Il buon metodo

di
Guido Cremonese

tempo di lettura: 14 minuti


Premetto che la signora Livia Molteni, quantunque abbia cinquant’anni, è bellissima: anzitutto perchè non ne dimostra più di trentacinque – l’età, quest’ultima, della maturità procace, in cui la donna, presa quasi dalla nostalgia della gioventù e dalla fretta… di non perder tempo, gode e… fa godere tutte le esuberanze di quello che è il più bel periodo della sua vita – eppoi è bellissima, ripeto, perchè non le manca nessuno dei doni di Venere.

Detto questo, ho detto che mi piace: e non me ne vergogno, perchè la freschezza di Livia Molteni non ha nulla da invidiare a quella di una giovanetta; e il suo sorriso è giovane; il suo riso è pieno, argentino, come suole esserlo a vent’anni.

E poichè parlo di una signora che non è mia moglie, mi pare di aver detto anche troppo: una parola di più, e la comprometterei, compromettendo me stesso.

Perchè, purtroppo, la signora Molteni ha un marito geloso. E nulla è più seccante, al mondo, di un marito geloso, che si immischia di tutto, che vuol sapere, vedere il perchè di tutto… che non è filosofo, insomma!

Premetto un’altra cosa: fino a due anni fa (quando la conobbi) la signora Molteni non era bella. Era magra, macilenta; aveva l’aspetto di persona che soffra nel fisico e nel morale.

Io – posso dirlo con orgoglio – ho operato la sua guarigione senza essere un medico: anzi, forse proprio per ciò.

A questo punto mi pare di udire molte lettrici chiedermi il segreto della cura. Una ricetta? No, davvero! Lo specifico io non lo indico nè lo vendo a nessuno: leggete fino in fondo questa specie di confessione e saprete in che consiste la cura. Provate, poi, e vedrete gli esiti.

Il commendator Dario Molteni, fino all’anno scorso, fu l’uomo più brutalmente egoista che possa immaginarsi.

Sposata Livia giovanissima, non avendo la preoccupazione del danaro – grazie ad un patrimonio cospicuo – egli, come tutti gli uomini che si annojano, pensò a crearsi un’altra preoccupazione. L’impiego governativo non gli bastava: era quello, per lui, un modo di passare il tempo; ma ve lo passava annojandosi per far dispetto allo Stato.

Ed ecco sorgere nella sua mente, fino dai primi giorni del matrimonio, un’idea che poi diventò un piano, un romanzo, un sistema, una mania addirittura.

Cieco credente in Balzac e nella sua Fisiologia del matrimonio, egli era persuaso che tutti i mariti sono… disgraziati. Data la nostra legislazione sul matrimonio, che lega a vita due individui anche quando non s’intendono assolutamente, l’idea di una catena in comune con una donna che potesse farlo diventare… ciò che ho detto, era tale da renderlo furente.

«— Amante! – egli diceva – Ecco l’unico genere di legame che non crea… sventure conjugali, o che, creando qualcosa di simile, ha il vantaggio di una rottura pronta e completa. Eppoi, una donna ama il proprio amante perchè non vi è obbligata, perchè può perderlo… mentre una moglie, sapendo di aver pieno diritto di possesso sul proprio compagno di catena, non teme di perderlo, non se ne cura, se ne annoja, lo inganna!»

Data la progressione aritmetica di questi sentimenti, Dario Molteni ne deduceva con la massima sicurezza: – «Mia moglie non m’inganna ancora, perchè non ne ha avuto il tempo; ma mi ingannerà.»

E, poichè era un uomo ingegnoso, fece un piano, lo attuò, riuscendo, con un’arte balzacchiana, ad evitare lo scorno… del disastro conjugale.

«— L’amore – egli disse a sè stesso – si conserva in due modi: o coll’amore o con la gelosia. Il primo metodo è buono solo per gli amanti; il secondo è ottimo per i mariti.»

E così egli ottenne, per venticinque anni di matrimonio, il risultato di vivere legato ad una donna che si fece brutta per le continue sofferenze, per le mortificazioni, per la gelosia; ma che, almeno, non lo rese ridicolo.

Io non so davvero se questo vivere accanto ad una donna che potrebbe esser bella ed è resa brutta, possa chiamarsi un successo.

