Il cuc.nota 1

di
Caterina Percoto

tempo di lettura: 20 minuti


A due tiri di fucile dal villaggio di Mansinello, in riva al picciolo torrente che scende dai colli vicini, presso al ponte è situata una rustica casetta da contadini, ma così propria e pulitina, che ti si rivela subito il ben essere della famiglia che dentro vi abita. All’un dei lati una palizzata nuova, sulle cui punte simmetricamente tagliate in forma di labarde fan capolino alcune rose del Bengala, chiude un orticello diligentemente scompartito; dall’altro s’allarga il cortile che scende fino alla corrente e dal quale a guisa di piramidi s’innalzano diverse biche di paglia e di strame, sulla cui più alta cima sventola una banderuola ad indicare i mutamenti dell’aria. Quel cortile è popolato da una quantità di bestiame minuto, e ti sarà di rado occorso di passarvi dinanzi senza vederne uscire od entrarvi reduci dal pascolo molte torme di polli d’India, di anitre, di oche, guidate da qualche tarchiato fanciulletto dalla cui cera rubizza ed allegra avrai potuto argomentare come lì dentro non vi sia, grazie a Dio, giammai penuria di buona polenta. Infatti dalle finestre del granaio puoi scorgere come ei sia tutto soffittato da lunghi festoni di granoturco, e spesso essi si protendono fino al di fuori appesi a dei grossi chiodi ad inghirlandare la facciata di mezzogiorno. Questa casa è abitata da una numerosa famiglia di contadini, che pagano puntualmente il loro affitto e a cui non manca giammai nè un tallero in saccoccia nè l’allegria nel cuore. Mi ricordo sempre la prima volta ch’io entrai a salutarli. Era d’inverno, e sedevano tutti adunati in cucina intorno a un bel fuoco, aspettando che si riversasse la polenta. Garzoni e giovanette, chi attendeva a sgranocchiare, chi con un coltellino intagliava di minuto e capriccioso lavorio il fusto d’una rócca; uno imbroccava un paio di eleganti zoccoletti dalla fodera di scarlatto e dal tacco a triangolo tutto a ghirigori; le donne filavano badando a’ bimbi, mentre la padrona di casa allestiva le scodelle e andava ogni qual tratto scoperchiando un capace tegame, le cui ondate di ghiotto e untuoso vapore facevano aprire gli occhi al dormiglioso alano che accovacciato lì dappresso al fuoco aspettava anch’egli colla famigliuola il momento di refocillarsi. Ma fra tutte quelle facce gioviali e piene di salute, la più originale, la più degna d’attenzione era quella del vecchio padrone di casa. Seduto in capo al focolare colle gambe incrociate, e colle mani or sulle ginocchia or distese alla vampa, egli andava guardando con un certo sorriso di compiacenza alla sua lieta famigliuola, e pareva che in suo cuore s’applaudisse di quella felicità, come se avesse avuto la coscienza di averla egli stesso creata. La sua fronte calva e leggermente corrugata dagli anni era serena, e sotto le folte sopracciglia già quasi affatto canute, gli brillavano sereni due begli occhi azzurri che il tempo non aveva potuto offuscare, e nella cui limpidezza traspariva la dolce tranquillità di un’anima contenta, come la bonaccia del cielo in una bella notte d’autunno. Un altro vecchio venerando gli sedeva dappresso intento a far ballonzolare sulle ginocchia una candida fanciulletta che ogni tanto gli si avvinghiava al collo, e baciandogli le guance abbronzite, confondeva i morbidi ricci della sua bionda testina colle ispide e grigie chiome di lui. Guardando a quei due uomini assisi lì, l’uno dappresso all’altro, e che evidentemente ti si mostravano per i padroni o i capi della famiglia, ti era facile l’accorgerti di una diversità di origine