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Il figlio del mio dolore (1921) fu il primo romanzo di numerosi altri, scritti durante la sua feconda vita letteraria da Milli Dandolo, la quale, dopo un esordio nella poesia, affiancò la sua produzione di romanzi per adulti ad una attività molto intensa di editoria per la gioventù nella quale prevale un forte intento educativo. Tema comune e costante ad entrambi gli ambiti letterari è tuttavia una vena malinconica, svolta con una particolare attenzione alla forma, con un’indubbia languidezza decadente ma senza riflessi dannunziani.
In particolare, nei romanzi per adulti il tono è decisamente più doloroso, disperato, spesso straniante e il dolore diventa una componente ineludibile di ogni relazione umana, fino ad arrivare a pervadere anche ogni forma di amore, dove il dolore si mescola anche con l’odio: più si odia e più si ama, più si ama e più si odia. Tanto per citare uno dei rimandi ad elementi esterni alla narrazione, si segnala che nei pomeriggi trascorsi presso i vicini di casa veneziani, il tema più spesso eseguito al pianoforte è il Valse triste di Sibelius. L’opera 44 No.1 (1903) del compositore finlandese, qui arrangiata per piano ed eseguita da Leif Ove Andsnes, fa parte delle musiche di scena del dramma Kuolema (Morte) ed è di una leggerezza alienante, stridente. È senza alcun dubbio un valzer triste.
Nel tentativo di mitigare la mestizia, il dolore esistenziale, frutto di una continua e meticolosa autoanalisi della protagonista, l’autrice introduce nel romanzo il contrappeso della descrizione lirica di paesaggi e ambienti naturali, che, anche se mai sereni e rigogliosi, tuttavia anche nella loro decadenza e malinconia, se non riescono ad attenuare la pena, almeno si dimostrano compagni di sventura.
La descrizione del “piccolo giardino incolto e deserto”, unico compagno di giorni e giorni solitari e tristi:
«Spingendo la testa fra due ferri arrugginiti ella poteva vedere traccie di aiuole devastate, qualche cespuglio deforme, qualche rosaio dalle braccia contorte, un fico nano, un aggrovigliamento di glicine, di caprifoglio e di bambù ai piedi d’un alto tronco d’oleandro. […] L’umidità doveva esservi perenne perchè il musco tappezzava i sentieri e l’edera copriva i muri; tutto era verde, cupo, lucente. Ma nei mesi d’estate la fiorita in quell’ombra umida era meravigliosa. I rosai deformi si accendevano di rose rosse, l’oleandro era tutto rosa, le glicine sbocciavano in una primavera tarda, pallide come cristallo annebbiato, il caprifoglio inebriava di profumo; e tutto era un ammasso selvaggio di colori come un lembo di foresta vergine, e tutto fioriva quasi con furia, come in una voluttà di solitudine e di silenzio. […]»
fa ricordare, per contrasto, la meravigliosa descrizione dell’orto abbandonato e poi ritrovato, dopo tutte le sue vicissitudini, da Renzo, ne I promessi sposi – il brano, definito da Ermanno Cavazzoni “due pagine di entusiasmo botanico” (I giardini di Renzo, in «Domenica – Il Sole 24 Ore», 01 aprile 2012), venne aggiunto nell’edizione definitiva –:
«Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. […] Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri […].» (I promessi sposi, di Alessandro Manzoni, cap. XXXIII, edizione Liber Liber)
Se per Dandolo la natura abbandonata, devastata, sembra essere il riflesso, una conferma dei sentimenti mesti e rassegnati della protagonista, per Manzoni è invece il segno del punto più infimo raggiunto dal dolore ma insieme l’esortazione alla rinascita.
Lalage è un’adolescente cupa, delicata, rassegnata, vissuta sempre sola tra le mura di casa, priva anche dell’affetto dei genitori, apatici ed anaffettivi, per la quale l’unica esperienza dell’amore non può che essere ambigua, devastante, capace di distruggere la vita.
«— Papà, perchè mi avete messo nome Lalage? Egli tagliava le pagine d’un libro; non alzò la testa. — Si cercava un bel nome: tua madre era allegra; ne scegliemmo tre; uno era Lalage, non ricordo gli altri due; uno era Camilla, mi pare; poi si tirò a sorte e uscì Lalage. Ella sorrise appena con le labbra, senza aprire gli occhi. — Ah si tirò a sorte. Già.»
Nel mondo narrativo di Dandolo, ma in quegli anni in qualche modo anche reale, in cui gli uomini sono personaggi inconsistenti, spesso malvagi, certamente egoisti, l’unica possibilità per la donna, sempre vittima e mai eroina, è la propensione al matrimonio e alla maternità. La storia – ambientata per la gran parte, direi inevitabilmente, a Venezia, una Venezia, come immaginabile, misteriosa, solitaria e malinconica – è semplice: il primo affaccio alla vita è fatale per Lalage, cade nel “peccato”, si può immaginare del tutto inconsapevolmente, ma solo l’innocenza del bambino può purificare dai peccati. Sarà questo il destino di Lalage?
Compagna della sua attesa, è la struggente, “breve e affannosa” aria di Scarlatti – tratta da Il Pompeo (1682) – O cessate di piagarmi o lasciatemi morir, qui nell’esecuzione magistrale di Cecilia Bartoli e György Fischer al piano.
Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS
Dall’incipit del libro:
Ricordava senza affetto e senza rimpianto la città dov’era nata e dov’era vissuta per tanto tempo.
Quando aveva compiuti sette anni sua madre l’aveva accompagnata a scuola; dopo qualche giorno ella aveva imparato a portare da sè i pochi libri e il cestino con la colazione, ed era sempre andata e tornata sola. Scendeva le innumerevoli scale della sua casa, percorreva la sua via grigia, e poi una via lunghissima e frequentata. I suoi piedini erano sicuri e veloci, e sarebbero arrivati prima di quanto occorreva; ma i suoi occhi obbligavano i piedini obbedienti a fermarsi davanti a tutte le vetrine. Ella non era mai sazia di guardare i nastri d’ogni colore, i pizzi, i bottoni lucenti, le scarpe eleganti, i cappelli, i libri legati in cuoio, le chicche, i balocchi, i fiori. I piedini si fermavano obbedienti, e gli occhi si aprivano avidi ed assorti davanti a tante cose meravigliose ch’ella poteva finalmente guardare, in silenzio, senza che sua madre la chiamasse o le prendesse la mano per obbligarla a camminare.
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