Tutti i capricci, veri o non veri, egli seppe soddisfarli o farli balenare sotto gli occhi di Livia: in cambio delle infedeltà che gli furono risparmiate, egli ne prodigò generosamente a sua moglie: soffrendo dapprima di una trascuratezza calcolata; trascurandola poi con indifferenza, perchè Livia, gelosa e sparuta, non era tale da reggere al confronto con molte care amiche che si facevano quasi un merito di renderle più pesante il fardello di tante… infelicità conjugali.

Vi furono spesso delle scene: qualche tentativo di ribellione; una o due prove di correzione energica… che però fecero ridere un uomo robusto come Dario Molteni; poi la donna si rassegnò: un sorriso mesto formò la maschera che rese indecifrabile il suo carattere; cercò nella chiesa un conforto, e si illuse di averlo trovato nell’abitudine di frequentare un luogo di culto e di biascicare delle preghiere senza seguirle con la mente e col cuore…

E così Dario Molteni pensò di aver trionfato della teoria di Balzac e di aver sepolto per sempre, viva, colei che aveva sposata solo per farne una vittima, un’ombra fra i viventi.

Quando lo conobbi – circa due anni fa – Molteni era ciò che suol dirsi un compagnone.

Menava una vita da scapolo: la clausura in casa sua era stata tolta, perchè, oramai, sua moglie non era più pericolosa; perciò si viveva in quella casa e in compagnia di quell’uomo una vita beata, di godimenti luculliani e di conversazioni pungenti, caustiche, interessanti, che non potevano davvero stancare la piccola coorte di ospiti abituali che Molteni si era scelta.

Livia non soleva intervenire ai nostri banchetti: o se si mostrava – nell’abito e nell’acconciatura quasi monastici – era per un momento, per semplice convenienza.

Fu in questi banchetti che Molteni ci espose la sua teoria.

Una sera si parlò di matrimonio: uno dei presenti doveva ammogliarsi; un altro gli fece qualche augurio a doppio taglio… e da ciò nacque la discussione sugli infortunî matrimoniali.

— Dovrebbero fare una società di assicurazioni! – propose quel capo scarico di Bersi.

— L’assicurazione la dò io! – rispose Molteni.

E, con una freddezza che mostrava il suo profondo egoismo, ci raccontò tutta la storia di passione e di martirio di quella povera donna che davvero poteva dirsi santa: e ci espose i capisaldi di quello che chiamava il suo metodo.

La serata era calda; avevamo bevuto più del solito, colla scusa di brindare alla fortuna del nuovo candidato al matrimonio; le parole scorrevano anche troppo facilmente; le idee si incalzavano, eccitandosi, diventando paradossi, sfide assurde, follie.

Fu in un momento di massima eccitazione che Molteni, non sapendo certo più quello che si facesse, fece chiamare sua moglie.

Delle risate, qualche urrà accompagnarono la proposta; ma quando Livia, seria, severa, si presentò fra noi, parve che su ognuno dei convitati cadesse un lenzuolo ghiacciato. Solo Molteni, con un riso forzato, sostenne il diapason dell’allegria mostrata fin allora.

— Vieni qua – disse a sua moglie.

Livia, rigida, gli si pose accanto e, invitata con insistenza, sedette. Le sue linee erano regolari: non era bella, perchè sciupata, avvizzita da una sofferenza che non le dava tregua.

— Voi vedete qui la donna più perfetta, più affezionata che sia mai esistita.

Siccome nessuno di noi fiatava, egli rivolse la parola a sua moglie.

— Livia, sono molti anni che ci siamo sposati: tu hai molto sofferto, è vero; ma ti sei risparmiata le sofferenze – assai più atroci – che dà ad una donna l’infedeltà conjugale. Non siamo stati felici; ma che importa? Non siamo stati neppure infelici.

— Forse… – obbiettò Livia a bassa voce.

— Ormai tu sei giunta a quarantanove anni: un’età in cui non si corrono più pericoli e non si commettono più follie…

Offerse da bere a Livia, che, senza mostrarsi punta da quelle grossolane osservazioni, rifiutò dolcemente il bicchiere.