tra essi. La statura, il colorito, i lineamenti affatto differenti e perfino la pronunzia che presentava due di quelle caratteristiche varietà che qui nel nostro Friuli s’incontrano quasi ad ogni mutar di villaggio, ti palesava com’era impossibile ch’essi fossero nati dallo stesso padre; nemmanco nella stessa casa; mentre l’affetto con cui si guardavano e si rivolgevano il discorso, lasciava trasparire com’essi erano uniti da un legame assai più forte ancora, che non sono quelli del sangue. Essi erano cognati; Valentino aveva sposato una sorella di Domenico, e il modo con cui il caso li aveva congiunti era una di quelle vecchie istorie che quest’ultimo si compiaceva di spesso raccontare a’ suoi figli ed a’ suoi nipoti d’accanto al fuoco nelle lunghe sere invernali, nella quale egli riconosceva la mano benefica della Provvidenza e l’origine della sua presente prosperità. Ne’ suoi anni giovanili Domenico s’era trovato in ben altre circostanze; e in quella casetta, oggi sì florida, regnava allora lo stento, la miseria, il lavoro senza compenso. Rimasto orfano per tempo con due figli ancora bambini e con tre sorelle, delle quali, per l’età troppo fresca, una sola era in istato di prestargli aiuto nelle molte fatiche necessarie alla coltura della colonía ch’ei teneva in affitto, vedeva in ogni anno che passava un accrescimento di debito col padrone e sempre più consumarsi i suoi pochi modi di sussistenza. Mancavano le braccia al lavoro, e a provvederne di mercenarie bisognava ogni giorno disfarsi o di qualche utile oggetto o di qualche istrumento di agricoltura, o finalmente diminuire il numero degli animali compagni delle sue fatiche; e assottigliato così il suo capitale agrario, veniva di necessità che anche i campi dimagrissero a colpo d’occhio, ed egli si trovava sempre più povero ed affaticato. Nè giovava sperar nell’avvenire, perchè le sorelle che intanto si avvicinavano all’epoca del loro collocamento, avrebbero causato in breve, non solo una nuova diminuzione di capitale, ma anche di lavoro; e fino a tanto che i figli fossero cresciuti, egli aveva tutte le ragioni di temere, che il proprietario, vedendo ogni anno sminuita la sua rendita, pensasse a cambiare fittaiuolo. Egli era in questo tristo frangente, quando una mattina di gennaio, estremamente scorato, e non sapendo come più provvedere di biada alla sua povera famigliuola durante i lunghi tre mesi d’inverno che ancora rimanevano, uscì di casa nell’idea di recarsi al mercato a vendere gli unici due buoi da timone che ancora possedeva. Egli stette l’intero giorno immerso nella folla d’uomini e d’animali che in tale occasione riempie il vasto spazio a cui nella città di Udine si dà il nome di Giardino. Coi piedi nella mota, e colle spalle appoggiate all’uno de’ suoi buoi che in mezzo a quel tramestio stavano placidamente ruminando, ei ravvolgeva mille tristi pensieri, e si lasciava urtare e spingere dai sensali, dai venditori, dai compratori, senza curarsi dell’infernale schiamazzo e della moltitudine irrequieta che lo circondava. Solo, ogni volta che qualcuno allettato dal bel pelame delle sue bestie e dalle loro forme abbastanza promettenti veniva a palpar loro la giogaia, a pigliarle per le corna, a riconoscerne l’età col guardarneli in bocca, ei trasaliva e, come se non fosse stato lì per vendere, tremava dal vedersi dinanzi un compratore. La sola necessità lo aveva spinto a quel passo; ed ora ch’egli era sul punto di disfarsene, gli veniva dinanzi più gigante che mai il pensiero del come avrebbe poi fatto senza di essi ad arare ed a preparare la polenta