma fece la donna e non si volse a guardarmi.
Sulla piazzetta non vedevo anima viva e i tetti bruni ammonticchiati, che fino a ieri m’eran parsi un nascondiglio sicuro, adesso mi parvero tane da cui si fa uscire la preda col fuoco. Il problema era soltanto resistere alla fiamma finché un giorno fosse spenta. Bisognava resistere, per ritrovare un giorno la speranza intatta.
La sera vennero voci di un’azione nella vallata accanto, contro un paese che non aveva mai avuto un solo guaio. Cosí giuravano. Difatti non s’era sentita nemmeno una fucilata: le stalle erano state saccheggiate e dei fienili incendiati. La gente, fuggita nei boschi, sentiva i suoi vitelli muggire e non poteva accorrere. Era stato sul tardo mattino, proprio nell’ora ch’io guardavo dalla chiesa.
Andai a cercare Otino nel campo. Fermò uno dei buoi per la coda, e mi disse: – Stanno freschi. Sono giornate che passano presto. Viene il maltempo e chi è piú capace a lavorare.
Gli dissi che poteva toccare anche a lui.
— Ma è per questo, – mi disse, – che diamo dentro a finire. Poi si sta chiusi fino a marzo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Non ero stato il solo quel giorno a osservare le montagne che parevano nuvole. La padrona di Otino era uscita fra i pini e s’era fermata un momento a guardarle. Poi rientrando aveva appeso il secchio d’acqua in cucina e messo il latte al fuoco per il piccolo Guido. Da un pezzo era passato Otino coi buoi ma Guido dormiva e non era salito sul carro. La donna s’era fatta alla finestra e aveva chiesto a Otino se ero sempre in paese.
— Dorme sempre a San Grato? e chi è? – Allora Otino aveva detto che con me si poteva parlare ma che chiedere a uno «chi sei?» non si può. – Dalla montagna? forse viene di lassú? – gli aveva detto la padrona.
— Gli scarponi li ha, – disse Otino.
Nel pomeriggio erano andati con le sorelle di Otino a raccogliere le ultime mele. Guido corse avanti col cesto, e un grosso nugolo di storni s’era levato dai filari. Fecero un rombo come fosse un motore. Guido si chinò e ai fuggiaschi tirò una manciata di sassi, strepitando a mitragliatrice: – Tatatà, tatatà.
— Fatti furbo, – gli disse la donna, – sei vecchio quest’anno.
Le ragazze ridevano. – Siete vecchie voialtre, – disse Guido. – E vi piace ballare. Volete che la guerra finisca per tornare a ballare.
— Tu non vuoi che finisca? – disse una.
— Non può finire, – disse Guido, – quando la guerra è dappertutto come adesso, non può finire mai piú.
La padrona disse: – Raccogliamo queste mele.
Dalla vigna Guido aveva fatto una corsa al campo di Otino e rotolando in mezzo ai solchi chiamò se c’ero anch’io.
— Chi? – gridò Otino.
— Quell’uomo che dorme a San Grato. San Grato!
— È andato via. Via! – rispose Otino, senza fermare l’aratro.
— Dovevi dirgli di venire a casa nostra.
— Perché? – gridò Otino, ridendo.
— Perché le donne sono vecchie. Vecchie!
Poi Guido corse fino ai piedi della costa, scese ancora, arrivò tanto in basso nel campo, che invece di vedere le colline a strapiombo le travedeva lontane, fra gli steli del canneto.
Qui si nascose nelle canne, e pensò che cominciasse un’azione, e si tastava le mele nella camicia, indeciso se farne pallottole o pane. Poi le morse e scagliava i torsoli agli uccelli. Cercò piú volte col tiro di passar sopra alla cappella di San Grato, per non farsi un nemico di chi ci dormiva, e s’accostò alla cappella strisciando per terra. A quell’ora io scendevo dalla collina del bosco, dove salivo per dominare la valle.
Lassú era pieno di nascondigli e di valloni, di stradette perdute nella macchia, di salti improvvisi nel vuoto. Avevo visto di lassú nel campo bruno i buoi d’Otino che sembravano fermi. Nell’aria fresca si sentivano le voci suonare tranquille, e se un urlo, uno sparo, avesse rotto quella calma i buoi laggiú non si sarebbero mossi. Quella sera ero contento; dovevo mangiare una minestra nel cortile di Otino, poi tornarmene solo nella vecchia cappella e star nascosto. Pensavo che, se nessun armato sarebbe mai salito per quelle strade, il mio rifugio era come un gioco, come un’insolita villeggiatura di convento. In alto, sulla collina, avevo ritrovato quella speranza, quella libertà, e capivo che per viverla bastava pensarla reale. Qui non c’erano le case, le soffitte e le piazze dove il pericolo guatava all’angolo. Qui nessuno mi aspettava a un appuntamento mortale. Qui non c’era che terra e colline e bastava appiattirsi alla terra per vivere ancora.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Fine.


Liber Liber

Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: https://www.liberliber.it/.

Fai una donazione

Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: https://www.liberliber.it/online/aiuta/.


QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il fuggiasco
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)