— È venuto il momento della grande rivelazione! – continuò egli. – Anch’io, ormai, non sono più pericoloso…

Vi fu qualche voce di protesta: ma Molteni era evidentemente convinto di quanto affermava, perchè insistette:

— Non vi è più pericolo per nessuno dei due! È perciò venuta l’ora di toglierti il peso della tua gelosia, povera donna! Sappi dunque che fin dal primo giorno del mio matrimonio non ho avuto che un pensiero: la tua fedeltà. E siccome il mondo è perfido, e le donne vi si perdono, se non sono guidate da una mano di ferro, io sono stato la tua mano di ferro e ti ho salvata dalla perdizione. Consolati dunque doppiamente: di non aver commesso quei peccati che ti ispirano tanto orrore e di non aver avuto quel marito pessimo che hai sempre creduto.

Livia, ora, lo fissava cogli occhi spalancati.

Comprendeva che sul vino galleggiava la verità, ed ascoltava ansiosamente, quasi con paura, come chi vede davanti a sè un insospettato abisso.

Nel suo animo, in quel momento, si affacciava tutto un passato di gioje, di piaceri, di gioventù perduti, sacrificati all’egoismo cieco di un uomo incosciente.

— Non capisci? – continuò Molteni – Io non ti ho mai tradita nel vero senso della parola… Io non ho fatto altro che renderti gelosa, che conservare, alimentare la tua gelosia, per dare un pasto continuo alla tua mente e per non lasciarti il tempo di pensare ad altro o ad altri. Capisci, adesso?

Rammenterò sempre l’occhiata fredda, tagliente, velenosa che Livia lanciò a suo marito. Tutti i dolori sofferti furono riassunti in uno sguardo di odio e di vendetta: tutte le energie di un’anima superiore – chè tale mi apparve in quel momento – si concentrarono in quei due occhi penetranti come lame ghiacciate. Ed in un istante di trasfigurazione fu bella: bella d’ira e di delusione; di luce nuova e di odio.

Livia si rizzò senza fiatare e si allontanò.

— Povera Livia! – le gridò dietro Molteni a guisa di saluto – Consolati, va là! Ormai non abbiamo più ragione di esser gelosi nè l’uno nè l’altra.

E proruppe in una risata che rimase sola, isolata, troppo rumorosa in quella vasta sala in cui nessuno osò ridere: uno scroscio stonato, dissonante, quasi lugubre.

Cinque giorni dopo, verso l’imbrunire, io ero solo, nel mio appartamentino da scapolo.

Terminavo una sommaria toeletta da sera, allorchè fu suonato alla porta. Quantunque i campanelli elettrici non vadano soggetti – come i loro predecessori a cordone – all’obbligo di rappresentare sonoramente lo stato d’animo di chi li preme, pure esiste anche in essi quella che chiamerò la psicologia della scampanellata.

Questa era una suonatina breve, timida, riservata.

Andai ad aprire e mi trovai di fronte ad una signora elegantissima che sul momento non riconobbi.

La signora non attese un invito: entrò risoluta; ed a me non rimase che chiuderle la porta dietro le spalle.

Un vago ricordo di certe linee… poi un’esclamazione di sorpresa.

— La signora Molteni!

— Sì! Sono io! Livia Molteni! – mi rispose con franchezza smentita dal tremore della voce.

Per un momento rimasi perplesso come uno scolaro.

— Ho da parlarle, Savi: permette?

La presi per una mano e la condussi in salotto.

Livia lasciò fare: poi – evidentemente novizia – si fermò nel mezzo della stanza guardandosi attorno con timida curiosità.

Ma le donne – anche le più inesperte – hanno delle riserve di spirito ignote a noi uomini.

Non lo dico per vantarmi: nella sua semplicità, il mio salotto è molto artistico. Poche sculture, grandi quadri… si abbraccia tutto con un’occhiata; ma poi si prova il bisogno di osservare. L’armonia delle parti è forse ciò che lo rende più interessante.

Fu per questo che Livia, per alcuni minuti, rimase come dominata dalla severa semplicità dell’ambiente.

— Mi aspettavo tutt’altro… – mormorò.

Io la guardavo, stupito della metamorfosi.

Non era diventata la Giunone di oggi: ma già il colorito delle guance, la pettinatura, il sorriso, ne facevano un’altra.

Quella donna, che non aveva sciupato il suo corpo in orgie, in veglie prolungate, aveva, per così dire, messo in serbo una gioventù che ora minacciava di sbocciare come una nuova primavera.