e l’affitto per l’anno venturo. Due sole volte gli fu profferto un prezzo, ma tanto al di sotto del loro reale valore, che in coscienza ei non potè neanche contrattare. Sicchè, venuta la sera, tra afflitto e contento del non avere venduto, pensò di ritornarsene a casa. Preso un po’ di cibo così alla presta, veniva via per la strada postale, sempre mulinando al come avrebbe fatto a campare. Era stata una di quelle giornate d’inverno annebbiate e pallide, che non sai bene se voglia risolversi in pioggia od in neve, ed ora coll’avvicinarsi della notte spirava un acuto levante che agglomerava le goccioline invisibili di cui era piena l’atmosfera, e cangiatele in un fino nevischio le gettava sui rialzi della via e nei ridossi dei solchi, dimodochè già la terra cominciava ad apparire giù e colà allineata di bianco. Domenico procedeva in silenzio scuotendo ogni tanto dal cappello l’acqua diaccia che gli si fermava sull’ala e pestando i piedi che gli si andavano inzoccolando. Per ripararsi dal freddo, egli s’aveva gettato sulle spalle a mo’ di gabbano una specie di sdrucita casacca; ma il vento che gli dava giusto per mezzo alla faccia, finì ben presto di sradicare l’unico bottone che gliela teneva allacciata. Pensò allora di supplire con un auzzo di legno, ed a tal fine guardava lungo il fosso per vedere dove gli fosse stato più agevole il varcarlo a tagliarsi una bacchetta nella siepe. Gli diede allora nell’occhio un oscuro fardello mezzo coperto dalla neve che giaceva quasi nell’acqua. Lo raccolse; era un farsetto, pesava fuor di misura ed aveva le maniche gonfie e dure, come se ci fossero state entro ancora le braccia. E che diaccine vorrà esser qui? disse Domenico, che alzatolo esaminava le imboccature strette al basso da due vincigli attortigliati. Provvidenza di Dio! esclamò quando dopo aver introdotta la mano in uno di que’ pesanti salcicciotti, la cavò piena di svanziche. Gli è denaro, tutto denaro! E come il foglio, su cui si abbia scritto coll’inchiostro simpatico, al calore del fuoco cambia subito d’aspetto e lascia comparire il pensiero e la vita dove prima non era che carta insipida e bianca, così egli al tocco di quel metallo si risentì tutto quanto, si rianimò, il cuore dilatato accolse con battito di gioia il sangue che gli affluiva più vivace e più rapido, le idee della sua mente presero subito un altro corso, ed ei si trovò come per incanto tramutato in tutt’altro uomo. Mille pensieri, mille diversi progetti gli si affacciarono. Camminava concitato, e si vedeva dinanzi agli occhi la gioia della sua famiglia, i campi che teneva in affitto lavorati e concimati all’ultimo apice, le masserizie rinnovate, le sorelle, la moglie, i figliuoli vestiti da festa, nuotare nell’abbondanza e nella consolazione; e già gli pareva d’incontrare per la via il suo padrone, guidando non mica quei due poveri ed unici buoi, ma la più numerosa e la più pingue plinanota 2 del contorno e di salutarlo senza neanche levarsi il cappello di testa, con quell’aria soddisfatta e quasi da eguale che sa tenere il contadino benestante che non ha bisogno di nessuno, e che non tiene un quattrino di debito con chi che sia. Egli era il ben venuto in tutte le osterie, il rispettato nel paese, il factotum nel consiglio comunale; ristorava la chiesa, il campanile, faceva fare di nuovo il pozzo: insomma per un momento gli passarono pel capo i più matti pensieri, e immaginava ogni sorta di eventi, eccetto il più ovvio e naturale, quello che doveva succedergli da lì pochi passi, cioè d’incontrarsi nel padrone della somma ch’egli aveva rinvenuta.

