A mio papà.

E’ possibile conciliare la legalità con il valore ai diritti umani? E’ una domanda che oggi dovremmo porre, se le stime sono attendibili, a ben 30.000 italiani che, in un’epoca che ormai ci appare lontana, erano bambini.

Una generazione di bimbi impauriti, tenuti nascosti agli occhi degli autoctoni per paura di ritorsioni. Vivevano in piccole abitazioni fatiscenti, passavano le giornate chiusi nelle soffitte o negli scantinati, lontano dalle finestre, come in tempo di guerra. Anche se non c’erano né guerre né bombardamenti. Come si arrivò a questo?

É il 1948 quando la Svizzera sigla un accordo di assunzione di manodopera straniera che cambierà per sempre la sua storia. Il principale fornitore di donne e uomini è l’Italia, uno stato appena uscito da una guerra con le ossa rotte, tanti debiti e molta precarietà. É un paese giovane dove l’età media è di 26 anni, le famiglie sono numerose e già da alcuni anni sono iniziate le migrazioni economiche verso terre lontane come l’America e l’Australia.

La Svizzera, che non ha patito la recessione essendo rimasta estranea ai conflitti bellici e ha estremo bisogno di braccia, è il primo stato europeo a dotarsi di una legislazione riguardante il fenomeno migratorio.

E furono proprio gli italiani – oggi possiamo dirlo con una certa dose di fierezza – a dare il contributo più alto nella costruzione di una nazione, gli stessi che avrebbero avviato l’Italia verso un boom economico senza precedenti rispetto a tutti gli altri stati europei. Oggi la comunità italiana in Svizzera è quella più numerosa (630.000 persone), l’italiano lingua ufficiale e molti sono diventati grandi imprenditori, e se questo è avveuto lo si deve – come testimoniano i giornali dell’epoca – “alla tenace volontà e a un lavoro accanito al prezzo di grandi sacrifici”.

Ma per arrivare a questo benessere bisogna tornare indietro a quegli anni e capire cosa dovettero sopportare quei nostri immigrati.

Nel secondo dopoguerra camminando per le vie elvetiche ci si imbatteva in scritte che equiparavano esseri umani a bestie: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. L’accesso alla maggior parte dei locali, agli uffici, alle sale di attesa gli era precluso, proprio come vergognosamente accadeva ai neri dall’altra parte del mondo nell’America segregazionista.

Le prime umiliazioni avevano inizio nei luoghi di arrivo: i lavoratori che arrivano presso le stazioni al confine venivano spostati in capannoni, fatti spogliare e lavati con le canne dell’acqua fredda; poi cosparsi di DDT, un potente insetticida, una procedura umiliante molto simile a quella che era stata riservata agli ebrei prima di entrare nei campi di concentramento. Dopo la “pulizia” si passava a un’accurata visita che a valutarla oggi rassomigliava più ad un controllo di bestiame che di esseri umani. Vennero segnalati casi di donne che, rifiutando di svestirsi, venivano picchiate e rispedite al di là della frontiera. Come ci sono giunte testimonianze di donne incinte che, sottoposte in pieno inverno a docce gelate, contrassero la polmonite e vennero lasciate morire senza cure, racconti allucinanti che sono stati rivelati solo molti anni dopo.

E una volta entrati in Svizzera cominciavano le ostilità. Al malcelato astio degli autoctoni (“questi devono solo lavorare, abbassare la testa e chiudere la bocca”) si sommava il livore degli immigrati francesi e tedeschi, che facevano a gara per affibiare nomignoli offensivi e dispregiativi: arrivano gli ingoiapolenta, ecco gli affettasalame, tanto per rimanere in tema gastronomico e risparmiarvi i peggiori epiteti. Da allora sono stati in pochi a ricordarci che gli italiani sono stati oggetto degli atti piu clamorosi di violenza collettiva di tutta la storia moderna dell’immigrazione.

Sono frequenti i casi di linciaggio, bastava una discussione per motivi futili per aizzare le ronde punitive.

Merita un ricordo il povero Alfredo Zardini, picchiato selvaggiamente senza motivo mentre beveva un caffè prima di recarsi al lavoro in un’azienda di Zurigo e lasciato agonizzante per quasi un’ora su di un marciapiede, dove morì perché nessuno gli prestò soccorso.

Inoltre nessun paese europeo registrò un così alto numero di morti bianche come quelle italiane, che in Svizzera raggiunse l’apice presso la diga di Mattmark (88 morti). Una tragedia che ovviamente poteva essere evitata se solo si fosse dato un minimo di importanza a quelle vite.