L’eleganza, il buon gusto, poi, erano completi.

— Lei mi guarda con meraviglia… Ebbene, sì! Sono proprio quella stessa Livia Molteni che lei considerava, fino a poco fa, come una vecchia suora.

— Ciò prova una volta di più che l’abito non fa la monaca…

— Lei si chiederà anche con meraviglia che cosa mai una donna quasi sconosciuta sia venuta a fare in casa sua.

— Quando si ha la fortuna di ospitare una bella signora, non ci si domanda il perchè della sua visita… a meno che…

— A meno che?

— Scusi… non posso continuare: non ho il diritto di dirle una parola che ella potrebbe interpretare come un’impertinenza.

— Ma dica! dica pure! Non è amico di mio marito? Dopo quello che ha udito da lui…

Si interruppe commossa.

— Signora… mi permetta di dirle che ho deplorato la condotta di Molteni… e che nessuno dei presenti ha preso parte al suo riso.

— Io posso deplorare la sua condotta passata; quella dell’altra sera no, perchè mi ha aperti gli occhi.

— Temevo che… l’averli aperti fosse un maggior dolore per lei.

— No – rispose con fierezza, ergendosi sul bel corpo – perchè non credo di averlo fatto troppo tardi!

Compresi ad un tratto la donna, il suo pensiero, le sue intenzioni. La osservai bene e mi piacque… Eppoi, quel Molteni meritava una punizione.

Ma il momento era estremamente critico. Avevo degli enormi vantaggi, era evidente; ma un atto di vanità, un eccesso di sicurezza, da parte mia, avrebbero rovinato tutto. Eppoi… una donna, mutata così rapidamente, non mi ispirava troppa fiducia.

Padrone di me, risposi con calma:

— Credo che Molteni abbia sbagliato i suoi calcoli. Il metodo da lui adottato, quantunque perfido, era sicuro; ma… avrebbe dovuto aspettare almeno altri vent’anni, prima di rivelarlo.

Questo complimento – forse il primo che riceveva dall’epoca del suo matrimonio – fece imporporare le gote di Livia. Siccome non rispondeva, aggiunsi:

— Fortuna che Molteni ha una donna saggia e superiore a lui in tutto e per tutto.

Livia abbassò un momento il capo: poi, rialzandolo con uno scatto nervoso, mi rispose:

— Ma non sa che qualunque donna, al mio posto, si vendicherebbe? Ha detto che ormai il pericolo è finito per tutti e due! Per lui, sì, lo credo!… ma per me… non mi pare, malgrado i miei quarantanove anni.

— Signora: l’aritmetica, a dispetto di ciò che ne dice Scribe, è un’opinione. La mia è per i trentacinque.

Livia rimase un momento confusa, ma evidentemente soddisfatta.

— Certo – aggiunsi prendendole una mano – vorrei essere io il vendicatore.

— Sono venuta – mi rispose nervosamente, ritirando la mano – non per vendicarmi, come qualunque altra donna farebbe al mio posto, ma per prendermi una rivincita. Farmi un amante, alla mia età, sarebbe una follia. Di un giovane sarei gelosa… e lo sono stata abbastanza finora…

Non disse che non avrebbe voluto un vecchio, ma lo compresi.

— E se il giovane potesse divenir geloso alla sua volta?

Il suo sguardo, il suo sorriso, in un trionfo di espressione, dissero quanto l’avrebbe resa felice una simile fortuna. Lo compresi: tutto era lì.

— Ella è umiliata dell’affronto subìto: si vendica abbandonando l’abito monacale e rendendo alla sua volta geloso suo marito; fa una visita ai convitati dell’altra sera per mostrare… che il pericolo non è passato affatto… e fors’anche perchè spera che Molteni ne sappia qualcosa e ne soffra a sua volta.

— Precisamente! Mi ha compreso! Gelosia per gelosia, tormento per tormento, egli deve scontare tutte le torture di questi venticinque anni! Ed in poche parole mi accennò la storia dei dolori che io conoscevo.

— Ma – obbiettai timidamente – Molteni non si è contentato delle apparenze: è stato un infedele in tutto il senso della parola.