Domenico era appena andato alquanti tiri di fucile, che si vide venir incontro correndo un giovane tutto ansante ed in lacrime. Quando fu a portata d’essere inteso, si fermò a raccogliere il fiato, poi in atto di somma angoscia gli chiese: — Avreste per sorte, galantuomo, veduto per via un farsetto con del danaro legato nelle maniche?

— Un farsetto, replicò Menico, con del danaro?… Avete dunque perduto una somma di danaro?

— Niente manco che il valore di due paia di bovi! una disgrazia orribile, amico, che mi fa dar volta al cervello, ch’è la mia rovina, quella del mio padrone e di tutta la sua famiglia. Oh Dio mio! che sarà mai di me?… e si mise a piangere e a strapparsi i capelli. — Immaginatevi, continuava, sono un povero famiglio. Il mio padrone mi ha mandato al mercato; ho venduto questa mattina; e siccome il danaro mi fu contato la maggior parte in tante svanziche, e io non voleva far solo la strada, ho aspettato a venir via assieme con altri contadini del mio paese. Per non lo perdere lo aveva riposto nelle maniche del farsetto, e il demonio mi ha tentato a gittarlo sul carro di un nostro compare. A Prademano ci siamo fermati, vado per riprendere il mio farsetto…. Oh Dio! oh Dio! non è più!… Torno a rifare la strada; ma già è impossibile che a quest’ora non l’abbiano ritrovato, e per me è finita! Oh la disgrazia orribile! – e tornava a disperarsi.

— Via via, disse Domenico, tranquillizzatevi, che il vostro farsetto è qui. Il giovane a queste parole spalancò gli occhi, vide che era vero, si gettò a’ suoi piedi, poi strinse il contadino fra le braccia, e piangeva e gridava che pareva impazzito.