Il perché di questo razzismo anti-italiano – che tra l’altro ho scoperto avere un nome: italofobia – è da ricercare anzitutto nel fatto che le altre migrazioni (tedeschi, austriaci e francesi) erano precedenti alla nostra e questo aveva dato tempo agli altri di adattarsi al tessuto sociale permettendo ad alcuni di arrivare ad occupare mansioni più alte, a conferma che non sempre è il colore della pelle o l’etnia a fare la differenza, ma semplicemente la quantità di denaro posseduto. Nonostante ciò gli italiani erano ritenuti indispensabili all’economia, richiestissimi nelle infrastrutture, nell’edilizia e nelle fabbricazioni industriali, non solo in quanto considerati abili e più produttivi, ma anche perché maggiormente sfruttabili: più ore a salari più bassi. Furono gli italiani a contribuire più di chiunque altro alla costruzione delle grandi opere pubbliche svizzere, quelle dei trafori e delle dighe, accettando i lavori più duri e pericolosi.

Un altro motivo di razzismo era dovuto al fatto che gli italiani, a differenza delle altre comunità di stranieri, mantenevano salde le proprie tradizioni, si riunivano tra loro, amavano vivere in comunità aiutandosi gli uni con gli altri, e per questo venivano percepiti più di altri come stranieri. Inoltre, essendo coinvolti anche in lavori stagionali, in certi periodi erano numericamente in maggioranza. Non è poi da sottovalutare l’aspetto caratteriale; l’italiano per indole non riesce a stare zitto di fronte alle discussioni: se si trovava coinvolto in situazioni di intolleranza e ostilità reagiva a suon di pugni o mettendo mano al coltello, che riguardasse lui o qualche amico. Se un italiano picchiava uno svizzero 10 svizzeri reagivano e a questi spesso si univano i tedeschi e i francesi. Da qui la fama di italiani “delinquenti”. Una realtà falsificata causata dal malgoverno delle autorità elvetiche che caratterizzò anche altri paesi europei come il Belgio, la Germania e la Francia.

Insomma: facevano lavori massacranti, vivevano in condizioni pietose, sfruttati, schiavizzati, perseguitati e spesso uccisi come cani, e utilizzati come capro espiatorio dai governanti di turno per fare carriera.

Vi era un’ulteriore differenza rispetto alle altre migrazioni. Tolto i frontalieri, gli italiani dopo aver contribuito a costruire il paese di accoglienza tendevano a restare e a fare carriera. I casi furono moltissimi, come quello di Dante Baudrocco, partito dal Piemonte, che dopo anni passati a risparmiare creò a Losanna una ditta di costruzioni talmente grande che lo rese immensamente ricco.

La maggior parte dei lavoratori preferiva portare con sé moglie e figli o farsi raggiungere poco dopo. É proprio per questo che, pur trattandosi di lavoratori regolari in possesso di documenti e giunti su richiesta, le autorità svizzere introdussero in quegli anni leggi molto restrittive per ostacolare in ogni modo i ricongiungimenti familiari.

Vi fu un politico svizzero, James Schwarzenbach, che condusse un’autentica campagna anti-italiana: “Studiano, s’ingegnano, scalano i posti dei nostri: mettono in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello mentre si ritrova davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano”.

E riguardo a mogli e bambini? “Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello”.

É con queste premesse che si creò una realtà parallela e angosciante: quella dei piccoli sepolti vivi nelle case. Un mare di bambini che la società svizzera non voleva, e che in mancanza di alternative (chi non aveva nonni o parenti a cui affidarli) erano costretti a restare chiusi in luoghi di periferia per paura di far espellere anche i genitori. Bimbi invisibili ai quali era negato giocare, alzare la voce per ridere, avvicinarsi ad una finestra, correre alla luce del giorno. Piccoli privati di qualunque diritto. I genitori, terrorizzati dalle denunce dei vicini, si rivolgevano alle parrocchie e alle associazioni, perfino alle ambasciate per poter far studiare i figli. Vennero così organizzate scuole clandestine, tra legge e solidarietà, dove le finestre però erano sempre chiuse, dove si parlava solo a bassa voce e ci si spostava di sera, sempre con la paura di essere scoperti e puniti.

E chi veniva scoperto finiva negli orfanotrofi di frontiera, che pullulavano di piccoli denunciati.

Alla Casa del fanciullo di Domodossola, su 120, 90 erano bimbi espulsi e allontanati dalle famiglie per anni. Tutto questo è stato rispolverato e denunciato solo di recente dal libro della scrittrice Marina Frigerio “Bambini proibiti”.

La quale ha raccolto la testimonianza di famiglie distrutte e di una intera generazione di bambini cresciuti come orfani pur avendo i genitori, abituati a vivere in un’alone di silenzio e che, una volta adulta, ha continuato a parlare sottovoce.

Ricordi traumatici che evidenziano un dramma tenuto nascosto che le autorità svizzere ovviamente hanno tentato in ogni modo di insabbiare. Un modus operandi terribilmente discriminatorio che purtroppo venne copiato da altri paesi che davano lavoro ai nostri connazionali.

Vale la pena riportare le parole di Massimo Lorenzi, famoso giornalista italo-svizzero, che ricordando quel passato buio e non troppo remoto, ha detto:

“Sono ricordi che fanno ancora male anche se ho cercato di dimenticare. Senza rancore. Ma senza oblio“.

Per approfondimenti:

“Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera” di Toni Ricciardi

“Bambini proibiti” di Marina Frigerio