— Non so neppur io… Non mi dica nulla… Ho paura di essere ridicola… Ma studierò… vedrò… – concluse scoppiando in singhiozzi – Mi vendicherò!

Le presi di nuovo una mano, che stavolta ella non ritrasse: una mano morbida e vellutata.

— Andrò da tutti… Mi farò vedere con tutti i suoi amici… Farò a lui ciò che egli ha fatto a me… Soffoco!…

E, commossa, affranta, si abbandonò sullo schienale della poltrona.

Mi trovavo in una delle situazioni più ridicole. Quella donna era svenuta o fingeva di esserlo? Dovevo prestarle un soccorso… comune, o uno… straordinario?

E se avessi avuta una delusione?

Delusione? Nei casi dubbi io non ho mai esitato: perchè anch’io, come Molteni, ho un metodo.

Pensai che, prima di tutto, quando una signora afferma di soffocare, bisogna renderle possibile il respiro slacciandole il busto.

Ebbi una prima sorpresa. Evidentemente quell’abito monastico era fatto per macerare la carne ed allontanare il peccato. Ma come mai una donna così… florida aveva potuto resistere alle tentazioni, all’esuberanza delle energie amorose che certo un corpo tanto giovane e fiorente doveva rinserrare?

La mia diffidenza a proposito dello svenimento non mi impedì di constatare, di toccar con mano certe realtà.

— Se finge – pensai – e lascia fare, tanto meglio! Andiamo avanti! Mi servirà per sapere come devo regolarmi, e se val la pena di continuare.

Ma il busto non si poteva aprire del tutto, perchè chiuso alla cinta dalle vesti: e siccome la signora soffocava sempre, slacciai le vesti. Nuovo insuccesso!

Veramente avevo fretta di farla rinvenire; e poichè a un certo momento parve cadere dalla poltrona, fui così malaccorto da volerla stendere sul divano.

Non pensai che le vesti erano sciolte!

E mentre sollevavo un corpo assai più pesante di ciò che immaginavo, veste e sottoveste caddero a terra, mettendo allo scoperto delle rotondità e delle forme non sospettate.

Ah, quel Molteni! Che imbecille!

Sdrajata la signora sul sofà, davanti a tanto spettacolo non potei non baciarle le mani; e le mie calorose premure ebbero il benefico effetto di farla rinvenire.

Immaginate la confusione di Livia nel vedersi in tale costume; e i miei complimenti, il mio entusiasmo, il mio slancio!

Ah, caro Molteni! Quando si vuole che una moglie si conservi fedele, anzitutto non bisogna sciupare le proprie forze fuori di casa; poi, non bisogna farle soffrire la fame! Specialmente quando tutte le amiche messe insieme non valgono un quarto di una simile donna!

Quarantanove anni!

Io, quella sera, la degradai a trentacinque… e Livia lasciò fare allora e sempre.

Lo crederete? Io sono geloso!

Quando una donna, in tali condizioni fisiche, si decide ad aprir gli occhi, non si sa mai come e quanto li tenga aperti. E se volesse applicare a Molteni la pena del taglione? Ha tanti amici, quel marito incomparabile!

È vero che Molteni, ora, la sorveglia: ma a che giova? Si è forse accorto di qualche cosa a mio riguardo? Per conseguenza, se è un cane da guardia, quello, è un cane senza denti.

Io sono fedele a Livia e meriterei altrettanto da parte sua. Certo, non oso applicare il metodo Molteni. Ho visto che risultati dà. Bel gusto! Sperperare la propria sostanza, facendo fare economia alla propria moglie… e poi esser costretto a digiunare per mancanza di denti… quando la moglie, ricca, sperpera le economie cogli amici… o piuttosto – almeno lo spero – con un amico!

Lettrici, avete imparato il metodo di Livia: sapete, omai, come si fa a ringiovanire.

Lettori, avete imparato il metodo di Molteni: sapete omai che neanche questo è buono a preservare dalle disgrazie.

Meno male che Molteni ha parlato in tempo! Quest’ultima osservazione, naturalmente, riassume ciò che ho imparato io.

Fine.


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TITOLO: Il buon metodo
AUTORE: Guido Cremonese

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le novelle dello scettico / Guido Cremonese. - Bari : Humanitas, 1913. - 304 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC019000 FICTION / Letterario