— Era in un fosso, capite! l’ho veduto proprio per miracolo, e il danaro ci deve essere intatto, perchè io non gli ho che tastato il polso per di qui: e guardate, gli diceva tutto allegro, mostrandogli i danari ancora legati dai vimini. Continuarono la strada fino a Prademano, e il giovane voleva che Domenico si tenesse almeno un gruzzolo di quelle svanziche, dicendo ch’ei poteva disporne, perchè aveva credito col suo padrone di molti anni di salario, ma il buon uomo non volle neppur un quattrino; solo fermati dinanzi la porta dell’osteria, bevettero insieme un fiasco di vino e si divisero, avendo stretto fra loro una di quelle amicizie di cuore che durano finchè dura la vita. Nessuno dei bei sogni di Domenico si era avverato. Egli aveva restituito quel danaro così come lo aveva rinvenuto, senza neanche numerarlo, tornava a casa povero come prima; nondimeno egli era allegro: anzi non sapeva ricordarsi di essere stato così allegro in vita sua. Giammai abbracciò così contento sua moglie, i suoi figliuoli, le sorelle come in quella sera; gli pareva che gli fossero diventati più cari, sentiva di voler loro un bene indicibile, di voler bene a tutto il mondo, e la cenetta che essi gli avevano apparecchiato gli andò per ogni vena. Oh! egli aveva asciugate le lacrime a un disgraziato, aveva potuto sollevare un’anima afflitta, far sparire in un subito la sciagura che l’opprimeva, tornarla all’ilarità, alla quiete di prima; e questa gioia unico bene che gli era provenuto dall’accidente occorso, e l’unico ch’egli non aveva saputo prevedere, gli riempiva ora l’anima di tanta dolcezza, che gli valeva tutti i dorati castelli in aria e le matte immaginazioni che quel danaro ritrovato gli aveva per un momento fatto passar per la mente. Dopo quell’epoca non passava domenica e dì festivo che a quel casale non capitasse puntualmente Valentino, il giovane della somma perduta. Ve lo conduceva la gratitudine; e Domenico, che aveva preso ad amarlo come si ama sempre la memoria d’una buona azione, lo vedeva assai volentieri, ed uscivano insieme alle funzioni, e talvolta anche a diporto nei vicini villaggi. Egli era diventato come di casa, e non istette molto ad accorgersi della strettezza in cui si trovava l’amico. Con quei modi che sa suggerire la riconoscenza e l’affetto, ei seppe tanto adoperarsi, che finalmente lo persuase ad accettare l’imprestito de’ suoi salari. Domenico nella rettitudine della sua anima aveva capito che sarebbe stato un mal retribuire, anzi contristare l’amicizia, se per falsa delicatezza si fosse più oltre ostinato a patire egli e la sua famiglia, piuttosto che valersi di quel danaro che gli veniva offerto con tanta espansione di cuore. Per tal modo questo dolce ricambio di beneficio fatto così alla buona, ed accettato senza orgoglio, accresceva ogni dì più fra loro l’affetto. Valentino, povero orfano condannato fin dall’infanzia a mangiare il pane degli altri ed a vivere senza famiglia, riguardava come sua quella dell’amico, e tutte le ore che gli restavano libere, veniva a passarle in quel casale dove sentiva l’ineffabile consolazione di essere amato. E lo amavano tutti come un caro fratello; i fanciulletti, appena che lo vedevano capitare, gli correvano incontro e facevano allegria; le donne gli usavano le più delicate attenzioni; ma chi più degli altri mostrava interesse per lui, era la maggiore delle sorelle di Domenico, una graziosa brunetta di vent’anni dai modi ancora infantili e dallo sguardo ingenuo e gentilmente amoroso. Ella aveva sempre qualche cosa in particolare da dirgli. Era de’ suoi fiori, del nido dei colombi, del vitellino ultimo nato che la lo intratteneva: talora gli faceva delle curiose interrogazioni, gli comunicava con innocente confidenza tutti i suoi pensieri, così come s’andavano svolgendo nella sua giovane testa; e fosse caso od irresistibile forza di secreta simpatia, non era volta ch’ei venisse in casa, che presto o tardi non si trovassero seduti l’uno appresso dell’altro; e quando andavano tutti insieme a qualche sagra, se anco la Lucia uscisse di casa a braccetto colla sorella, o colla cognata, nel ritorno era sempre con Valentino ch’ella vi rientrava. Un misterioso potere, di cui non si erano per anco avvisati, teneva ammaliate le loro anime e li costringeva col pensiero o col fatto a cercarsi del continuo; sicchè non si trovavano mai tanto a lor agio come quando erano insieme. Vivere nello stesso ambiente, respirare l’aria medesima, leggersi a vicenda negli occhi ogni più intima commozione, mettere in comune tutte le loro gioie e tutti i loro dolori, quest’era per essi, se non la felicità, almeno quel più di bene di cui possa godere quaggiù sulla terra l’umana creatura. Codesta coppa voluttuosa in cui senza reflettere entrambi a gran sorsi bevevano, era dunque l’amore? Primo ad accorgersene fu Valentino. Una domenica dopo la messa, egli s’era fermato insieme con altri compagni sulla piazza della chiesa, e guardavano alla gente che usciva. Come è ben naturale, chiacchieravano di ragazze, e secondo il proprio capriccio davano la preferenza a questa od a quella; egli taceva, e senza saperlo pensava alla Lucia, quando l’udì nominare. Un giovanotto delle meglio famiglie del paese ne tesseva con molto calore l’elogio, e conchiuse dicendo ch’egli aveva in pronto un bel mazzolino, e che intendeva andare in quell’istesso giorno a’ vesperi nella parrocchia di lei per regalarglielo, e chiederle così licenza di camminare per casa: il che, stando al loro linguaggio, equivale alla protesta di volerla amoreggiare. Valentino guardò con disprezzo all’impronto chiacchierone, e stava per lasciarsi trasportare a qualche brusca parola, ma lo colpì l’eleganza del vestito che indossava cotanto migliore del suo; il cappello nuovo chinato sull’un degli orecchi che lasciava vedere la folta zazzera ben pettinata e dava garbo a quella fronte e a quel volto pieni di brio e di baldanza giovanile; un fazzoletto di seta, il cui angolo a vivaci colori faceva capolino dalla tasca, e un altro gettato a tracollo che gli si allacciava sul petto. Era la prima volta che ci badava; ma quel giovinastro che fin l’altrieri giocava colla ragazzaglia del paese alle piastrelle per le strade, era diventato un gran bel giovane; e nell’ammirarne la svelta e slanciata persona, che a guisa di fresco e rigoglioso abete s’ergeva così ben complessa sulle gambe tornite, sentì suo malgrado che la Lucia avrebbe dovuto apprezzarne l’omaggio, tanto più che si trattava d’una buona fortuna. Egli invece, povero figliuolo senza famiglia, che cosa avrebbe potuto offerirle? Chiederla in isposa, ei non aveva mai pensato a codesto: ma ora il progetto di costui gli svelava troppo bene la natura de’ suoi propri più reconditi desidèri. Chiederla in isposa egli meschino bracciante che non aveva di suo che la vita? e se anche la fanciulla accecata dall’amore avesse potuto preferirlo, dove condurla? Come provvedere ai bisogni d’una nascente famiglia? forse sarebbe stato facile trovare a pigione una cameretta e mettersi nella condizione di sottani che vivono del solo lavoro della giornata; ma se una malattia od una disgrazia qualunque li avesse colpiti, di che allora campare? ed egli che l’amava, come mai avrebbe consentito ch’ella rinunziasse a un così buon collocamento per strascinarla seco a patire nel più profondo della miseria? Queste riflessioni gli fecero, per così dire, palpar con mano la propria inferiorità, e per un momento odiò quell’avvenente giovanotto. Più lo guardava, e più si sentiva mordere il cuore da un’amarezza tale, che non potè più oltre sopportarne la presenza. Rientrato nella casa de’ suoi padroni, si occupò come di consueto nelle faccende che gli spettavano; solo quando venne l’ora dei vesperi non uscì nè chiese d’andare da Domenico: aveva risolto di non andarvi mai più. Era passato già quasi un mese ch’egli durava in tale proponimento. Domenico e la sua famiglia non potevano darsi pace di cotesto non vederlo. Da principio credettero che qualche impiccio ne lo avesse impedito, poi sospettarono che potesse giacere ammalato, e una domenica sera, dopo averlo lungamente aspettato indarno, la Lucia insieme colla cognata risolsero di andar nel dimani mattina per tempo al villaggio di lui per sapere come fosse. Le due donne s’erano avviate appena sorto il sole, ed erano andate un mezzo miglio di strada, quando s’incontrarono in un magnano che aveva la sua fucina contigua alla casa dei padroni di Valentino. Tosto ne lo richiesero. — Ammalato? rispose l’artiere, ma che cosa vi sognate? non sarà neanche un’ora ch’io l’ho lasciato nel comunale vicino al crocicchio, e se vedeste come volta la terra! le braccia intanto, affè, non pare gli si sieno aggranchite! Esse si guardarono, fecero ancora alquanti passi, poi d’accordo risolsero di tornarsene a casa. La Lucia teneva il capo chino, o lo rivolgeva dall’altra parte della via, onde nascondere alla cognata qualche lacrima che a malgrado de’ suoi sforzi voleva uscirle dagli occhi, aveva perduta la favella, era diventata pallida. A lei che in tutta la notte non aveva chiuso un occhio per paura che fosse ammalato, le parole del magnano avrebbero dovuto riuscirle di conforto, invece le avevano fatto male al sangue. Essere sano e non venire! questo pensiero continuamente le si riproduceva nel cervello, questo pensiero come spina avvelenata le si era fitto nel cuore. A pranzo indarno procurava d’inghiottire qualche boccone, le si fermava nel collo, e la notte invece di dormire piangeva. In pochi giorni ella si era talmente mutata, che tutti in famiglia se ne accorsero. Domenico, che ci aveva pensato sopra, risolse di farla finita e di andare egli stesso da Valentino e di sapere come era questa faccenda. In chiesa a’ vesperi non lo vide, aspettò un poco sul piazzale finchè fosse venuta fuori tutta la gente, pur sperando d’incontrarlo, ma indarno; allora andò dove stava di casa, e finalmente lo trovò in cortile seduto sotto la pergola malinconico e stralunato. — Valentino, diss’egli, sono venuto a vedere come la intendi, e se è propriamente vero che tu ci abbia abbandonati! Ma dico io, che cosa ti abbiamo fatto noi altri poveretti, per trattarci di questa maniera?

— Non interpretarmi a male, Domenico…. io sono un disgraziato…. ma il mio affetto per voialtri è, e sarà sempre lo stesso.

— Oh sì davvero! un bell’affetto! egli è quasi un mese che, a quel che pare, tu ci hai dato commiato, e intanto quella povera ragazza patisce…. Via, non accade far lunghi discorsi, se hai destinato farla morire, continua pure così, che te lo dico io l’hai trovato il vero modo.

— Oh non dir questo! È anzi per lei, per il suo bene, pel bene di entrambi, ch’io mi sono determinato a non metter più piede laggiù.

— Ma che pasticcio è cotesto? vi siete dunque bisticciati tra voi due?

— Oh no! la non sa niente.

— Via, parliamoci franco; l’ami tu questa ragazza, sì o no?

— Se l’amo!… Anzi perchè mi sono accorto d’amarla troppo…. poichè io sono un poveretto che non posso offerirle se non miseria…. perchè non voglio che per colpa mia ella perda una buona occasione….

— Ma se tu l’ami, ed ella ti ama, mi pare che la buona occasione non occorra aspettarla.

— Ma io, Domenico, non ho che le braccia!

— Ed ella?

— Io non ho nè padre, nè madre, nè nessuno al mondo!…. Trovar un po’ di stanzuccia e mettersi a vivere da sottani, sarebbe lo stesso che tradirla…. mentre quel ragazzotto qui dirimpetto potrebbe farla star bene, e condurla in una buona famiglia di contadini dove certo non le mancherebbe la polenta.

— Ma ella ama te, Valentino!… Io ti voglio bene come se tu mi fossi fratello.

— E io a te!

— Un fratello per me sarebbe una vera fortuna, perchè i miei campi avrebbero due braccia di più per lavorarli; e poi, se si maritasse, mi aggiugnerebbe un altro aiuto nella cognata, e la famiglia crescerebbe; e tu sai, che la disgrazia della mia famiglia è l’essere in pochi; e io non potrei lasciar partire la Lucia senza finire di rovinarmi. Ora, dico io, quello che non ha fatto il Signore, perchè non possiamo farlo noi? Facciamo conto, Valentino, d’essere fratelli; sposa la Lucia, vieni in casa nostra, io ti offro ciò che ti manca, la famiglia! e tu in compenso mi cavi dalla miseria. Il danaro che tu mi hai prestato io non posso restituirtelo, invece ti metto a parte di tutto quel che possiedo. Aiutami, Valentino, a mantenere i miei poveri figliuoli, ed essi un giorno aiuteranno te e ci acquisteranno il pane quando saremo vecchi; diventiamo fratelli!

— Fratelli, per la vita e per la morte! disse Valentino commosso; e si abbracciarono ratificando con tutta l’espansione del cuore questo santo progetto. Da quel giorno in poi essi si riguardarono sempre come se fossero nati dal medesimo sangue. Misero in comune tutti i loro beni e tutti i loro mali, e Dio li benedì; e così fu creata la prosperità di quella numerosa famiglia di contadini, che ora senza contrasto è una delle più agiate e delle più felici del paese.

Fine.


nota 1 – Cuc dicesi in dialetto friulano il marito che va ad abitare in casa della sposa
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nota 2 – Plina in friulano indica tutta la boveria d’una famiglia d’agricoltura.
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TITOLO: Il cuc
AUTORE: Caterina Percoto

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Racconti / di Caterina Percoto - Firenze : F. Le Monnier, 1858 - 553 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)